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TOMMASO CAMPANEI.I.A PREJAZ;10NE Tra i segni più espressi delP altezza dell'in* gegno e della grandezza delP animo si è la fede nelPumanità, nel suo progresso, nel suo migliore destino^ quando ì passaggieri rappresentanti di que"* suoi gruppi che si chiamano Stati o culti rispondono agli aneliti, alle speranze del bene con le prigionie, coi tormenti, co' roghi. Il Con- dorcet che rifuggendo nella morte dalle persecu-^ zioni di quella repubblica ch'egli s'era augurata e avea datp mano a edificare, scrive il libro delle profezie dell'umana perfetti vi tà , è ammirabile come Campanella, che tra ineffabili strazj e noa mica nei giardini di Àcademp come Platone, sogna la Città del sole; Tommaso Moro, morendo per la sua fede , non rinnegò 1' Utopia ,- mostrò anzi la sua ferma credenza esservi un luogo , al ciii esempio dovea venirsi mano mano formando quello ch'ei non trovava ancora in terra. Il più sublime ideale è quello della perfezione umana. La diversa posizione di quest'ideale non fa caso. Se alcunij credono che Lo $eeol j^mo q;uanV oro fu bell^ X PREFAZIONE. ed altri che T aurea età c^^è in cospetto, se in alcuni è un rimpianto, in altri una speranza^,, non fa caso. È sempre un ideale acquistabile o racquistabiip-, i grandi spiriti che raflTermano col martirio delP intelligenza, o col sagriflcio della vita, sono i veri precursori della redenzione so- ciale. Noi diamo qui insieme il Moro e il Campanella; il riformista un po'* fantastico, e il comunista strettamente logico. Aggiungiamo uno scherzo del Gozzi, che mostra come anche ai più scapati ba- leni Tidea del perfezionamento degli ordini e della vita sociale; eterno fantasma, che ricompare come il padre di Amleto, narrandovi del veleno stillatogli neir orecchio, ma che uccidendolo non gli tolse né la vita spirituale, né il modo di ve- dere le sue vendette. VUlopia uscì a Lovanìo nel 1516 Tanno in- nanzi airinsorgere di Lutero contro Roma, e un cinque anni innanzi alPapparire degli Anabattisti. VUtopia era una specolazione filosofica, ma le teorie sociali escon dai libri e s** approntano a battaglia. Cosi ai dì nostri i sistemi di Fourier, di Cabet, di filane combatterono le giornate di Giugno. Non vogliara dire che gli Anabattisti pro- cedessero dal Moro, ma che procedevano da quel- Tordine dMdee di rinnovazione sociale, eccitate dai disordini ed abusi del tempo, e fomentate dalla rinnovazione religiosa, ordine d'idee, onde il Moro fu il precursore e 1 oracolo. Utopia^ dice il Sudre, che in parte seguiamo nel nostro giudizio, pare vocabolo formato da due parole ou-topos, letteralmente non luogo^ in nes- suna parie. — LMsola d^Uto^ia significa dun(]^ue PRSFAZIOITK. XI risola che non è in nessuna parte^ il paese im* maginario. I riformatori seguenti presero da que- sto libro il nome, ed in buon dato le idoe^ le censure deirordine sociale, le declamazioni con- tro la proprietà, le pitture delle miserie dei pro- letari, gli encomj della vita in comune, i mezzi d'organizzazione. li Sudre nota che il concetto delP Utopia si parte a quattro fini : alla censura dello stato del- ringhilterra e della politica dei principi contem- poranei^ alla censura del principio della proprietà individuale-^ al disegno d'Anna società fondata sul principio della comunanza-, alPesposìzione di un sistema di politica esterna, applicabile airinghil- terra indicata sotto al nome trasparente di Uto- pia. Diverso da Platone il Moro abolisce la pro<* prietà, non la famiglia. Allo schema generale sMntrecciano molte ri^ flessioni e quasi divinazioni bellissime. Egli im-* pugna Tabuso della pena di morte prodigata ai ladri, ed aaticipaado gli Enciclopedisti francesi e il Beccaria mostra V inefficacia delf atrocità dei supplizj. Predica la tolleranza religiosa, sfata la nobiltà del sangue e deride Tastrologia giudi- ciaria. Eurico VII! non sMmpermall ielVUlopia^ lo mandò poi a morte per altro \ ma gP Inglesi lasciarono volentieri il campo libero al pensiero filosofico nelle riforme sociali, sapendo che il paese non se ne appropria e assimila il meglio che a poco a poco e come per un processo fisio- logico-, essendo più o meno sicuri dei migliora- menti ideati, a suo tempo, quando siano effettua- bili. Non consentono pari libertà al pensiero filo- soUco, neUe cose di religione, essendoché per uà tn l^fiBFAZIONB. instìntivo timore sentono che la discussione pò* trebbe far crollare la Chiesa. Dando ad Utopia il senso corrente, parrà. che questo vocabolo si aggiusti meglio alla Città del Sole^ che al libro del Moro. È un fatto che Ti- deale trae ì suoi fili e colorì dalP ambiente in cui si sogna*, e pertanto T ideale politico del Cam- panella esce dai chiostri, e quello del Moro dalla vita inglese. La libertà britannica è il portato dei secoli, e non s'^è svolta rapidamente e pienamente che da Guglielmo III ai nostri giorni; ma i germi erano grandi e fecondi anche sotto gli arbitrj di Enrico Vili, e soprattutto sussisteva T energica e indipendente natura inglese^ onde il Moro è si possente germoglio. Pertanto egli ha un telaio quasi rettorico e un contenuto filosofico; mentre il Campanella ha un telaio filosofico e un conte- nuto quasi rettorico. Del cancelliere inglese molte idee son passate nella vita politica; del frate ca- labrese non sappiamo che sopravviva nel pregressa civile, sebben molto sopravviva nel movimento della vita filosofica. Quando Enrico Vili, ribellatosi al Papa, si penti d^ averlo difeso con un libro contro Lutero, vo- leva girare al Moro quel suo rimorso; ma il zelante cattolico dichiarò non avervi fatto al- tro che dargli ordine, disapprovando anzi IMn- definita ed assoluta superiorità che si dava al pontefice nelle cose del regno. Egli restringua questa superiorità alla religione; ma in tal punto il suo ferver naturale, lo stomaco delle libi- dini di Enrico, i perìcoli delP eresia, che già si mostrava, quale col lungo andar del tempo divenne;} rivoluzione sociale ; le picche e gli urt,i PRBFAZIONB XHI • della contraddizione, io trassero in teoria ai fu- rori àel De Haistre^ e a giudicar dalle sue pa- role non si sarebbe astenuto dal sangue degli ere- tici — Molti uomini discreti e imparziali lo misero pertanto, sulla sua fede, in voce di persecutore; senonchè il Nisard , con una bella e fondata di- scussione, lo purga dalle accuse e prova con le parole stesse del Moro, non viste forse dagli ac- cusatori n che egli non fece quel passo , si facile ai fanatici, dalla penna alla scure. Nel fine della sua apologia egli disse : E di tutti quelli che mi vennero mai a mano per delitto W eresia , nes- sunOy e ne chiamo Dio in testimonio ^ ha da me ricevuto altro male che esser rinchiuso in luogo sicuro — né tuttavia si sicuro che Giorgio Co- stantino singolarmente , non sia riuscito a fug- girne; — se ne levi ciò, io non ho dato a nes- suno né flagellazioni^ né battiture^ e neppure un buffetto in fronte, a Else had iteuer ant of THEH AUT STRIPE OR STROKE GIVE THEM, SO MUCHE AS A FYLIPPE OIT THE FOREHEAD. »'E più innanzi — In quanto agli eretici , io detesto le loro eresie^ e non le loro persone, e vorrei con tutto il cuore che Fune fossero distrutte e le altre salve. Confessione credibile ad un uomo, che af- frontò la morte di si gran cuore e si buon umore, e che fu veramente il rovescio di quei cattolici, che presero poi a difendere la Chiesa daiP ere- sie col sangue e le falsità. Il Moro fu non senza ragione comparato a So- crate per la sua ironia nella vita e nella morte Notevole è che egli era un uomo timidissimo e un buffetto in fronte gli facea paura *, e tuttavia scherzò nel salir lo scaleo del patibolo, ed ezian- MoBO e Camp. ** XIV fhkfahons. dio nel por la testa sul ceppo. Com^ egli apparec- chiò i suoi air ultima sventura, con isgomenti, direna cosi graduali^ e repentini avvisi di rovina imminente, facendo in mezzo ai desinare piccliìar alle porte e dire che la giustizia il voleva, cosi certo apparecctìiò sé stesso meditando e facen- dosi famigliare la morte. V^ha un tempo in cai dall' un Iato imperversa la ferità del sangue^ e dair altro sorge un coraggio indomito e faceto contro r atrocità de"^ carnefici , che finirebbero a smettere, non per sazietà né per ìstanchezza, ma per non essere più burlati. -^ In questa parte di costanza, di coraggio, di lepore il Moro é un esempio immortale, e non v^^ha supplizio, che più del suo , renda odioso Enrico Vili , tiranno si odioso per quel misto di crudeltà e liissuria, ch'^è il colmo delia perversione umana. Gli ultra-cattolici non riuscirono a guastarci Tommaso Moro: é tutto dire. I nuovi farisei pren- dono tutti i gran personaggi della storia, e SjB nei tempi di fede, furon ferventi cattolici, te gli stem- perano nelle loro amplificazioni e declamazioni per farne onore alla Chiesa. Quello, per atto d"" esempio , che in Colombo fu genio , siffatta- mente conscio, e invasato di divinità, che ne spandeva fuori P ardore, fiammante quasi come t estasi di santa Teresa, si converte per loro in una stupida ossequenza di monaco. Così il cordone di S. Francesco, che forse cinse Dante ne'' suoi ultimi giorni , equivarrebbe alla disciplina dei primo contadino che porti cocolla. Quello che in Tommaso Moro fu sentimento di rettitudine ìnr domato, di fede sincera, si volge da loro alle fa-* stidiosaggini del pinzochere odierno , che lascia^ i PKBFAZIONB. SY fili della sua coscienza o della sua vita a mano deir avido confessore. Tommaso Moro fu grande non perchè si avvolse pei dnmeti delle controversie e pratiche religiose^ supplizio assai vicino a quello di Regolo, ma perchè ebbe, oltre il sapere^ la fede del diritto, del progresso umano, e restò invitto a quelle transazioni di coscienza^ onde t moderni farisei sgarano gli antichi casisti. Curioso è che i cattolici lo vollero d^ origine, italiano. 11 P. Domenico Regi , che nel 1681 n^ stampò in Bologna una vita , scritta secondo il gusto di quella età, assevera tanto più volentieri aver preso questa fatica in quanto che m afferma, egli dice, personaggio di eminente grado e di rara erudizione, aver certezza ne^ suoi copiosi scritti^, che soggetto degno di Casa Moro, già per suoi affari da Venezia solcò a Londra e presavi consorte vi propagò la sua nobii famiglia ^ quindi in Venezia si ha il nostro Moro per origine sua patrizio e nepote del duce Cristoforo Moro, che nelPanno 1464^ con armata poderosa condottosi ad Ancona, insieme col pontefice Pio II si accinse a debellare la superbia ottomana, quando vi fosse concorso il divino volere, e forse di qua siegue che in Inghil- terra non si reputò molto antica la famiglia Moro. ^ Di questo lavoro curioso e rappresentativo de'^tempi caviamo alcuni tratti della leggenda del Moro e prima de** prognostici di sua futura grandezza. Riposando la madre di esso gli sembrò di rimirare nei sno anello sposalìzio^ due figli, eli' era per generare, il primo a^s.ii* oscuro, e fa un aborto, e T altro a guisa di stellai che spiccali* dosi dairalto, se ben minuta sembrava, avvicinandosi poscia cosi Tasta, e risplendente appariva, che non solo la casa nativa, e la patria, ma gran parte dell' universo illustrava. Oltre di ciò con- segnato alla nutrice il bambino« mentre sopra d*un destriero in. una prossima villa si conduceva , al passar d* un torrente^ XVi PRBFAZIONB. cho per la pioggia caduta era oltre del solito enfiato , si trovò quella col caro pegno in evidente pericolo di sommergersi; quindi dubbiosa nel suo spavento, prese audace partito di avventare dal- r altro margine il tenero fanciullo ; e sviluppata poi correndo a ritrovarlo, quando si pensa mirarlo mal concio per la percossa si avvide, che come daiPangelo tutelare riservato sopra de^sterpi giaceva in atto d* invitarla di bel nuovo ad arrecarselo in seno. Ottime sono le acque, disse Pindaro, ma più sempre furono tali in favor degli eroi! Mosò bambino dal Nilo, e liomolo dalle acque del Tebro furono a miglior sorte salvati; Il tenero Abide, al con- tar dì Giustino, preservato dalle acque , in cui fu il bambino quasi sommerso, venne riservato al dominio del regno paterno Ài Spagna. Vediamo come il Regi ne narri la decollazione. Venuto pertanto il giorno di mercoledì, circondato da ministri della corte, venne avvisato esser V ora di condursi ad effetto la sentenza. Si amici , rispose il Moro, ubbidisco di buona voglia, andiamo col nome di Dio; e prendendo nelle mani T imagine del Salvatore crocifìsso, disse: essendo voi Signore con me, di che cosa io devo temere? ed aggiungendo uno degli astanti, che doveva farsi animo, proferi quel detto: Causa bona est^ bonits Domtnus, bona Crux^ bona spes est, et eur non animo me iuvat esse bono f condotto nella gran piazza della Rocca di Londra, prossimo air elevato palco, a cui si ascendeva per molti gradi, a causa della sua debolezza, difildandosi di condurvisi , disse, pregando un giovane che air aspetto impallidito, e lacrimoso, lo credeva di benigno genio: Vi prego figliuolo a farmi per carità un poco d*appoggio, finché colà su io arrivi, che circa poi al di'» scendere, altri se ne prenderà la cura; cosi allegro, confidato nella sua buona coscienza, scherzava, e direbbe il morale: lO" 4:abatur miseriis^ in quibus ioeari debuisse quis neseit? potuisse quis credit? Pervenutovi, salutò con volto sereno il molto po- polo presente , che con silenzio e mestizia, a lui parimente in- chinandosi, diede segno del dispiacere che sentiva, vedendo «osi maltrattata V innocenza. Alzò poscia il Moro la voce intre- pida. Signori, alti ed impenetrabili sono i divini giudizj ; nece»- .sanamente uno deve essere il termine di noi mortali, quale e come si sia non importa; purché sortisca in grazia di Dio; per pietà pregatelo che riceva in pace quest' anima, ed io dalPaltra parte lo supplico a render sempre felice il re nostro e tutti voi. Voltatosi al ministro di giustizia, che al solito gli chiedeva perdono prontamente gli donò un angelotto d^oro, ad imitazione dMllu- strissimi martiri, come che volesse rimunerare il benefizio, che ne attendeva. Impetrato un poco di tempo, si diede a recitare ^genuflesso alcune delle suo solite preghiere, ed alzando un poco gpijji la voce, poi disse; Suscipe Christe Jesu mimam confiten- PRBFA2I0IIK. XV a Um tibin et pauperU iui ne oblivUcarit in finem: PomfiM fMn etmfundar, fuoniam invocavi te : ed inchinatosi sotto del duro ceppo, fa separata quella preziosa testa dal busto. Cosi parti da questa valle di miserie P anima benedetta; né solo da tale spet- tacolo partirono sconsolati gli astanti, ma In ogni parte di quella dttà, del regno, altro non si udiva che doglianze per tanta per- dita. Ti è chi ha scritto, che 1* istesso Enrico Ottavo non si rat- tenue dalle lacrime, e che voltato alla mal nata Bolena : per tuo riguardo, disse, sono astretto a lordarmi col sangue più degno ebe avesse il mondo : e eh* ella sorridendo , rispondesse , di tal carato al certo non era quello del Moro ; e portatisi nella Gal- leria dove si conservavano i ritratti degli antichi e moderni uomini segnalati; mirandovi fra quelli r effigie del Moro, mae- strevolmente colorita da (ìiovanni Olbein fiammingo, inclito ar- tefice; ohimè, disse la crudele, par tuttavia ancor vivo costui aopra codesta tavola, ed ordinando ehe si levasse dal posto, per- chè se ne andasse in pezzi, l'avventò dagli alti balconi del re- gio palazza Ma ancorché alquanto malconcio cadesse quel degno e vivo ritratto, per divina provvidenza ad ogni modo fu con- servato, ed ora qual prezioso tesoro si custodisce in Roma nella nobile ed antica casa de' signori Grescenzj , disponendo il Cielo che nella città capo del mondo sia riverito V aspetto di quel Prode, che per la fede della santa romana chiesa cosi nobil- mente sacrificò la sua vita. La commossa e divota famiglia del Moro, era stata tutto quel giorno in sante orazioni, pregando felice transito al suo buon Padre, e T intrepida Margherita, scorrendo per le chiese, fiiceva elemosine anche per II medesimo intenta Certificata poi essere già il tutto eseguito, mentre si trovava assai lungi dalla sua casa, si rammaricava di non aver sopra danari f per comprare la tela da involger le membra del suo morto genitore, e sottrarla cosi quanto prima ai strapazzi, ai quali per molti giorni era stato sottoposto il sacro corpo del venerabile Fisherio: ma animata dalla matrona, che l'accompagnava, che ben avrebbe avuto cre- dito a doverla pagar poi; entrava in una bottega, ed avendola scelta, mentre si accingeva a scusarsi, per non aver la moneta, ehe si richiedeva per il prezzo, a caso movendo la tasca senti che risonava, e mirandovi dentro, trovò esservi per appunto tanta quantità di denaro, quanto che si era pattuito, e da questa evento assicurata con pia arditezza asceso il paleo, e baciato' il petto detP estinto padre, aiutata da altri ve l'involse, e condusse con ogni sicurezza, senza che vi fosse chi contraddicesse, a dari^l sepolcro. Ci piace poi troppo {^esaltare il nome italiano^ oyecchè il troviamo risplendere tra gli stranieri ^ perchè non tragghiamo dal Regi la lettera che prima di morire il Moro scriveva al Bonvisi Ine- XVIII PBBFAZIONB. chéàe^ si gloriosamente benevolo e soccorrevole al martire insigne. Seppe poi il Moro che i suoi ^eni non solo erano andati in se- quesiro, ma incorporati al regio erario, onde la sua famiglia con molto incomodo penariavai ma ebbe anche notizia, che sopra di quella caderono benigni effetti della provvidenza divina, mentre, che yeniva provveduta dalla liberalità di un caro amico fedele d^ molti anni e nostro Italiano. Fu questo Antonio Bonvisi, nobile di Lucca, che come dovizioso e di grande ingegno, possedeva ri- levante ragione di negozj in Inghilterra, e particolarmente in Londra, e per le conformità de^ costumi, e dei studj eleganti, mantenne in ogni fortuna scambievole amicizia col Moro, quin- di con profusa cortesia dava mano a soccorrere la di lui famiglia ed a forza di donativi, faceva penetrar nelle carceri preziosi rin- freschi al caro amico. A cosi buon cavaliere s* ingegnò al meglio che gli fu concesso render grazie con lettere, e poco avanti deila sua morte di questo tenore gli scrisse. Sopra ogni altro meritamente amico mio carissimo. Già chs r animo mi predice (benché possa abbagliarsi, chi è solito d^ indoviuare) che poco più mi sarà permesso di potervi salutare, scrivendo; ho risoluto per tanto, essendovi Toccasi one di farlo con questa mia. Quaato confurto io riceva in questa totale rivolta e desola- zione delle mie cose, dalla lieta considerazione della vostra co- stante amicizia, mentre che essendo in mio riguardo^ tolta ogni via di poter rendere la pariglia: voi ad ogni modo, al concul- cato in un cantone, al carcerato ed afflitto vostro Moro conti- nuate a portare ogni più sviscerato affetto, e favore: lo, signor Antonio, sopra ogni altro mortale a me carissimo, mentre che altro non posso, umilmente supplico Dio ottimo massimo, che cosi cortese vi dispose al mio aiuto, e ad obbligare a tal segno un debitore, che non sarà giammai abile a soddisfarvi, per co- desta vostra profusissima munificenza, a concedervi ogni più durevole felicità; ed a riceverci, dopo di questo miserabile, e pro- celloso secolo, nel suo beato riposo : dove non vi sarà più uopo di scriver lettere, né saremo rattenuti dalle mura, nò flano più j nostri dolci discorsi impediti dal carceriere : ma col divino Padre increato, e colTunigenito di lui signor nostro Gesù Cristo, e con lo Spirito Santo, che d*ambìdue procede, pienamente go- deremo le sempiterne allegrezze del paradiso, per il cui deside- rio disponga T onnipotente Dio, che a voi, a me, e a tutti gli uomini ugni dovizia di questo mondo ed ogni più vana pompa, anzi questa vita fugace sia in totale disprezzo. degli amici il più ledele, e come per mio pregio dir soglio, dolce pupilla degli occhi miei, vivete con lieta salute; e la famiglia vostra che PftBFAZI01«B. SBC parimente sopra dì me autorità signorile, proseguisca por sempre di l)ene in meglio. Tommaso Moro, sia superfloo aggiungere, vostro, essendone voi più che certo, avendomi comprato con tanti beneflzj; e poi son di tal condizione, oggimai che poco o nulla rileva notare di chi mi sia, ecc. i Ed al certo cosi pio signore, quale fa il Bonvìsi, per la libe- ralità nsata col Moro e con gli altri perseguitati cattolici, non solo nella sna persona ebbe gran rimunerazioni da Dio; ma per- ciò benedetta la sua nobile prosapia venne a risplendere con le sacre mitre, e con degnissime porpore vaticane, cne tuttavia pur durano con decoro. Pietro Giordani^ uomo letteratissimo e di gasto sicuro, disotterrò questa versione delP Utopia e VinceDzo Ferrarlo la pubblicò in Milano nel i821. Noi diamo la sua lettera-, non diamo il sunto della vita del Moro, che ei consigliò, sebbene fosse compilato da Giuseppe Montani, scrittore di gran giudizio e valore. E la ragione si è che non ha nessun pregio singolare di pensiero o di stile , e le notizie che contiene si posson tro* vare da per tutto ^ anzi assai vantaggiate dalle ricerche ed elaborazioni moderne. Lasciamo anche la dedicazione del Doni a Gerolamo Fava^ nou contenendo che frasi di complimento al dedicata-^ rio al libro, assai comuni ed insignifìcanti. Rispetto air Utopia seguimmo V edizione del Ferrarlo, riscontrandola al bisogno col testo latino. Quanto alla Città del Sole e alle Questioni del- l'* ottima repubblica, la seconda edizione di Lu- gano (tipografia della Svìzzera Italiana, 1850) ^ tenendo anche sott** occhio la materiale ristampa del Pomba, Torino 1854. Se non che, ne'' nostri dubbj ricorrendo al testo latino della Città del Sole^ ci vennero corretti parecchi luoghi, che non {staremo ad accennare, perchè ai lettori comuni non importerebbe, e i periti vedranno da sé che ICS PaBFAZIOnB. se ci manca Tingegno, ci abbonda il buon rolere; «enza però far remore o sfarzo di quello ch'^è de- bito d'^ogDi editore. Dicemmo esser al tutto materiale la ristampa torinese di questi due opuscoli-, ma toon perciò pretendiamo scemar pregio alle fatiche delP edi- tore sig. Alessandro D'^Ancona, che esordi giova- iietto con un lavoro ampio di studj e dMnteoti, e fu presagio di quel credito eh'' egli ora con eru- dite e fine elucubrazioni va confermandosi e am- pliandosi ogni di tra i letterati. La Storia del reame degli orsi del Gozzi Tab- i)iamo ricopiata dalla ristampa veneta delPAIvi- sopoli del 1830, tratta da una gazzetta settima- fiale intitolata II Sognatore italiano pubblicatasi in Venezia in soli 18 numeri dal di il maggio ^1 di 17 settembre 1768 per le stampe del Co- lomba ni. Della vita e deW opere è il titolo ambizioso o di studio l*avrei potuto fare. Ora levaii via tali pensieri, nei qu^H 4 faceva mestieri sudare d'atmarUaggio , tutto agevolmente jìotevasi scrivere, siccome era stato udito : benché le mie altre imprese m'hanno lasciato pochissimo tempo a for- nire cosi leggiera cosa, trattando, udetìdo, determinando e giudicando io assiduamente le cause del foro , visi- tando or questo per benevolenza o mio debito, or quello fer eseguire le faccende importanti. Mentre però dispenso fuori quasi tutto il giorno, ed il rimanente per le mie cose famigliari, non resta a me, cioè alle lettere, tempo alcuno. Perchè ritornato che sono a casa, mi bisogna ra- gionare con la moglie, gridare coi figliuoli, parlare coi ministri. Tutte le quali cose io annovero in vero tra le più necessarie non volendo essere nella casa propria come forestiere. Perchè dobbiamo esser benigni verso coloro, che per natura, o a caso, o per nostra elezione ci sono slati dati compagni nel vivere, purché con la troppa be- nignità non si corrompa la disciplina, e i servi non di- ventino padroni. Tra questi travagli pckssa il giorno, il mese e l'anno. A qual tempo adunque scrivo? Non ho parlato di quello che si consuma nel mangiare e nel dor- mire, che occupa quasi la metà della vita. Io acquisto solamente quel tempo, che mi rubo dal sonno e dal man- giare. Ma perchè è poco ho proceduto lentamente ; tut- tavia con esso ho fornito, e alfln ti mando, o Pietro mio, V Utopia, perchè la legga, e mi ammonisca, ove mi fossi scordato qualche cosa. Quantunque non molto mi temo di questo. Cosi valessi io per dottrina ed ingegno, come non manco di memoria! Tuttavia non tanto in quella mi fido, che non perni potermi esser caduto qualche par- ticella di mente. Perché Giovanni Clemente mio figliuolo, che era presente , poiché non mai lo lascio scostare da alcun parlamento utile, sperando che qu£st'erba, la quale ha cominciato a verdeggiare , delle greche e latine let- tere, debba quando che sia produrre frutto copioso , mi pose in gran dubbio. Perchè , a mio ricordare , Itlodeo narrò che il ponte amaurotico sopra il fiume Anidro è lungo 500 passe. Giovanni mio dice che è solamente 300. Pregoti che vi pensi, perchè se affermerai il medesimo 8 con lui, penserò di avermi scordato qttesto : ma se non te lo ricordi, scriverò come ho detto, e sludierò di nar- rare il vero, e nei duibhj gitarderommi a mio potere da menzogna; stilando esser tenuto piuttosto uomo dab' bene che prudente. Potrai tuttavia intendere di questo o alla presenza o con lettere dallo stesso Raffaello , ed ù necessario che lo intendi ancora per un altro dubbio oc- corso, non so se per mia colpa o tua, ovvero di Ra/faelU medesimo. Perchè non ci venne in mente di chiedere da esso in guai mare era posta quest'isola, né in qual parte di quel mondo nuovo. Vorrei con alquanto del mio ri- comperare questa cognizione, perchè mi vergogno non sapere in qual mare ella sia, dovendone ragionare cosi a lungo, ed ancora perchè due de'nostri uomini, ma uno specialmente pio e teologo, brama di andare in Utopia, non già per curiosità di veder cose nuove, ma per au- mentare la cristiana religione, ivi cominciata. Ed ha disposto di farsi creare dal pontefice vescovo di Utopia, giudicando che sia fruttuoso il ricercare tale officio, non mirando all'onore né al guadagno, ma alla pietà. Pre* goti adunque, o Pietro, che alla presenza o con lettere vagli tanto intendere circa quest' isola da ItMeo , che non vi sia alcuna falsità, né vi manchi verità alcuna. E per mio avviso sarebbe comodo mostrargli questo libro, quando che ninno potrà megHo correggervi gli errori, e con pilb acconcio lo farà, avendo in mano questo mio scritto. Potrai ancora intendere quando gli piaccia ch'io mandi in pubblico quest* opera. Perchè s' egli avesse di' sposto di scrivere le sue fatiche, forse avrà a male ch'io le scriva, ed io altresì mi rimarrò di preoccupargli que* sto nuovo fiore di pubblicare la repubblica Utopiense : quantunque non ho determinato ancora s'io voglia pub* bucarla. Perchè sono tanto vari i gusti degli uomini , tanto difficili gli ingegni, tanto ingrati gli animi, e sconci i giudizi , che maglio riesce appo loro chi si dà buo^i tempo, che chi si affigge a comporre qualche opera, che possa giovare o dilettare. Molti non hanno lettere, e molti le sprezzano. Chi è barbaro giudica duro lo stile; 6 chi non è barbaro , quei che si tengono savi, sprezzano il parlare non copioso di parole antiche e già invec' chiate. Ad alcuni piacciono solamente le cose antiche, altri commendano solamente le loro proprie. Alcuni non si dilettano di motti: altri senza giudizio alcuno di niente si compiacciono ; alcuni per Vistabile ingegno non sanno fermare il giudizio. Altri, sedendo nelle taverne, tra il vino giudicano degli ingegni, dannando ciò che loro spiace, quantunque non abbiano egUno pelo alcuno di uomo dabbene, per il quale li possi pigliare. Sono ap- presso tanto sconoscenti, che quantunque loro piacciano sommamente le opere, tuttavolta odiano l'autóre, come usano di fare gl'inumani forestieri, i quali saziati lar- gamente nel convito, si partono senza render grazia al- cuna all' albergatore. Or fa un convito a tue spese ad uorfUni di cosi dilicato e vario gusto, e d'animo cosi ri- cordevole e grato. Tuttavia, o Pietro mio , fa quanto ho detto con Itlodeo , e potremo di nuovo consultare sopra di questo. E poiché già ho fornito la fatica di scriverlo, resta che non sia questo contra la sua volontà. Circa il darlo in pubblico, seguirò il consiglio degli amici, e specialmente il tìM. Sta sano, o dolcissimo Pietro Egidio con la ottima moglie tua, ed amami come sei solito, poi- ché io amo te più che mai. LIBRO PRIMO Giovanni Clemente, Itlodeo, Tommaso Horo, Pietro Egidio. Arendo Enrico Vili, invittissimo re d* Inghilterra, ed omatissimo d'ogni virtù che sì ricerchi in principe egregio, certa controversia con Carlo, serenissimo prin- cipe di Castella (1), mi mandò ambasciatore in Fiandra in compagnia di Cutberto Tunstallo, creato da esso re poco avanti tesoriere con comune allegrezza di tutti, delle cui lodi non ragionerò ; non già che io tema che l'amicizia, la quale tengo con esso renda meno fedele il mio testimonio di lui, ma perchè la sua virtù e dot- trina supera ogni mio sforzo di poterla magnificare, ed é tanto nota e illustre, che il mio volerla far più chiara, sarebbe con piccola luce far lume al sole. Ci vennero contro a Brugi (cosi era ordinato) quei che trattavano li bisogni del principe, uomini egregi ; ed era di quest'am- basceria capo il prefetto di Brugi , uomo magnifico , avendo seco quel veridico Giorgio Temsicio preposto (I) Poi Carlo y imperatore* S tnroMÀ. Gasseletano, non solo per arte, ma eziandio per natnra eloquente ; oltre che è nelle leggi peritissimo , e per lungo uso artefice esperto a trattare quest'imprese. Avendo una e due fiate parlato insieme, né essendo d' accordo in alcune cose , essi andarono a Brusselles per intendere la mente del loro principe. Io, come por- tavano i casi miei, andai in Anversa, ove fui visitato da molti, e spesso da Pietro Egidio, anversano, e tra suoi nobilissimo, giovane non meno dotto che costu- mato, e verso gli amici tanto |pronto con amore, fede e sihcero affetto, che a fatica Troverei uno che lo rag- guagliasse nell'essere in ogni atto d' amicizia singolare. Egli è dì rara modestia senza finzione alcuna, e di sin- golare semplicità. Il suo parlare è tanto piacevole e senz'altrui offendere giocondo, che il desiderio mio dì rivedere la patria, la moglie ed i figliuoli miei, i quali già più di quattro mesi non avea veduto, meno mi afflìg- geva, godendo la sua dolce conversazione e gratissimo parlamento. Essendo io un giorno a messa nella ma- gnifica chiesa di santa Maria, molto dal popolo frequen- tata, e già stando per ritornarmi all'albergo, io veggo a caso Pietro ragionare con un forestiero che già co- minciava ad invecchiare, con faccia adusta, lunga barba ed il mantello che gli pendeva dalla spalli, come colui che di ciò poca cura si pigliava: e nel volto e nell'a- bito lo giudicai un nocchiero. Pietro, vedutomi, venne a salutarmi, e, trattomi da parte, mi disse: vedi tu co- stui? (e mostrommi quello col quale l'aveva veduto parlare) già mi affrettava di condurlo a te. Egli, diss'io, mi sarebbe stato per tua causa gratissimo. Anzi, rispose Pietro, l'avresti avuto caro per sé stesso, perchè non vive ora uomo alcuno, che tanta storia di uomini e paesi non conosciuti ti possa narrare , del che so che sei sommamente bramoso. Risposi io : non mi ha ingan- nato il giudizio, perchè nel primo aspetto mi parve un nocchiero. Tu pigli errore, disse Pietro; perciocché egli ha navigato non già come Palinuro, ma come Ulisse o Platone. Costui si chiama Raffaello e per cognome Itio- LIBBO PBIMO. 9 deo (i) , non ignorante della iingna latina , ma della greca peritissimo, in cui egli s' è più esercì tato, perchè datosi tutto alla filosofia, nella quale però non ha letta in latino cosa di momento, se non alcuna di Seneca e di Cicerone. Costui è di Portogallo, e lasciato a' suoi fratelli il patrimonio, per desio di veder del mondo ^ si accostò ad Americo Vespucio, e nelle tre ultime di quelle quattro sue navigazioni tanto famose gli fu di continuo compagno; se non che nell'ultima non ritornò con lui. Anzi quasi con violenza da esso ottenne di essere tra quei ventiquattro, che nel fine del navigare si lasciavano nel Castello. Cosi fu lasciato per piacere, essendo egli più curioso di j[)eregrinare, che di fabbricarsi un sepolcro; ed è solito di dire: e Viene coperto dal cielo chi non ha sepoltura {%), e da ogni luogo è tanta via al cielo come dall'altro. » Il qual discorso gli sa- rebbe costato caro, se Dio per sua benignità non lo avesse aiutato. Partito Yespucio, egli andò con cinque ca- stellani a veder molti paesi, e con buona sorte afferrò a Taprobana ed indi pervenne a Calicuta (3), ove trovate le navi de' Portogallesi, tornò contra ogni suo sperare nella patria. Udito questo, gli rendei grazie della sua umanità, che si avesse pigliato cura di farmi ragionare con uomo, il cui parlamento sapeva essermi gratissimo : e salutato Raffaello, dopo quelle comuni parole d'amendue, che con forastieri si sogliono usare nel primo incontrarsi, andammo alla casa mia. E sedendo nell'orto sopra uno scranno di cespugli , egli ci narrò come partito Ye- spucio, esso e i compagni lasciati nel Castello conìin- (1) Che sonerebbe per noi contastorie t se mai a tal nome può darsi greca derivazione. (2) Lucano, FarsagHa^ lib. XI, ver. 819. (3) Cosi il testo: L^Editor milanese lo corresse ponendo senza più : pervenne a Taprobana {Ceylan) ed annotò: Era opinion gene*- rale dlquoUempi, che rAmerica comunicasse, per terra, coirin-* dia, di cui sapponevasi formare la parte occidentale. Nella Gaiana collocavasi il famoso paese di Eldorado ^ di cui vedasi nella relazione di sir Walter Raleigb con quanta creda- UU i viaggiatori andassero in cerca. io UTOPU. ciarono con benignftà a praticare con le genti del paese e indi a poco tempo trovarsi tra loro famigliarmente ; per esser giunti ad an principe di quella regione , il nome del quale non si ricordava, il quale benignamente provvide a lui ed ai cinque compagni la spesa per lo viaggio, con una fedelissima guida, con zattere per acqua e in carro per terra , da cui erano condotti ad altri principi con la diligente raccomandazione di questo. Mi narrava egli di aver veduto molte terre, città e repub- bliche bene ordinate. E che sotto la linea equinoziale, d'amendue le parti, quanto è largo il cerchio del sole, erano gran solitudini dal continuo caldo arsicciale e squallide, abitate da fiere e da serpi, ovvero da uomini poco men che le bestie feroci e nocivi. Ma che passando as- sai più avami, ogni cosa vi si trova domestica. L'aria meno aspra , il terreno con più grata verdura , e gli animali più benigni. Finalmente si scoprirono popoli, città e terre che fanno mercato tra loro, e con paesi lontani e vicini. Indi egli potè di qua e di là andare a vedere molti paesi, perchè ninna nave si apparecchiava a viaggio, nella quale esso ed i compagni non fossero benignamente accettati. Le navi da lui vedute nelle prime regioni aveano la sentina piana , le vele di pa- piro o di vimine, ed altrove di cuoio. Trovarono poi navi con la sentina acuta e le vele di canape: nel ri- manente del tutto alle nostre simili, ed i nocchieri esperti del mare e dell* aria. E dice che fece cosa gra- tissima a quelli mostrando loro l'uso della calamita, il quale non sapevano ancora. Laonde poco navigavano nel verno. Ed ora, fidandosi di quella pietra, navigano ancor nel verno tenendosi sicuri ; quantunque potrebbe tal sicurezza per r imprudenza causare loro molti mali. Sarebbe lungo narrare particolarmente ogni cosa da lui veduta in qualunque luogo ; ma forse ne ragionerò al- trove : specialmente di quelle cose , la cui cognizione può giovare, come gli ordini di ben vivere da lui con- siderati nelle repubbliche : perchè noi di queste cose a preferenza l'interrogavamo, delle quali esso volentieri LIBRO PRIMO. il ragionaTa, tacendo de' vari mostri tanto frequenti che non sono tenuti per cose nuove. Trovavansi quasi in ogni luogo scille , arpie rapaci e lestrigoni , che man- giano carne umana. Molti nuovi popoli malamente in alcune cose ordinati^ ed ancora altri esempj de' buoni istituti^ con i quali si, potrebbono correggere; questi furono da lui notati, dei quali altrove parleremo. Ora ho determinato di narrare solamente quanto egli disse dei costumi ed ordini degli Utopiensi; premettendo un parlare, mediante il quale perveniamo a ragio- nare di questa repubblica. Avendo Raffaello pruden- tissimamente narrato molti errori qua e là veduti, e molti buoni istituti cosi appo noi come appo loro ordinati, ed avendo in memoria la forma del vivere di quei popoli , non meno che se avesse passato tutta la sua vita in ogni terra, ove si era trovato ; Pietro, ma- ravigliandosi di lui, disse: io stupiscono Raffaello, che non ti accosti a qualche re, al quale veramente saresti ca- rissimo; quando che con tale dottrina e perizia dei luoghi e degli uomini non solo potresti dargli diletto, ma eziandio ammaestrarlo con esempj , e con consigli alutarlo ; e parimente provvedere a' casi tuoi ed al co- modo de' tuoi parenti ed amici. Rispose^i : non mi pi- glio molta cura coi miei, verso i quali parmi di aver già fatto il debito mio , avendo nella mia gioventù , e trovandomi sano , distribuito tra amici e parenti quei beni, che gli altri nella vecchiaia e vicini a morte mal volentieri lasciano; e penso che debbano starsi con- tenti di questa mia benignità , senza aspettare che per loro causa io mi faccia servo dei re. Io, disse Pietro ^ non chiamo questa servitù ^ ma giudico esser via ac- concia non solamente di giovare agli altri in pubblico e privatamente, ma eziandio a fare lo stato tuo più fe- lice. Come lo farei, disse Raffaello, più felice con quella via dalia quale tanto l'animo mio abborrisce? Ora io vivo a mia voglia, il che per mio avviso avviene a po- chi cortigiani. Assai sono quelli che bramano l'ami- cisia di uomini potenti; laonde Ila poco danno se que- 12 UTOPIA. sti mancheranno di me, o d'un altro a me simile. Al- lora, diss' io, è noto, o Raffaello, che tu non brami ric- chezze né potenza, ed onori più un uomo del tuo pa- rere^ che ogni re o principe. Ma farai impresa degna dì te, e di quest'animo generoso e veramente filosofo, se con qualche tuo particolare disconcio accomoderai que- sto tuo ingegno ed industria a giovare al pubblico: il che non puoi fare con maggior frutto, che essendo con- sigliere di qualche principe, persuadendolo ad opere giuste ed oneste, come certo mi credo che farai. Per- 'Ciocchè un fiume di tutti i beni e mali deriva dal prin- cipe , come da una fonte, nel popolo. E in te è tanta dottrina^ che senza r esperienza di cose grandi, e tanta perizia di molte cose, che senza dottrina potresti essere ad ogni re egregio consigliere. Ti pigli errore in due modi, o Moro mio, rispose Raffaello, prima in me, e poi nella cosa I stessa : perchè non è in me la facoltà che mi assegni^ e posto che vi fosse , io turbando la mia quiete , non gioverei punto alla repubblica. Primieramente i prin- cipi si occupano piuttosto negli studj della guerra, della quale io sono inesperto, che in arti di pace ; e più stu- diano ad acquistare nuovi regni, che a ben governare gli acquistati. Oltre di questo ninno de' consiglieri dei re è tanto savio che non abbia bisogno, o tanto si tiene savio, che non condescenda a confermare l'altrui con- siglio, come che sia sconvenevole ; e non vada a verso a coloro, che veggono essere più grati al principe. Siamo tali per natura che ognuno si compiace de' suoi trovamenti. Cosi piacciono al corvo i suoi polli ed alla scimia i propri fighuoli. Se alcuno in quella compagnia d'invidiosi, e che prepongono le proprie cose alle al- trui, narrerà qualche cosa letta da lui, che sia stata fatta per altri tempi o veduta in altri luoghi ; quei che odono si pensano che ogni loro reputazione di sapienza sia giudicata vana, ed essi per pazzi tenuti, non sapendo che riprendere negli altrui trovamenti. E mancando loro ogni via, ricorrono al dire : tali cose piacquero ai nostri maggiori, la cui prudenza piacesse a Dio che potessimo LIBRO PRIMO. i3 ragguagliare : e ^ come avessero al tutto Tìnto ^ si ac- chetano. Quasi fosse uno strano pericolo il ritrovare al- cuno più prudente dei nostri maggiori^ ì cui buoni con- sigli lasciamo però da parte, e trovato qualche miglior consiglio di subito lo teniamo strettamente. Ed io so- vente mi sono abbattuto altrove^ ed una fiata in Inghil- terra, in questi superbi, sciocchi e diflBcili giudizj. Sei stato, diss'io, appo noi? Vi fui, rispose Raffaello, non molto dopo quella misera sconfitta, quando la guerra civile degli Inglesi occidentali contro il re fu con loro miserabil strage finita. In quel tempo molto ebbi da rende- re grazie a Giovanni Mortono , arcivescovo cantuariense e cardinale, e dell'Inghilterra in quel tempo cancelliere; uo- mo, o Pietro mio (non dico a Moro che lo conobbe), non meno per sua prudenza venerabile, che per virtù. Era egli di statura mediocre, e robusto nella molta età ; la faccia piuttosto da esser riverita che temuta ; nel parlare affa- bile ma con gravità. Dilettavasi.di parlare con qualche asprezza ai supplicanti, senza però offender quelli. Cer- cava di spiare che ingegno, che ardire avesse ciascuno, e trovandovi la virtù alla sua somigliante, se ne ser- viva nelle imprese. Era nel parlare elegante ed efficace : perito nelle leggi civili, di mirabile ingegno e prodigiosa memoria. A tanta altezza lo condusse l'egregia natura col suo esercitarsi nel parlare e nel bene operare. Pa- revami che il re molto credesse a' suoi consigli , e si fermasse in. lui la repubblica, come in quello che dalla sua gioventù fu dalla scuola spinto nella corte; ed a sua età aveva praticato in alte imprese, e con vari travagli di fortuna era stato continuamente conquas- sato ; ed avea imparato la prudenza delle cose tra grandi pericoli, la quale cosi appresa non facilmente si perde. Trovandomi alla sua tavola , un laico perito delle vo- stre leggi, presa non so quale occasione, cominciò a commendare quella rigida giustizia contra i ladri, la quale ivi allora esercitavasi , e che tal fiata ne erano stati appesi venti ad una forca : laonde si maravigliava donde avveniva che si trovassero tanti ladri, quando che 14 UTOPU. cosi pochi scampavano dal supplicio. Allora io^ avendo ardire, alla presenza del cardinale gli risposi: non ti maravigliare di questo ; perciocché tal supplicio è fuori di giustizia, né giova al pubblico, essendo troppo atroce a pu- nire i furti, né bastante a raffrenarli. Certamente il semplice furto non é tanto peccato che si debba con morte punire. Né alcuna pena, per grande ch'ella sia, può raffrenare dai latrocini quei che non hanno imparato arte alcuna di acquistarsi il vivere. In questo non voi soli, ma buona parte del mondo imita i cattivi precettori, i quali battono più volentieri gli scolari che insegnare a quelli. Si determinano contra i ladri gravi supplici , quando piuttosto era da provvedere che avessero onde guada- gnarsi il vivere, perchè non venissero a cosi strana necessità di rubare, e poi perdervi la vita. È loro prov- visto copiosamente, rispose colui : sonovi le arti mec- caniche e l'agricoltura: con queste si potrebbono prov- vedere, quando non volessero spontaneamente esser cattivi. Non vale questa ragione, diss'io. Tacciamo pri- mieramente di coloro che dalle guerre esterne o civili tornano a casa troncati dei membri, come poco fa av- venne appo voi dalla guerra cornubiense , e non già gran tempo dalla francese, i quali per la repubblica o per difendere il re hanno perduto i membri: questi non possono per la debolezza esercitare le solite arti , né per Tetà impararne d'altre : tacciamo dico di questi, quando le guerre succedono l'una all'altra. Consideriamo quelle cose che ogni di avvengono. Tanto è il numero dei nobili, i quali come api inutili, stanno in ozio , e radono fin sul vivo i loro lavoratori per accrescere le proprie entrate. Perché non sanno questi dissipatori altra via di acquistare, e si menano dietro un gregge di servitori che non hanno imparato arte alcuna. Que- sti , morto il padrone , ovvero infermandosi , vengono cacciati di casa: perchè li nodriscono più volentieri oziosi che infermi : e spesse volte l'erede del morto non può nodrire tanta famiglia cosi di subito : laonde essi sono dalla fame assaliti fieramente, se non sono a ru- LIBRO PROIO. 15 bare valorosi. E che altro possono fare? Quando che se vanno alquanto tempo errando^ consumano le vesti e infermano : laonde essendo poi squallidi per Tinfermità e vestiti di grossi panni , non si degnano i nobili di riceverli, e i contadini temono di accettarli, sapendo che l'uomo nodrito nell'ozio in delizie , ed avvezzo di andare con la spada e fiero viso sprezzando la vici- nanza, non è atto con la zappa e la marra di guada- gnarsi il parco vivere e servire ad un povero fedel- mente. Rispose colui : dobbiamo noi mantenere simili uomini, che sono di più generoso spirito che gli arte- fici e i contadini. Questi sono i nervi dell'esercito. Con la stessa ragione, diss'io, manterremo i ladri, de' quali non mancherete, sin che avrete tali uomini. Sono gli assassini buoni soldati, e i soldati gagliardi assassini : tanto queste arti si rassomigliano insieme. Questo vizio però è quasi comune a tutte le nazioni. In Francia è una peggiore pestilenza : tutta la patria è piena di sol- dati stipendiar] quando è pace, se però quella si può chiamar pace, con quest' i stessa persuasione, che sia bene avere uomini esercitati alla guerra, ]a quale si debba quasi cercare, acciocché, come dice Sallustio, la mano e l'animo non comincin per ozio ad intiepidirsi. Ma quanto sia pernicioso nodrire queste bestie, la Fran- cia con suo danno se ne è avveduta, e gli esempi dei Romani, Cartaginesi e Soriani lo manifestarono : quando che tali uomini non solo rovinarono l'imperio di quelli, ma le città ancora ed i campi. Mostrasi ancora che questo non vi sia necessario, che i soldati francesi dalla puerizia nelle armi esercitati sono stati vinti dal vo- stro esercito raccolto allora : non dirò più, per non es- ser tenuto assentatore. Quei vostri artefici e contadini non sogliono temere di questi spadaccini, i quali tenuti deliziosamente diventano di animo vile ed effemminato. Finalmente non mi pare che giovi questo per stare ap- parecchiati alla guerra, la quale non avete se non quando vi piace. Avvi poi un'altra necessità di rubare, a voi particolare. Quale è questa? disse il cardinale; ed io 16 UTOPIA. risposi: le vostre pecore, le quali per addietro furono tanto mansuete e parche nel mangiare, ed ora sono tanto feroci e divoratrici, che consumano gli uomini, i campi, le case e le città. Perchè ove nel regno nasce lana più sottile e di maggior prezzo, ivi i nobili ed al- quanti abati santi uomini, non contenti delle entrate annuali che sogliono pigliare dei loro larghi poderi, né bastando loro di vivere delicatamente, senza giovare alla repubblica, anzi noiandola, rovinano le case, ab* battono le terre per lasciare alle pecore più larghi pa- schi. Come se occupassero poco terreno le selve e i vivai, quei buoni uomini fanno dei luoghi abitati e col- tivati un deserto. Così, perchè un insaziabile divora- tore rinchiuda infiniti campi, sono cacciati i lavora- tori, e con inganni privati dei loro beni, o con ingiu- rie contìnue astretti a venderli. Cosi pur sono i miseri forzati a partirsi, maschi e femmine , moglie e mariti, orfani e vedove, padri con i piccioli figliuoli , e fami- glia piuttosto numerosa che ricca. Sì partono, dico, dai soliti luoghi senz'aver dove ridursi; le povere masse- rizie sono vendute a vii prezzo : il quale poiché hanno in breve tempo consumato errando qua e là, che altro possono fare che rubare ed essere appiccati (vedete voi con qual giustizia) ovvero mendicare? benché allora sono imprigionati come poltroni che non vogliono la- vorare; e quantunque essi più che volentieri lavore- rebbero, essendo condotti al lavoro. Ma non lavoran- dosi il terreno, che è Tarte loro, altro non sanno che si fare : quando che un pecoraro ed un bifolco bastano a coltivare quel terreno, il quale prima aveva bisogno di molte mani. Perciò la vittovaglia in molti luoghi è cara. Il prezzo delle lane tanto è cresciuto, che i po- veri, usati di fare i panni appo voi , non ne possono comperare, e perciò molti stanno in ozio. Ed aumen- tati i pascoli, una pestilenza, per divina vendetta, ha ucciso infinite pecore, là quale più giustamente doveva uccìdere gli avari padroni ; tuttavia quantunque cresca il numero delle pecore, non iscema il prezzo delle lane. LIBRO PHlMO. il Perchè sono in mano di pochi e ricchi, i quali le ven- tlono quanto loro piace, perchè non sono astretti di venderle. Sono cari eziandio gli altri animali , perchè rovinate le ville non v'è più chi abbia cura di alle- varne. E i ricchi non cosi pigliano cura di allevare altri animali, come le pecore; anzi comperandoli altrove magri , poiché sono ingrassati nei loro pascoli , li ri- vendono a gran prezzo. Questo incomodo non ancora si comprende al tutto. Ma poiché saranno esausti quei luoghi ove si comprano, quivi ne patirete estrema ca- restia; dalla quale specialmente era libera quest'isola. Causa questa penuria, che i padri di famiglia man- dano via di casa quanti possono: e dove? Se non a mendicare, ovvero a rubare, al che s'ono piuttosto per- suasi gli animi generosi. A questa misera povertà si aggiunge il vivere lussurioso e dilicato, perchè i fami- gliari dei nobili, gli artigiani e i contadini vestono troppo sontuosamente, ed usano cibi troppo delicati. Nei po- striboli, nelle taverne, nei vari giuochi impoveriscono, laonde poi sono astretti di andar a rubare. Cacciate queste perniciose pesti, ordinate che rifacciano le ville e le terre coloro che le hanno rovinate, o che le la- scino da altri riedificare. Raffrenate le compre di que- sti nobili, rimettete in assetto Tagri coltura ed il lavo- rio di lana ; acciocché si possano occupare questi ladri per povertà, e i mendichi, ovvero gli oziosi ministri. Se non provvedete a questi mali, invano si commenda la severa giustizia contra i ladri', piuttosto bella, che onesta ed utile. Perchè allevarli pessimamente in cor- rotti costumi, e volerli punire quando sono cresciuti nel vizio, altro non è che farli ladri per appiccarli. Erasi quel giureconsulto apprestato di usare il costume de*disputanti, i quali meglio replicano le cose dette, che rispondono; e disse: Tu, essendo qui forestiero , otti- mamente hai parlato, come io ti mostrerò, replicando le tue ragioni, ed a quelle rispondendo. Cominciando dai primo, parmi che quattro cose .... Taci, gli disse il cardinale, perchè vuoi esser troppo lungo nel rispon- Uoro, ? 18 . UTOPIA* dere: ma ti riservo per il seguente giorno, se non oc- corre altro impedimento. E volto a me disse^ vorrei, o Raffaello, da te sapere, con qual fondamento gindichi che non si punisca il furto con morte, e qual pena tu assegneresti ai ladri, che fosse alla repubblica più utile, quando che non tu ancora pensi che si debba tollerare il furto? E se la morte ora non ispaventa ì ladri, se fossero della vita sicuri, qual forza lì raffrenerebbe? Farmi, risposalo, iniquità tórre la vita all' uomo , per aver egli tolto i danari; perchè niun bene umano si può con la vita ragguagliare. Se diremo che si appen- dono per aver violato la giustizia e le leggi ; non chia- meremo noi quella somma giustizia, una somma ingiu- ria? Né si commendano le leggi tanto imperiose, che per minimo errore stringano la spada, né tanto stoiche che giudichino i peccati essere eguali, come uccidere l'uomo e rubare denari. Dio vietò l'uccisione, e nói cosi prontamente uccidiamo per picciolo furto? Se dirà alcuno l'omicidio esser vietato, quando non è dalla legge umana ordinato, potrà questa legge ancora ordi- nare che si adulteri o spergiuri. Avendo Iddio ordinato che Tuomo non uccida altri, neanco sé stesso ; se pos- sono gli uomini ordinare che si uccida alcuno senza la divina autorità, valerà il divino precetto quanto le umane leggi consentono : ed ordineranno gli uomini in ogni cosa in che guisa si hanno da osservare i divini precetti. La legge mosaica, benché aspra, punì il furto con danari, non con morte. Non pensiamo già che Dio nella nuova legge di clemenza ci abbia concessa mag- gior licenza di crudeltà. Così volendo noi punire egual» mente i ladri e i micidiali , facciamo i ladri micidiali, i quali aspettando V istesso supplicio , uccidono spesse fiate colui che rubano, per assicurarsi che sia il furto nascosto. Circa la punizione che sia convenevole di dare ai ladri, ninna è più comoda di quella, che tanto piacque ai Romani , nel maneggio della repubblica pe- ritissimi. Essi dannavano a cavare metalli e pietre co- loro che erano convinti di gravi colpe. Quantunque io LIBRO PRIMO. 19 più commendi l'istituto che vidi pellegrinando in Persia tra i Polileriti, popoli òttimamente istituiti, e Uberi nel- l'oso della loro legge, pagando solamente un tributo al re di Persia. Ma perchè sono dal mare lontani e da monti circondati, stanno contenti dei frutti che na- scono nei loro campi assai ben fertili, laonde vanno di raro ad altri popoli, e pochi vanno a loro. E per co- stame antico non istudiano di ampliare i loro confini, i qaai sono con i monti da esterna ingiuria difesi. Cosi vivono felici, e pagando il loro tributo, sono da ogni altra gravezza esenti, e perciò solamente dai vicini po- poli conosciuti. Chi è convinto di furto, lo rende al padrone di quello; non al principe, come si fa altrove, parendo loro che tanta ragione abbia il principe nella cosa rubata, quanta vi ha il ladro. Non trovandosi il furto, pagasi de*beni del ladro, ed assegnato il rimanente alla moglie ed al figliuoli di lui, egli è dannato a la- vorare : e se non ha commesso qualche gran furto, non è imprigionato , né porta i ceppi , ma libero e sciolto si esercita nelle opere pubbliche. Quei che non vo- gliono sottostare a questa pena, sono piuttosto battuti che imprigionati ; quelli che si affaticano gagliardamente non patiscono ingiuria alcuna. La notte chiamati per nome, vengono rinchiusi in certe camere, né altro in- comodo sostengono che r affaticarsi di continuo. Sono cibati comodamente del pubblico. Raccogliesi in alcun luogo il loro vivere per elemosina, la quale per la pietà di quel popolo basta d'avvantaggio a nodrirli. Altrove si deputano a ciò entrate del pubblico. In alcun luogo ognuno contribuisce a nodrire questi tali. Ed in altri non lavorano in opere pubbliche; ma ciascuno, come gli fa mestieri, li conduce a lavorare a giornata , con mercede alquanto minore di quella che si dà ad uomo libero ; ed è lecito castigare la dappocaggine dei servi con battiture: cosi stanno sempre in esercizio, ed oltre il vivere loro, ogni di danno qualche cosa nell'erario. Ve- stono essi soli d'uno stesso colore, con i capelli ta- gliati sopra le orecchie , una delle quali lor tagliano i 20 UTOPU. Possono i loro amici dar loro mangiare e bere, ed abiti del lor colore ; ma v'è pena la tes(a a chi dà loro da- nari, e ad essi che li ricevono. Non è pericolo minore ad uno libero che ricevesse danari da un servo (cosi chiamano essi i dannati), e parimente ai servi che toc- cassero arme. Ogni regione fa un segno particolare ai suoi, ed è pena la vita levarselo via, siccome ancora uscire de'suoi confini, e parlare con servo di altra re- gione. L' aver disposto di fuggire è pena la testa ; il servo consapevole di questa fuga vi lascia la vita, e il libero cade in servitù. Il libero che avvisa di que- sto fuggire ne riceve danari, ed il servo libertà, ed è loro perdonato di aver partecipato in questo consiglio. Questo è rordine di quel paese circa i ladri , la cui umanità e comodo facihnente si vede, quandoché pu- nisce il vizio e castigalo, trattandoli in tal guisa, che sono astretti ad esser buoni. £ tanto è indubitato che non tornano ai passati costumi , che i viandanti si ten- gono sicurissimi, avendo per guida uno di questi servi : perchè sono senz'arme, con tanto pericolo se loro fos- sero trovati danari, e senza speranza di fuggire, avendo abito differente dagli altri , onde noi potriano se non ignudi, ma l'orecchia tagliata li farebbe conoscere. Non possono ancora disporsi a fuggire, poiché tanto peri- colo portano i consapevoli di questa fuga, ed un tal premio chi la manifesta j né possono parlare con i serri delie altre regioni. E tutti sperano portandosi bene di acquistare la libertà ; perchè ogni anno se ne francano alcuni, veduta dai magistrati la loro pazienza. Avendo io narrato questo, ed aggiuntovi, che introducendo in Inghilterra simil costume, ne riuscirebbe maggior frutto che di quella giustizia, tanto da quel giureconsulto com- mendata ; egli rispose : non si potrebbe stabilire que- st'ordine in Inghilterra che non venisse la republtiica in gran pericolo ; e, torta la bocca, tacque, confermando tutti il parere di quello. Allora il cardinale disse : tu sei molto pronto ad indovinare prima che se ne vegga la prova. Ma potrebbe il principe sentenziare a morte LnSRO PRIMO. 21 i colpevoli, e non eseguendo la sentenza, aspettare il successo di questa benignità sua, vietando intanto che non si possano ridurre in luogo di franchigia , e non riuscendo in bene, eseguire la giustizia ; né potrebbe di questo nascere pericolo alcuno. Si potrebbe trattare pa- rimente i mendichi, contro i quali sono fatte invano tante leggi. Detto questo dal cardinale tutti confermarono il mio parere, ma sommamente commendarono quello che aveva detto il cardinale dei mendichi. Seguirono poi cose ridicolose, le quali narrerò pure, da che non son triste. Eravi certo parassito, il quale facendo il matto rideva di lui, e talora confermava i detti suoi. Dicendo uno, ch'io aveva acconciamente provveduto ai ladri, ed il cardi- nale ai mendichi, ma che restava di provvedere a quei poveri, che per infermità o vecchiaia sono impoveriti : Io, rispose il parassito, provvedere a questi ; perchè già sono fastidito dai loro pianti e miserabili domande , colle quali tuttavia non mi hanno potuto cavare di mano un danaro. Perciò quando passo non più mi ri- cercano di elemosina , non sperando da me cosa al- cuna , come s' io fossi sacerdote ; ma io con una legge ho provvisto che sieno distribuiti pei monasteri he- nedetlini, i maschi come del terz' ordine, eie femmine come pinzochere. Il cardinale con un riso commendò il suo parere. Un frate teologo si mostrò molto lieto contra i sacerdoti e i monaci , e disse : neani;o in tal guisa ti espedirai dai mendichi, non provvedendo a noi frati. A questo è provveduto , disse il buflfone, perchè avendo provveduto il cardinale ai mendichi vagabondi, a voi ancora è provveduto , che siete medesimamente vagabondi mendichi. Mosse questo matto tutti a riso, vedendo che se ne prese giuoco il cardinale; ma il frate non già, il quale, spruzzato di tale aceto, si sde- gnò in guisa, che svillaneggiando il buffone lo chiamò detrattore, figliuolo della perdizione , minacciando con sentenze delia sacra scrittura. Allora il buffone da do- vero buffoneggiando disse : non ti sdegnare o frate : perchè gli 6 scritto : t jNella pazienza vostra possedè- 28 ^ UTOPIA. rete le anime vostre » . Non mi sdegno, rispose il frate, ladrone, e non pecco, dicendo il salmista : < Sdegna- tevi, e non vogliate peccare » . Ed essendo dal cardi- nale benignamente ammonito , cbe si temperasse , egli rispose : Io parlo , signor mio , solamente per buono zelo , come fecero i santi uomini , laonde è scrit- to : «Lo zelo della casa tua mi mangiò. > Coloro che schernirono Eliseo sentirono quanto poteva lo zelo del calvo ; come sentirà forse questo ribaldo beffa- tore. Forse ti muovi, disse il cardinale, a buon zelo; ma faresti da prudente a non ti fare con un buffone schernire. Non farei, signor mio, rispose egli, più sa- viamente a tacere, dicendo il savio Salomone : « Ri- spondi al pazzo secondo la sua pazzia > : e se furon i puniti molti per ischernire un calvo ^ che seguirà a questo beffatore dei molti frati, tra i quali sono assai calvi, ed abbiamo privilegio papale che chi ci beffeg- gia sia scomunicato. Il cardinale vedendo costui non far fine accennò al buffone che si partisse, e mutato acconciamente il parlare, poco appresso diedesi ad udire le cause de' suoi clienti, e ci mandò via. Ecco, o Moro, quanto ho ragionato a lungo, vedendo che ti piaceva udire a punto il tutto: ed era necessario ch'io lo nar- rassi per farti vedere il giudizio di quelli che aveano sprezzato il mio parlare, e poi come parassiti lo con- fermarono, vedutolo confermare dal cardinale; laonde puoi comprendere quanto stimerebbono i miei consi- gli i cortigiani. Io gli risposi : il tuo prudente e sol- lazzevole parlare, o Raffaello , mi è sommamente pia- ciuto ; e mi è paruto, non solo trovarmi nella patria^ ma eziandio ringiovenire con la gioconda memoria di quel cardinale, nella cui corte fui da fanciullo nodrito ; ed amoti assai più, vedendoti alla memoria di tant'uomo affezionato. Tuttavolta sono pur del medesimo parere, che non ti spiacendo tanto, vegli entrare nella corte di un principe, dicendo il tuo Platone : saranno felici le repubbliche che si reggeranno dai fllosofl, ovvero se i re si daranno alla filosofia. Quanto si alloata- LIBBO PRIMO. ^ nera la felicità , se non vorranno i filosofi fare par- tecipi i re de' consigli lorot Anzi lo farebbero vo- lentieri^ e lo banno già fatto 'coi loro scritti , quando che volessero i principi ubbidire ai buoni avvisi. Ma ben previde Platone, che non filosofando i re, essi : ma- lamente istrutti dalla fanciullezza, sprezzerebbero i con- sigli dei filosofi , com* egli vedeva per prova appo Dio- nisio. S'io proporrò ad un re sani decreti, rigettando i cattivi semi, sarò da lui cacciato o schernito. Po- niamo ch'io fossi nel consiglio del re di Francia, e che tra buon numero di uomini prudentissimi si trattasse con quali arti si dovesse tener Milano , pigliare Napoli, andar centra i Veneziani , ed occupare i paesi vicini , confederarsi con i principi , e partecipare con quelli del bottino. Consigliano alcuni che si conducano Ale- manni, altri che si plachino con danari gli Svizzeri , altri che si diano danari all'imperatore, altri che si faccia accordo col re d'Aragona, lasciandogli il regno di Navarra. Ad altri piace che si faccia speranza al principe di Castella di qualche parentado, che si cor- rompano con danari alquanti nobili della sua corte. Circa l'Inghilterra dicono che più importa, che si fac- cia con essa finta amicizia, tenendo tuttora in punto gli Scoti, i quali ad ogni movimento degl'Inglesi en- trino nel paese loro nemicamente : e che di secreto si favorisca a qualche nobile bandito , il quale pretenda di aver ragione in quel regno, e cosi terrà sempre il re in sospetto. Se io uomicciuoìo , fra tanti uomini egregi , che consigliano a guerreggiare, mi levassi con- sigliando che si lasciasse stare l'Italia, essendo la Fran- cia tanto grande , che a fatica può essere da un solo governata, onde non dovesse pensare il re di più au- mentare il suo dominio : se io gli proponessi i decreti degli Ancorii (1), popoli opposti all'isola degli Utopiensi vicino all'Euronoto, i quali avendo guerreggiato per ottenere un regno al re loro, che secondo lai gli t9- (i) Probabilmente: u%za hMffo^imM (arra. H VTOFU. niva per eredità ; e presolo, vedendo che non meno tra- vaglio sostenevano a mantenerlo, per le civili ribel- lioni e correrie esterne , né mai poter lasciare l'eser- cito, ed esser rubati e spargere il sangue per Taltrui gloria, la pace non esser sicura, corrompersi i loro co- stumi, molti bramar pigliare l'altrui ed uccidere, e le leggi essere sprezzate (perchè il re distratto al governo di due regni , meno attendeva a questo ed a quello ) non vedendo fine a tariti mali^ fatto consiglio, propo- sero benignamente al re, che tenesse uno di quei due regni, perchè eran eglino tanti che non potevano es- sere governati da mezzo un re , come non patirebbe alcuno di aver un mulattiero con un altro comune ; onde quel buon re tenutosi Tantico regno , diede il nuovo ad oin suo amico, il quale tosto ne fu cacciato : se io gli mostrassi ancora che tanto sforzo di guerra, consumati ì tesori e rovinati i popoli , gli riuscirebbe in sinistro, sicché attendesse ad ornare il regno, dai suoi avoli sino a lui conservato, amasse 1 suoi, per esser da quelli amato, vivesse con loro, usando beni- gnità nel comandare , e lasciasse gli altrui regni poi- ché il suo è ampio e capace; questo parlare come pensi, Moro, che sarebbe grato? Ma seguiamo. Si tratta tra il re e i consiglieri di ammassare tesori , consigliando uno che si aumenti il prezzo delle mo- nete , dovendone dispensare , e che si abbassi poi nel riceverle; persuade altri che finga di far guerra, e raccolti i danari faccia con solenni cerimonie la pace , mostrando come pietoso principe di aver pietà del- l'umano sangue. Alcuno revoca a memoria certe an- tiche leggi, contro le quali ognuno (perchè non erano in uso) ha contraffatto, e asserisce che riscotendo le condannagioni di quelle, ne piglierebbe una buona somma, e parimente si mostrerebbe giusto prìncipe. L'ammoniscono gli altri , che sotto gravi pene faccia nuovi statuti in cose che giovino al pòpolo, e poi di- spensi con danari quei contra i quali va l'interdetto : cosi [Righerà doppio frutto, e da quei che contravver- LIBRO PRIMO. 25 ranno, e Tendendo ad altri molto cari i privilegi. Gli persuade alcuno che stringa i giudici a dispensare in ogni cosa a favore del dominio regale, e facciali ve- nire a litigare innanzi a sé, perchè così non vi sarà alcuno tanto stupido, che per aggradirsi al re non trovi qualche via di calunniare. Contendendo dunque i giudici in cosa chiarissima, si viene in dubbio della verità, e può il re a suo comodo interpretare la legge ; gli altri o per vergogna o per timore staranno addie- tro , e cosi darassi arditamente Ija sentenza , quando che basta al re potersi mostrar giusto torcendo le leggi, ove gli pare, e ciò che più importa, vogliono i religiosi giudici che non si disputi la causa regale. Consentendo tutti nel detto di Cassio : che non ba- sta ogni gran tesoro a quel principe che debba man- tenere un esercito; e che non può il re far cosa in- giusta , ancorché ne fosse bramoso , perch' egli è pa- drone del tutto, e tanto è proprio di ciascuno, quanto la sua benignità non gli leva; e che importa assai al prìncipe , al quale appartiensi di difendere il popolo , studiare che quello non sia per delizie e libertà mor- bido; le quali cose lo fanno ardito a non sopportare i duri e giusti imperj , ma la povertà lo fa paziente, e priva i nobili di ardire di ribellarsi. Or pensa ch'io leyandomi persuada, che questi consigli sono al re di- sonesti e perniciosi, il cui onore o sicurezza consiste piuttosto nelle forze del popolo che nelle sue, e mostri gli nomini eleggere il re, acciocché con istudio e fa- tica di quello essi stiano comodamente e siano da in- giurie sicuri, perchè è ufficio di principe portarsi verso i sudditi da pastore, il quale pasce le pecore, non sé stesso. Le contenzioni poi regnano più nei poveri, i quali specialmente studiano a cose nuove , e con spe- ranza di guadagno sono arditi ad ogni impresa. Se fosse un re tanto da poco ed odiato dai suoi, che non po- tesse tenerli soggetti senza far loro ingiuria o impove- rirli, fia meglio ch'egli rinunzi il regno, che tenerlo con tali arti, con le quali tiene la signoria, ma perdQ 26 UTOPIA. • la maestà, e conviensi alia regal dignità, esercitar piut- tosto la signoria negli uomini potenti, che sopra i po- veri, come volle inferire Fabrizio dicendo, che voleva piuttosto signoreggiare ai ricchi che esser ricco. Ed in vero chiameremo piuttosto guardiano di prigione uno che voglia esser solo ricco ed impoverire gli altri, e fa come l'imperito medico, che non sa cacciare una ma- lattia, senza introdurvene un'altra. Confessi di non sa- pere signoreggiare ad uomini liberi, o cacci da sé la dappocaggine e la superbia, le quali cose fanno sprez- zare, ovvero odiare il principe. Viva egli del suo, mi- suri la spesa con le rendite, raffreni i mali, e prevenga con buoni ordini che non si commettano, rinnovi le leggi antiquate, non pigli per alcuna colpa quello che non lascerebbe pigliare ad alcuno giudice. Io propor- rei quivi la legge dei Macarensi (1) , non lontani dal- l'Utopia, il cui re nella sua creazione giura di non aver mai nell'erario più di mille libbre d'oro e d'ar- gento alla valuta di quell'oro. Dicono che un re , il quale amò più il comodo della patria che il proprio, fece questa legge : parendogli che tanta somma potesse bastare al re per raffrenare i ribelli , o ribattere i ne- mici con arme, non dargli animo di assaltare gli altrui regni. Per questo specialmente si fece quella legge, e perchè Aon mancassero danari da cambiare ai citta- dini, e da dispensarsi dal re quando fosse necessario. Tal re era temuto dai cattivi, e dai buoni amato. Ma come narrerei tali cose ai sordi? Ai sordissimi, anzi, soggiuns'io; né giudico, per dire il vero, che si diano tai consigli ove non sono accettati. Come potrà en- trare nell'animo loro un parlare tanto insolito, es- sendo del contrario persuasi? Questa scolastica filo- sofia può esser grata in un famigliare parlamento tra gli amici , ma nei consigli dei principi , ove si trat- tano gran cose con grande autorità , giuste cose non hanno luogo. Perciò, disse Raffaello, non ha luogQ (I) Che nel greco liDgaaggìo è quanto dire fella. LIBRO PRIMO. 27 appo i principi la filosofia. Non diss' io questa filo- sofia scolastica, cbe si crede potersi accomodare ad ogni cosa ; ma y' è nn' altra filosofia più civile , la qaale secondo le cause e i tempi difende acconcia- mente la ragion sua con riputazione. Questa bisogna cbe tu usi. Altrimenti rappresentandosi là commedia di Plauto, ove i servi gareggiano insieme, se tu ve- stito da filosofo, entrassi in scena, e narrassi qualche sentenza della Ottavia (l)jOve Seneca disputa con Ne- rone, non sarebbe meglio cbe avessi taciuto, cbe re- citando cose aliene, aver fatto una tragi- commedia ? Avresti corrotto la presente favola, mescolandovi cose diverse, ancorché fossero migliori. In quella favola cbe ritrovi , portati meglio cbe puoi ; né ti devi porre., a turbar quella, quantunque ti venga a memoria di un'al- tra cbe sia più piacevole. Cosi é nella repubblica e nei consigli dei principi. Se non puoi al tutto estirpare le sinistre opinioni, né provvedere ai vizii già posti in uso, non però si debbe abbandonare la repubblica, sic- come neanche la nave agitata dalla fortuna, quantun- que tu non potessi raffrenare il furor dei venti. Non si debbe ancora replicare un parlar insolito, sapendo come non fia ricevuto negli animi che sono del con- trario persuasi ; ma bisogna andare per lungo circuito, e sforzarsi di condurre a buon porto quello che si tratta. Né potendo ridurre le cose a bene , studia al- meno cbe sieno men cattive, perché non possono es- ser le cose al tutto buone, se non sono tutti buoni, e questo io non aspetto fin a molti anni. Con que- st'arte, rispose egli, altro non farei, cbe, volendo me- dicare l'altrui furore, co^ gli altri impazzirei. Perchè volendo ragionare il vero, sono astretto a ragionare di queste cose in tal guisa. Non so se si appartenga al filosofo di ragionare il falso , ma a me certo non ap- partiene; benché quel mio parlare, come cbe fosse a quelli forse men grato, tuttavìa non mi penso che si (i) Una deUe tragedie attriboilu a Seneca. 28 UTOPIA. debba giadicare al tutto insolente ed inetto. Ma s'io narrassi quello che finge Platone nella sua repubblica, ovvero gì' istituti che fanno da dovero gli Utopiensi nella loro ; quantunque fossero, come sono in vero, mi- gliori , tuttavolta potrebbero parere alieni da questi costumi, perchè qui sono le possessioni divise tra pri- vati , ed ivi comuni. Ma non potrebbe il mio parlare esser ingrato se non a coloro , che avessero seco di- sposto di andare a rovina, perchè dimostra i pericoli, e ci ritrae da quelli; altrimenti qual cosa vi fu che non sia da dire convenevolmente ove ti piace? Se si debbono tralasciare tutte le cose sconcie, e le intro- dotte da rei costumi degli uomini : bisogna che noi cri- stiani dissimuliamo assai cose, le quali Cristo non vuole che siano dissimulate, anzi comandò che fossero pre* dicate in pubblico. E grandissima parte di queste è piti aliena dai presenti costumi, che non è stato il mio parlare. Ma gli accorti predicatori , vedendo che ma- lagevolmente gli uomini accomodavano i costumi loro alla legge di Cristo, acconciarono ai costumi la legge , come se fosse una squadra di piombo, affinchè si unis- sero in qualche guisa ; ma per mio avviso hanno ope- rato che più sia loro lecito esser cattivi. E tanto fa- rei io a dar consiglio ai principi: per(;hè ovvero sarò di parer diverso, ovvero, come dice Terenzio, aumen- terò la loro pazzia (l). Quel modo di circuire nel par- lare, e portarmi in guisa, che non potendo ridurre le cose a perfezione, almeno studii che riescano men cat- tive, non vedo che mi possa succedere. Perchè non è lecito in quei parlamenti dissimulare né chiuder gli occhi, anzi bisogna apertamente confermare i pessimi consigli^ e sottoscrivere ai pestiferi decreti. Sarà come una spia e quasi traditore colui che loderà maligna- mente i rei consigli. Né mi soccorre cosa alcuna, con la quale possa giovare chi entra fra quei consiglieri , i quali più agevolmente corromperebbono un uomo CI) Adelfiy atto I» scena 2. LIBRO PRIMO. d9 dabbene, che essi si emendassero. Perchè sono nella maligna usanza corrotti e guasti , laonde sei astretto con la tua innocenza colorire l'altrui pazzia, senza però che ti riesca di poterli ridurre che si mutino in meglio. Perciò Platone con bellissima similitudine rende ragione perchè s'astengano i savi dal maneggiar la re- pubblica ; perchè vedendo il popolo per la piazza sparso esser dalla pioggia bagnato , né potendo a quello per- suadere che si ritiri al coperto ; e giudicando vana im- presa uscire allo scoperto e bagnarsi , ricorrono essi al coperto, riputandosi aver fatto assai, di essersi ri- tratti in luogo sicuro, poiché non possono sanare l'al- trul pazzia. Quantunque, o Moro, per dire circa quello eh' io sento la verità, ove sono le possessioni dei pri- vati, ove il tutto si misura coi danari , ivi a fatica, per mio avviso, è possibile che si maneggi con giustizia una repubblica e con prospero successo. £ tienti per certo, che non si fa cosa alcuna giustamente ove le cose ottime vengono in mano di pessimi : ovvero che sìa felicità ove il tutto si divide tra pochi ; i quali non però Btanno molto comodamente, essendo gli altri nelle miserie. Perciò volgendomi per la mente gli ottimi, pru^ dentissimi e santissinrii istituti degli Utopiensi, i quali con si poche leggi governano le cose loro tanto ac- conciamente, che la virtù ha il suo premio ; e tuttavia, fatte le cose uguali, tutti ne hanno in copia: parago- nando ^ loro costumi quelli delle altre nazioni, che sempre ordinano nuove leggi, né mai ne hanno fatto abbastanza, nelle quali nazioni ognuno chiama suo quello che può avere , né si possono ordinare tante legg>9 che siano sufficienti per acquistare, conservare o conoscere il suo dall'altrui; il che manifestano le infinite liti, che non mai hanno Une: considerando io meco stesso queste cose , non mi maraviglio che Pla- tone non si degnasse di far legge a coloro , che non accettavano quelle, con le quali ogni cosa si fa co- mune. Previde quell'uomo prudentissimo quella esser unica e sola via alla salute, che si faccia un'ugualità 30 UTOPIA. de- beni esterni, la quale come si può conservare ove ciascuno ha di proprio ? Perchè traendo ciascuno a sé guanto può , dividendosi i pochi ogni gran tesoro , e lasciando agli altri la p*© verta, avviene che una j)arte sembri dell'altra più degna, la qual però è rapace, mal- vagia e inutile ; ed opprime gii uomini modesti e sem- plici, i quali con industria cotidiana sono più benigni verso la repubblica, che verso loro stessi. Io mi rendo certo che non si possano trattare le cose dei mortali, né distribuire con giusta ragione e con felicità , ove non sia al tutto levata via la proprietà. E che durando quella, buona parte e la/migliore degli uomini non possa schivare la povertà e rìnfelicissima miseria, la quale io confesso che si può alleggerire, ma non al tutto annullare. Se fosse ordinato che ninno avesse più che certo numero di campi, e una tal determinata somma di danari, e se vi fossero leggi che il principe non fosse troppo ricco, né il popolo insolente ; che non si cercassero i magistrati, né si vendessero, né fosse di necessità maneggiarli con spesa, onde poi si dà oc- casione di ricuperare i danari con frodi e rapine, o è forza preporre i ricchi a quegli ufl&cii a cui non do- vrìano preporsi che ì saggi, tai leggi variano come le medicine , che possono porger ristoro al corpo , già guasto per infermità, ma non sanarlo, riducendolo al suo primo stato. Né vi è di questo speranza alcuna, mentre che ognuno possiede di proprio; anzi polendo sanare una parte farai incrudelire la ferita dall'altra, perché una s'inferma con la sanità dell'altra, non po- tendosi aggiugnere all' una , che all'altra non si levi. A me, diss' io, pare il contrario, che non si possa vi- vere comodamente, ove son tutte le cose comuni. Come avranno tutti abbastanza i bisogni loro, quando cia- scuno si ritragga dalla fatica non essendovi dalla ne* cessità astretto? E il fidarsi dell'altrui industria fa l'uomo negligente. Ma essendo gli uomini dalia povertà stimolati, né potendo tenere per proprio ciò che gua- dagnano con industria e sudori, non seguono di ne* LIBRO PBUtfO. 31 eessità uccisioni e sedizioni tra loro; levata via spe- cialmeate l'autorità del magistrato , la quale non può aver luogo appo tali uomini, cbe non sono in cosa al- cuna differenti. Non mi maraviglio, Raffaello rispose, cbe a te cosi ne paia, il quale non ne hai veduto pur un'immagine falsa. Ma se fossi stato meco in Utopia, ed avessi dì presenza veduto i loro costumi, come feci io , che vi sono vissuto più di cinque anni , né mai avrei voluto partirmene, se non era per manifestare di qua sì nuovo mondo ; confesseresti veramente non aver veduto altrove che in quel luogo un popolo bene istituito. Certamente a fatica mi darai a credere, sog- giunse Pietro Egidio, che si trovi in quel nuovo mondo un popolo meglio istituito che in questo da noi conosciu- to, nel quale non sono gl'ingegni peggiori ; e penso che siano qui più antiche le repubbliche, e più comodi tro- vati dal lungo uso, per tacere di alcune cose fortuita- mente scoperte, che non si potrebbero trovare da alcun ingegno. Circa l'antichità, rispose Raffaello, diresti altri- menti , quando avessi letto le storie loro delle cose pubbliche , alle quali se dobbiamo dar fede , furono prima le città appo loro che appo noi; ed ha potuto esser cosi qua come là ogni cosa a caso o per inge- gno trovata. E per mio avviso , ancorché fossimo più acuti d'ingegno che quelli , certamente per studiosa in- dustria loro siamo di gran lunga inferiori. Perché nar- rano le ^ro storie, che innanzi al venir nostro , non aveano inteso cosa alcuna di noi, come ci chiamano, oltrequinoziali, se non che, già mille e dugento anni, una nave che si ruppe appo l'Utopia, ivi portata per fortuna, ebbe sopra alquanti Romani ed Egizii, i quali condotti al lido non più si partirono di quel paese. Vedi come fu loro tale occasione comoda per loro in- dustria. Non era arte appo il romano imperio, che fosse acconcia ai fatti loro, la quale essi non imparassero da que' forestieri, o con acute indagini quindi non ri- trovassero. Eccoti quanto bene riusci loro da pochi nomini portati là da questo nostro mondo. E se per 32 UTOPIAi Simile fortana alcano di loro è stato spinto a noi^ qae- sto si è cosi scordato , come si scorderanno i discen- denti loro, ch'io abbia abitato in quel luogo. E sic- come essi ad un incontrarsi con noi hanno fatto pro- pria ogni nostra industriosa invenzione; cosi penso che andrà lungo tempo, prima che pigliamo il migliore loro istituto. E penso altresì che una sola cosa sia cagione, che non essendo noi né per ingegno, né per forze inferiori, tuttavia le cose loro sono più felice- mente amministrate, e con maggior felicità fioriscono. Pregoti di grazia, diss' io, o Raffaello , che ci vogli de- scrivere quest'isola,^ non già in brevità, ma che ci di- mostri con ordine i campi, i fiumi, le città, gli uomini, i costumi, gl'istituti, le leggi, od ogni cosa che ti parrà noi voler conoscere; cioè tutto quello che non sap- piamo. Lo farò, disse Raffaello, molto volentieri, spe- cialmente che tengo il tutto in memoria : ma bisogna aver tempo. Andiamo adunque a desinare, e poi pigile- remo il tempo a tua voglia. Cosi facciamo, rispose egli. Ed entrati desinammo, e poi tornammo nel me- desimo luogo, e comandando ai famigliari che non ci turbassero , io e Pietro Egidio confortammo Raffaello che ci attenesse la promessa. Egli adunque, vedendoci attenti e bramosi di udire, stato alquanto tacito a se- dere pensando, cominciò a parlare in questa guisa» LIBRO SECONDO L'isola degli Utopii,» larghissima nel suo mezzo, si stende dugentomila passi, e per lungo tratto non si stringe molto, ma vèr la fine d'amendue i capi si va assottigliando : i quali, piegati in cerchio di cinquecen- tomila passi, fanno l'isola in forma 'della nuova luna. Questi suoi comi, dal mare combattuti, sono distanti ano dall'altro circa undici miglia , ed il mare, tra essi dai venti difeso , fa come un piacevol lago e comodo porto ; di onde l'isola per suo bisogno manda le navi agli altri paesi : la bocca da una parte con guadi e sec- che, dall'altra con aspri sassi, mette spavento a chi pensasse d'entrarvi come nemico. Quasi nel mezzo di questo spazio è un'alta rupe, quale perciò non è peri- colosa, sopra di cui in una torre da loro fabbricata gli Utopiensi tengono il presidio: molte altre rupi vi sono nascoste e perigliose. Essi solamente hanno co- gnizione dei canali : indi avviene di raro che alcun esterno, che non sia da uno di Utopia guidato, vi possa entrare: quandoché essi a fatica v'entrano senza peri- M(fro. t 34 UTOPIA. colo, non si reggendo a certi segni posti nel lido, i quali, essendo mossi dai luoghi soliti, guiderebbono ogni grande armata nimica in precipizio. Dall'altra parte è un porto assai frequentato , e dove si scende , fortificato dalla natura e con arte in tal guisa, che po- chi uomini Io possono difendere da copioso esercito. Ma come si narra, ed anco la qualità del luogo ne dà indizio, quella terra anticamente non era dal mare cir- condata. Utopo, che le diede il nome, perchè prima si nomava Àbraxa, e ridusse coloro che l'abitavano da una vita rozza e villesca a questa foggia di vivere umano e civile, nel quale vincono quasi tutte le ge- nerazioni degli uomini ; preso in un tratto il luogo , tagliò quindicimila passi di terreno col quale era la Utopia continuata a terra ferma, e la fece ìsola. Ed avendo astretto a tale opera non solamente quelli del- l'isola, ma i soldati suoi ancora , con tanto numero di uomini, in brevissimo tempo forni tale impresa, la- sciando stupiti i vicini popoli, i quali di questo prima ridevano. Sono nell'isola cinquantaquattro città grandi e magnifiche di medesima favella , istituti e lee^gi , e quasi all'istesso modo situate, quanto il luogo ha per- messo. Le più vicine sono scostate una dall'altra mi- glia ventiquattro ; ma ninna è tanto lontana dall'altra, che non vi possa andare un pedone in un giorno. Tre vecchi cittadini e prudenti di ciascuna città ogni anno concorrono in Amauroto (1), la quale per esser nel mezzo dell'isola, e a tutti comoda, è tenuta la prin- cipale, ed ivi trattano delle comuni bisogne dell'isola. Ogni città non ha meno di ventimila passi di terreno d'ogni intorno : ed alcune più, come sono più scostate una dall'altra. Ninna brama di ampliare i suoi confini, riputandosi %\\ abitanti piuttosto lavoratori dei campì che tengono, che padroni. Hanno per le ville accon- ciamente le case, di ogni instrumento campestre for- (I) E' varrebbe città mal Hoto od oscura , stando alla grecasi- goiflcazione. LIBRO SECONDO. 35 aite : in queste vanno ad abitare i cittadini a vicenda. Ninna famiglia rusticana ha meno di quaranta persone^ oltre due villani. Ad essa è preposto un padre ed una madre di famiglia per età e costumi ragguardevoli, e ad ogni trenta famiglie dassi un capo. Tornano nella città ogni anno venti di ciascuna famiglia, i quali sono stati in villa due anni. In luogo di questi vengono altri venti dalla città ^ perchè siano nelle opere ville- sche ammaestrati da quelli, che per esservi stati un anno, sono di tali opere più esperti ; e Tanno vegnente ammaestrino gli altri , a fine che non si trovino tutti del lavorare i campi ignoranti, e nel raccogliere la vet- tovaglia non commettano errore. Benché questa foggia di rinnovare gli agricoltori sia solenne, acciocché ninno sia astretto di continuare la vita rusticana più lunga- mente; nondimeno molti, dilettandosi delTagricoltura, impetrano di starvi più anni. Gli agricoltori coltivano il terreno , nodriscono gli animali , apparecchiano le legne, e le portano alla città per terra o per mare, come viene loro più in acconcio , fanno nascere con mirabile artificio un' infinità di polli, senza che covino le galline, ma con un caldo proporzionato, e come ma- dri gli accompagnano e governano. Nodriscono pochi eavalli, e feroci, dei quali si servono solamente per la imprese che si fanno a cavallo ; perchè ogni fatica di coltivare e condurre le cose loro fanno con opera dei buoi, i quali benché siano più lenti che i cavalli, tut- tavia sono alla fatica più pazienti, e meno soggetti ali6 infermità : oltre che riescono di minore spesa, e quando più non vagliono alla fatica , si possono mangiare. Usano di seminare solamente il frumento, bevono vino di uva, di pomi o di pera , ovvero Tacqua pura , che talvolta cuociono con miele o liquirizia , della quale hanno copia. £ quantunque sappiano quanta vettova- glia si consuma nella città e nei contado, nondimeno seminano di più^ per darne ai vicini. Ogni istromento richiesto all'agricoltura si piglia nella città dai magi- strati, senza costo alcuno : e molti là concorrono ogni 36 UTOPIA. mese alle feste soleani. Quando è tempo di tagliar il frumento, i preposti dei lavoratori avvisano i magi- strati quanto numero di cittadini si debba mandare, e concorrendovi tutti a tempo, in un giorno sereno quasi tagliano tutto il frumento. Delle città e specialmente di Amauroto. Gbi ha veduto una di quelle città, le ba vedute tutte, tanto sono una airaltrsi simili, ove la natura del luogo Io consente. Ne dipingerò adunque una ; e benché non importi descrivere più questa che quella, nondimeno ragionerò di Amauroto come più degna. La quale, per avervi il senato, è da tutte le altre onorata ; ed io ho di quella maggior cognizione , perchè vi sono stato circa anni cinque. Amauroto è situata in una costa di monte^ ed è quasi quadrata, perchè la sua larghezza comincia poco di sotto dalla cima del colle, e per due- mila passi si stende al fiume Anidro (i), lungo la ripa del quale alquanto più si stende. Anidro sorge da pic- ciol fonte ottanta miglia sopra Amauroto ; ma dal con- corso d'altri fiumi accresciuto, passa avanti Amau- roto largo cinquecento passi , ed indi poi slargan- dosi a seicento^ mette nell'Oceano. In questo spazio di alquante miglia , tra il mare e la città , l'acqua va e torna con molta fretta ogni sei ore. . Il mare, quando v'entra, occupa il letto del fiume per trenta miglia, e caccia indietro le acque di quello : e alle fiate le corrompe col salso. Ma tornando poi ad- dietro , il fiume air usato corre con dolci acque irri- ganti la città: ed un ponte non di travi o legnami, ma di pietra egregiamente lavorata, serve per passarlo a quella parte, che è più dal mare lontana, acciocché le navi possano trascorrere innanzi a quel luogo della città senza pericolo. Hanno ancora un altro fiume, non già grande, ma tranquillo e piacevole: il quale sorgendo U) Sembra cosi detto per antitesi, poìehé sigoiAeff ienz'oe^lha* LIBRO SECONDO. 37 del monte ove la città è fabbricata, passa per mezzo di quella, e mette nell'Anidro. Gli Amaurotani hanno tolto dentro nella città la fonte di questo fiume, cbe non era molto lontana, e fortificatola, acciocché non potessero i nimici divertire l'acqua o corromperla. Indi con cannoni di pietra cotta derivano l'acqua alle più basse parti: ed ove per il luogo non si può condurla, fanno cisterne, nelle quali si raccoglie la pioggia, e ne pigliano i popoli il medesimo comodo. Il muro largo ed alto cinge la città con torri e rivellini : la fossa secca, ma larga e profonda, e con spine e siepi, da tre bande circuisce le mura; e dalla quarta il fiume serve per fossa. Le piazze sono fatte acconciamente e per condurvi le cose necessarie, e perchè siano sicure dai venti : gli edificj non vili e tirati al dritto, quanto è lungo ogni borgo, con le case a rimpetto una dell'al- tra : le fronti dei borghi hanno tra loro una via larga venti piedi. Dietro le case, quanto è largo il borgo, è l'orlo largo e rinchiuso dalle muraglie di dietro dei borghi: ogni casa ha la porta di dietro e davanti, la quale si apre agevolmente in due partii e si chiude da sé stessa: ognuno vi può entrare. Tanto hanno ogni lor cosa comune, che ancora mutano le case ogni dieci anni. Fanno gran stima degli orti, nei quali piantano viti, frutti, erbe e fiori con grande ordine e vaghezza. Gareggiano i borghi uno con r altro di aver orti più belli : né hanno cosa, dalla quale piglino più diletto e comodo, che di questi; dei quali pare che avesse più cura il loro autore, che di qualunque altra cosa. Per- chè dicono Utopo da principio aver descritto questa forma della città, lasciando poi la cura dì ornarla ai discendenti. Nelle loro istorie da quel tempo che fu presa l'isola, che comprende anni mille settecento e ses- santa, le quali conservano molto diligentemente, leg- gesi cbe le case erano basse come tugurj, fatt& di ogni sorta di legnami che potevano avere: le pareti lutate» e la coperta di strami levata nel mezzo. Ma ora le case haoiio tre palchi^ i muri di selice o mattoni con calce S8 UTOPIA. incrostati, e npieni di rottami. I tetti piani e rassodati in guisa, clie non portano pericolo del fuoco, sono co- perti di piombo per tollerar le pioggie. Le finestre di vetro, che hanno bellissimo, li difendono dai venti ; usano ancora a questo tele sottili unte d' olio lucidis- simo di ambra ; e indi hanno più chiara luce, e sono dal vento meglio difesi. Dei magistrati. Ogni trenta famiglie si eleggono ogni anno un magi- strato, detto da loro anticamente Sifogranto, ed ora Fi- ìarco. Quello, che è preposto a dieci Sifogranti con le loro famiglie, si nomava Traniboro, ed ora Protofilarco. l Filarchi, che sono dugento, giurano di eleggere prin- cipe quello che giudicheranno di comune utilità, e cosi danno voti segreti per uno dei quattro che sono pro- posti dal popolo, e si pigliano dalle quattro parti della città, uno di ciascuna. Questo magistrato dura in vita, purché non venga in sospicione di voler tirannizzare. I Tranibori si eleggono ogni anno, ma non li mutano senza causa. Tutti gli altri magistrati sono annuali. I Tranibori ogni terzo di, e talvolta più spesso, vengono a consigHo col principe circa le cose della repubblica, e se v'è pure qualche controversia l'acchetano. Chia- mano ogni di in senato due Sifogranti per ordine: ed hanno per legge che niuno statuto sia di valore , del quale non sia prima stato trattato tre di nel consiglio. Gli è pena la testa a trattare di cose pubbliche fuori del senato, acciocché non potesse il principe ovvero i Tranibori ordire una congiura, ed opprimere il popolo con tirannia, e mutare lo stato della repubblica^ Per- ciò ogni cosa importante va al consiglio de* Sifogranti, i quali ragionatone con le loro famiglie, ne consigliano tra loro, e del loro parere avvisano il senato. Talvolta nel consiglio trattasi di tutta l'isola. Usano i magistrati di non ragionare sopra cosa alcuna quel giorno, che essa viene proposta, ma la differiscono nel seguente: LIBRO SECONDO. 39 a fine che pensandovi sopra, deliberino quello che sia alla repubblica profittevole, e non si abbiano a pentire della loro risoluzione, come poco considerata. Degli arteficL L'agricoltura è comune arte a' maschi e femmine, e ninno è di quella inesperto. Tutti dalla fanciullezza r imparano; parte in iscuola, ove se ne danno i pre- cetti ; parte nei campi alla città più vicini , ove sono condotti quasi a giuocare, acciocché non solamente veg- gano rarte, ma piglino occasione di esercitare il corpo. Oltre l'agricoltura, a tutti, come dicemmo, comune^ cia- scuno impara un'arte, o di muratore, o di magnano, o di legnaiuolo, o lavorare di lana o di lino, perchè non è appo loro altro artificio, nel quale si occupino, molte persone. Le vesti sono di una forma, eccetto che va- riano quanto basta a discernere il sesso, ed i maritati dai non maritati. Questa usano per ogni età ; ed è vaga da vedere, e comoda all'estate ed al verno. Ogni fami- glia fa le sue vesti, ed ognuno impara alcuna di quelle arti ; non solo i maschi, ma le femmine ancora, le quali perchè sono men robuste, si danno alla lana e al lino, lasciando ai maschi le arti faticose. La maggior parte impara l'arte del padre : tuttavia se alcuno ad altra arte s'inchina, egli impara Tarte della famiglia, nella quale viene adottato; il che si fa per opera del magistrato insieme col padre di quella. Se uno, imparata un'arte, brama d'impararne un!altra, parimente se gli concede : e poi esercita qual più gli aggrada, se la città non ha più bisogno di una che dell'altra. L'ufficio de'Sifogranti è specialmente di provvedere, che ninno stia ozioso, ma eserciti con sollecitudine l'arte sua ; non però dalla mattina per tempo sino alla sera, che è miseria estrema, ed usasi in ogni paese , eccetto che appo gli Utopi. 1 quali di ventiquattr'ore tra il di e la notte sei ne as- segnano al lavoro; tre avanti desinare, dopo il quale riposano due ore, ed indi tre altre^ appresso alle quali 40 UTOPU. cenano. Annoverando la prima ora dopo il desinare, verso l'ottava vanno a dormire , e dormono otto ore. Il tempo, cbe avanza tra le opere e il desinare, ognuno lo dispensa a suo modo, pure in opere virtuose: e molti si occupano in lettere. Leggesi ogni di innanzi giorno^ e vi vanno specialmente coloro, che sono eletti allo studio. Ma vi concorrono assai altri maschi e fem- mine, come è il desio loro. Se alcuno , a cui non ag- grada io studio, vuole in questo tempo esercitarsi nel- l'arte sua, ninno lo vieta ; anzi viene lodato, come per- sona utile alla repubblica. Dopo cena stanno a diporto un'ora^ la state nei giardini, e Tinverno nelle sale, ove mangiano. Ivi cantano ovvero ragionano. Non sanno giuochi di fortuna e perniciosi. Ma usano due giuochi, non dissimili a quello degli scacchi : uno è il contrasto dei denari, nei quale un numero vince Taltro numero : neiraltro le virtù combattono coi vizj. In questo giuoco accortamente si può vedere la discordia tra essi vizj, e la loro concordia contra le virtù ; quali vizj a quali virtù si oppongano; con quali forze combattano aper- tamente; con quali macchine da traverso resìstano; con quali aiuti le virtù vincano le forze de' vizi ; con quali arti ribattano ogni loro sforzo, e con quali modi una parte resti vittoriosa. Ma perchè non pigliate quivi errore, bisogna considerarvi attentamente. Potreste pen- sare cbe essi lavorando solamente sei ore , patissero disagio delle cose necessarie, il che non avviene ; anzi lavorando appena quel tempo, guadagnano quanto fa loro bisogno ad ogni comodo , ed anche di più ; e questo potrete comprendere, considerando quante persone appo le altre nazioni stiano oziose. Primieramente quasi tutte le femmine, che sono la metà del popolo : ed ove le femmine si affaticano , ivi gli uomini si danno al ri- poso. Quanta turba di preti e religiosi? I ricchi e no- bili con le copiose famiglie dei servi, spadaccini e pa- rassiti. Aggiugnivi i furfanti che si fìngono infermi, per dappocaggine, e troverai che picciol numero apparecchia quello^ che da tutti gli uomini si consuma. Considera LIBRO SKGONDO. 41 in questi quante arti non necessarie si fanno per ser* yire alia vita lussuriosa, dalie quali si piglia gran gua* dagno. Se i pochi , che lavorano , fossero divisi nelle poche arti al vivere umano più comode, la vettovaglia sarebbe a si vii prezzo^ che gli uomini avanzerebbono assai oltre il Ibr vivere. Se consideri quei che eserci- tano arti inutili, e che stanno oziosi^ vivendo delle al- trui fatiche > comprenderai quanto poco tempo baste- rebbe per guadagnare quanto fosse opportuno non solo al vivere, ma eziandio alle voluttà con avvantaggio an- cora, il che si vede manifestamente nell'Utopia. In tutta la capitale e nel contado non sono cinquecento tra uo- mini e donne, che stiano in ozio, e siano gagliardi. I Sifogranti istessi, benché siano per le leggi dal lavoro esenti, tuttavia affaticano, per invitare col loro esempio gli altri a far lo stesso. Sono pure esenti coloro, i qaali^ commendati dai sacerdoti al popolo^ vengono per se- greta ballottazione dei Sifogranti applicati agli studi. Quelli che in essi non riescono, sono rimandati ad im- parare alcun'arte ; ma awien {movente airincontro, che qualche meccanico, a quelle ore che non lavora, fa tanto profitto in lettere, che viene levato dall'arte e posto nell'ordine dei letterati. Di quest'ordine de'le Ite- rati si eleggono i sacerdoti, i Tranibori ed anco il prin- cipe, nomato anticamente Barzane, ed era Ademo. L'al- tra moltitudine, non oziosa, né occupata in esercizi inutili, fa in poche ore grandi opere ; tanto più ch'essa ha d'uopo in molte arti necessarie di minor fatica che le altre genti. Perchè altrove il figliuolo, non curando di mantenere quello che ha fabbricato suo padre, lascia venire gli ediflcj a tale , che il suo erede è astretto a rifare con gran spesa quello^ che si poteva prima con poco ristorare. E alcuni sontuosi, non contentandosi della casa fabbricata da un altro, ne edificano una naova, e lasciano andare quella in rovina. Ma nella repubblica Utopiense, così bene ordinata, di raro si edi- fica di nuovO; aivEi si prorveJe ad ogni mancamento, che possa avvenir nelle case, prima che avvenga. Cosi 4^ UTOPIA. durano lungamente gli edificj con poca fatica; laonde non hanno i muratori molte volte che fare , se non squadrano legaami e lavorano le pietre^ per aver la materia ad ordine di fabbricare quando fa mestieri. Vedi quanto poca fatica usano neli' apprestarsi il ve- stire. Quando sono al lavoro, usano vesti di cuoio o di pelle^ e queste durano anni sette ; quando vanno in pubblico, si mettono sopravvesti, che coprono quelle si rozze, e le usano tutte di un colore nativo nell'isola. Cosi i panni di lana meno costano appo loro, che presso le altre nazioni. Il lino poi, che meno vale, è più la uso; e si considera in esso solamente la candidezza^ come nella lana la mondizia ; né si apprezza più il filò» perchè sia più sottile. Cosi ognuno si contenta di una veste quasi per due anni, quandoché altrove non hanno abbastanza gli uomini di quattro, di cinque, e neanco di dieci di seta e di lana. Ma gli Utopiensi, avendo abito che li difende dal freddo, non sono astretti desi- derarne più ; quando che ivi ninno é dell'altro più or- nato. Pertanto esercitandosi in vili arti, avviene che in poche ore guadagnano assai; e quanto avanza loro dal vivere dispensano a ristorare le opere pubbliche. E quando non [a bisogno di questo, per pubblico editto lavorano ancora njeno. Non vogliono i magistrati oc- cupare i loro cittadini alla fatica contra lor voglia; quandoché l'istituzione della loro repubblica a questo mira specialmente, che quanto per le pubbliche neces- sità è lecito, si diano alle occupazioni intellettuali, in cui pensano che consista la vera felicità. Del commercio tra i cittadim. É ragionevole che si dichiari in che guisa i cittadini hanno commercio insieme, e trattano le loro bisogne. Essendo la città composta di famiglie, essi le fanno grandi col maritar le figliuole. Perché vanno le giovani maritate in casa dei mariti; ma i figliuoii maschi e i discendenti rimangono nella famiglia ed ubbidiscon o al LIBRO SECONDO. 43 più vecchio, al quale sì sostituisce un altro per et^ prossimo, se egli mancasse di giudizio. Ma perchè la città non venga meno di cittadini, né cresca oltre modo, vietasi che niuna famiglia (perchè in ogni città ne sono seimila, non contando il senato) abbia meno di dieci o più che sedici fanciulli , poiché negli adulti non si può tener misura. E fassi questo agevolmente , dando nelle famiglie più rare quei figliuoli, che nascono nelle più copiose; e quando crescono oltre modo, mandan- doli nelle altre città meno popolose. Quando poi mol- tiplicano per tutta l'isola, inviano colonie ai luoghi vicini, ove siano larghi terreni non coltivati dagli abi- tatori ; cui pigliano in compagnia a vivere con le loro leggi, se si contentano. £ se ne contentano facilmente, perchè i coloni coi loro buoni istituti rendono fertile il terreno, il quale forse era giudicato sterile e maligno. Ma se non vogliono abitare con loro, li cacciano da quei confini, che sì prendono. E credono aver causa giu- stissima di guerreggiare e trattar da nemici coloro, i quali non lasciano lavorare ad altri quel terreno, che ad essi avanza , e di cui si possono nodrire molti. Se alcune città loro tanto si scemano di uomini, rhe non vi si possa supplire dalle altre (il che a memoria loro è ac- caduto solamente due fiate per la pestilenza) richiamano i cittadini dalle colonie, per fare r isola loro popolosa ; volendo piuttosto disfare le une , che lasciar venir meno le altre. Ma torno alla foggia del viver loro. 11 più vecchio è preposto alla famiglia, le mogli ser- vono ai mariti, e i figliuoli ai padri, ed universalmente i minori ai maggiori. Ogni città si divide in quattro parti eguali, e nel mezzo di ciascuna è una piazza, ove ogni famiglia porta i suoi lavori, e li dispone per ordine in certi granai. Ogni padre di famiglia piglia di qui ciò che fa bisogno ai fatti suoi, senza prezzo alcuno ; quando che hanno copia di ogni cosa, né alcuno teme che gli manchi, e si contenta solamente di quanto gli fa me- stieri. Essendo manifesto che dove non è il timore di dover mancare delle cose necessarie, né superbia di vq- 44 UTOPU. ìenì aumentare di riccbezze soverchie (le qaali cose fanno l'uomo avido e rapace; il che non avviene agli Utopi), ivi è un vìvere tranquillo. Evvi il mercato dei cibi, ove si portano erbe > frutti, pane, pesci, carne di ogni animale, e questo fuori della città vicino al fiume, ove si possono lavare le immondizie. Gli animali sono uccisi e lavati per mano di famigli, onde non si con- taminino i cittadini, parendo loro che la umanità e cle- menza air uomo naturale, con tali uccisioni a poco a poco venga meno. Né lasciano introdurre nella citlà cosa alcuna sporca o fracida, acciocché non si corrompa r aria, e indi nasca pestilenza. Ogni borgo ha certe spa- ziose sale, distanti ugualmente una dall'altra, e con i loro propri nomi. In queste abitano i Sifogranti : e le trenta famiglie a loro commesse, quindici da un lato e q^indici dall'altro della loro dimora: ivi hanno a ve- nire a mangiare in comune. Quelli, a cui spetta di ap- parecchiare i cibi per ciascuna sala, vengono in piazza a cbiedere i cibi per quante persone si trovano avere. Hanno special cura degli infermi, i quali sono gover- nati in pubblici alberghi. Perché mantengono fuori della città quattro stanze tanto capaci, che paiano quattro picciole città, onde vi stiano molti infermi acconcia- mente , e i contagiosi possano tenersi dagli altri lon- tani. Sono queste stanze ad ogni comodo degli infermi artificiosamente fabbricate , e tanta diligenza vi si usa e assidua cura di medici, che ognuno, infermando, si contenta piuttosto di esser governato in tal luoghi, che nella casa propria: ma ninno vi si manda contra sua voglia. I cibi, secondo l'ordine dei medici, sono asse- gnati ai dispensieri, che li dividono tra quelli di cia- scuna sala. Se non che si ha riguardo al principe, al pontefice , ai tranibori , agli ambasciatori e agli stra- nieri, 1 quali per altro vi si veggono di raro, e a cui si provvede altresì dì certe stanze a sufficienza fornite. Concorrono ad ora dì mangiare a suono di tromba di metallo tutte le famiglie raccomandate ad un Sifogrante, eccetto gr infermi che giacciono negli alberghi o nelle LIBRO SKCSONDO. 4d proprie case. Benehè soddisfatto alle sale, non si nega il cibo della piazza a chi lo chiede, sapendosi di certo che questo non faccia senza causa ragionevole. Perché quantunque non sia vietato ad alcuno il mangiare in casa, tuttavia ninno vi sta volentieri, non essendo te- nuta per cosa onesta, anzi sembrando pazzia pigliar la fatica dì apprestare un magro desinare, potendo tro* vario delicato nella sala. Ivi i servi ministrano in quelle dose, che sono di fatica o di qualche sporchezza; e le femmine cuociono ì cibi ed apparecchiano il convitto. Mangiano le famiglie a tre tavole o più, come porta ri numero loro, i maschi colla schiena al muro, e le femmine di fnori; acciocché volendosi levare p^ qualche disconcio, come suole avvenire alle gravide, non turbino gli ordini ; ed anco possano andare a rivedere le balie, che stanno in una stanza sempre col fuoco e l'acqua monda, per go* vernare i bambini a voglia loro. Ognuna latta i suoi figliuoli, se non é impedita da infermità; e quando av- viene questo, le mogli dei Sifogranti agevolmente pro- veggono di balia. Perché quell» che sono atte a far que- sto, si offeriscono spontaneamente ; massime che tutti le commendano di clemenza , e queUi che da alcuua é lattato la riconosce per madre. Nella stanza delle balie stanno i fanciulli da cinque anni in giù. Gli altri sin- ché sono all'età di maritarsi, e maschi e femmine ser- vono alle tavole, e chi non può servire sta presente con sommo silenzio. Mangiano quello che loro viene sporto da quei che seggono, senza avere ora alcuna assegnata al loro desinare. Nel mezzo é la prima tavola a traverso del cenacolo, dalla quale si mirano tutte le tavole. A quella seggono il Sifogrante e la moglie, e due de* più vecchi. Seggono a quattro a quattro per tutte le tavole. Se in quella sifogranzia é tempio alcuno , il sacerdote e la moglie di quello seggono a tavola col Sifogrante. Si pongono d'amendue le parti i più gio- vani , di poi i vecchi , di maniera che si trovano in- sieme di età dissimili, acciocché; la gravità e riverenza dei vecchi raffreni i giovani da ogni sconvenevole atto 46 UTOPIA. parlare. Le vivande più delicate sono portate primie- ramente ai più vecchi, i luoghi dei quali sono ragguar- devoli: di poi si serve agli altri ugualmente. I vecchi dispensano a chi loro piace quei delicati cibi^ dei quali non era tanta copia ^ che se ne potesse dare a tutti. Cosi vengono onorati i vecchi, e nondimeno il comodo a tutti perviene. In ogni desinare e cena si legge bre- vemente qualche cosa, che vaglia a formare i costumi. Da questa lezione i vecchi pigliano occasione di onesti parlamenti^ ma sollazzevoli e grati. Non però tanto sono prolissi nel parlare che non vogliano udire ragionare ì giovani; anzi a studio li provocano^ per comprendere nella libertà del convito la prontezza e disposizione di ciascuno. Il desinare è di corto tempo, perchè si va al lavoro; ma la cena tengono più lunga, perchè segue poi il dormire, che giudicano molto efficace per il di- gerire. Non cenano senza canti, e copia di frutti o con- Jfezioni ; fanno profumi odoriferi ; spargono unguenti, e non risparmiano cosa alcuna, che possa rallegrare il convito: non parendo loro che sia vietata alcuna vo- luttà, purché non ne riesca qualche incomodo. In que- sta guisa vivono nella città : ma in villa, ove sono le famiglie una dall'altra lontane, tutte mangiano a casa propria, uè manca loro cosa alcuna, perchè viene ad esse portato di quello che si mangia dagli altri nella città. Pellegrinaggi degli Utopiensi. Se alcuno brama di vedere qualche suo amico che stia in altra città, oppure la città stessa, ottiene facil- mente licenza di andarvi dai suoi Sifogranti e Trani- bori : purché non sia qualche bisogno deli' opera sta. Mandasi alcun nunzio con un'epistola, che significa aver egli licenza di andarvi, e gli assegnano il giorao pel ritornare. Se gli dà un carro con un servo pubblico, che guidi e governi i buoi. Se non ha femmine in com- pagnia, rimanda il carro> per non aver seco tate ixnpe- LIBRO SECONDO. 47 dimento. Quantunque nulla porti con sé, alcuna cosa, tuttavia non gli manca per viaggio^ perchè ovunque si trova^ è in casa sua. Stando in un luogo più che un di, ciascuno ivi esercita l'arte sua, ed è trattato umana- mente dagli artefici a lui simili. Se alcuno da sé stesso^ senza licenza in iscritto del principe, è trovato andare fuori dei suoi confluii e viene pigliato, è come fuggitivo ridotto nella città, ove si vede gravemente punire. Se di nuovo commette tale errore , è punito con servitù. Nondimeno ognuno può andar diportandosi per i campi delia sua regione, avendone licenza dal padre, e con- sentendolo la moglie. Ma in qualunque villa perviene, non gli è dato mangiare, se prima non fa quant' opera è tenuto innanzi desinare o innanzi cena. Con questa legge può ciascuno andare per i campi tra i suoi con- fini ; perciocché tanto gioverà alla città, quanto se fosse io quella. Vedete già quanto sia loro vietato lo stare in olio, senza niun colore di darsi alla dappocaggine. Non hanno magazzini da vini né di cervogia, né luogo pub- blico da meretrici , niun luogo da nascondersi , niun ridotto di viz] ; anzi la presenza di tanti occhi fa la fatica onesta parer necessaria. Al costume di questo po- polo segue di necessità r abbondanza, la quale tra tutti si divide, e cosi non può essere tra loro alcun bisogno. Nel senato amaurotico ove, come dicemmo, ogni anno concorrono tre di ogni città , essendo manifesto che una città abbia copia di qualche rendita , della quale un'altra sia bisognosa, si provvede che la copia di una supplisca alla povertà dell'altra senza prezzo alcuno. Anzi la città che dalla sua copia avrà aiutato l'altra, senza pigliar da quella cosa alcuna, ricorre ad una terza per qualche oggetto, di che ella ha bisogno : quantun- que non le abbia dato il minimo che. Così tutta l'i- sola é come una sola grande famiglia. Poiché è prov- veduto agli interni bisogni , il che non giudicano aver fatto , se non si assicurano per due anni, essendo in- certa la raccolta del seguente, quanto avanza, cioè gran copia di frumento, miele, lana, lino, zafferano, porpore. 48 UTOPIA. veii^ cera^ sevo e cuoio, ed anco animali, portano ad altre regioni, alle quali donano del tutto la settima parte, in prò degli indigenti, ed il rimanente vendono per me- diocre prezzo. Dì questo commercio riportano a casa non solamente le merci, delle quali hanno bisogno nel- r isola , che è per lo più il ferro , ma eziandio buona somma d' argento o di oro. £ da tale continua consue- tudine sono di tali cose mirabilmente copiosi. Perciò non hanno dififerenza dal dare in credenza a toccare il danaro, anzi fanno il più in crediti. Benché fanno pub- blici istromenti, e vogliono che vi concorra l'autorità dei luoghi, ove danno in credenza, e questa riscotendo a tempo i danari dei debitori, li mette neir erario e ne cava la usura fin a che gli Utopiensi li dimandano ; i quali non mai riscuotono di quelli la maggior parte ^ non parendo loro cosa giusta pigliare dagli altri quello, di che essi non si accomodano, e i debitori pigliano frutto. Quando avviene che vogliano prestare ad altra città danari, li pigliano da quella che è loro debitrice ; ciò pur fanno accadendo guerreggiare, al che riservano tutto quel tesoro, che tengono neir erario per servir- sene negli estremi • pericoli e subiti casi (specialmente quando soldano con grossi stipendi soldati esterni, i quali più volentieri mettono in pericolo che i loro cit- tadini) perchè sanno di certo che gì' inimici ancora si sogliono comperare con danari. A quest' effetto conser- vano un tesoro inestimabile, non già come tesoro ; ma mi vergogno narrare in che modo lo tengono, temendo che non mi sia creduto, specialmente che io non lo crederei a me stesso, se cogli occhi propri non l'avessi veduto. Ed è necessario che ogni cosa sia meno cre- dibile, quanto ella è dai costumi di chi la sta ad udire lontana ; benché l' uomo prudente forse meno si mera- viglierà, vedendo i loro istituti tanto dai nostri dissi- mili, se ancora l' uso dell' oro e dell' argento più si ac- comoda ai loro costumi che ai nostri. Certamente non usando ossi il danaro, ma tenendolo per quei casi che forse nolS avvengono mai, l'oro e l'argento non è più LIBRO SBCONDO. 49 Stimato di quanto merita per sua natura, cioè a giudi- zio di tutti è inferiore del ferro, il quale a noi è tanto necessario, quanto il fuoco e r acqua. E già veggiamo r oro e l' argento non aver dalla natura virtù alcuna , della quale non possiamo mancare ; se non che la scioc- chezza umana r ha tenuto in prezzo^ perchè si trova di raro. Anzi la natura come pia madre ha posto negli oc- chi di tutti quelle cose^ che sono ottime , come V aria, r acqua e la terra, ed ha nascosto quelle che poco gio- vano. Se essi rinchiudessero questi metalli in una torre, potrebbe il popolo sospettare che il principe od il se- nato ne pigliasse qualche comodo, ingannando in qual- che guisa il popolo. Se poi ne facessero vasi, quando venisse occasione di volerne far moneta per pagare 1 soldati. Corse spiacerebbe a molti privarsi di quei vasi che usato avessero ai loro comodi. Essi per provvedere a tali cose, hanno siccome nelle altre cose, trovato una via molto simile ai loro istituti, e dai nostri dissimile^ la quale non sarà facilmente creduta, se non dagli uo- mini esperti. Essi bevono in vasi di terra e di vetro bellissimi, e fanno vasi da immondizie e da orinare d' oro e d' argento, ed anche catene e ceppi. A quelli che sono infami pongono in dito, e attaccano alle orecchie, anelli, o catene d'oro al collo, e con oro cingono ad essi il capo. Così pongono ogni loro studio che l'oro e r argento appo i loro popoli sia vilipeso. Cosi avviene che questi metalli tanto grati alle altre nazioni, sono tanto vili appo gli Utopiensi, che perdendoli tutti, non parrebbe loro di aver perduto un danaro. Raccolgono nei lidi perle, e nelle rupi diamanti e pìropi, i quali non vanno cercando, ma avendoli trovati, li puliscono. Con questi ornano i fanciulli, i quali si gloriano di tali ornamenti, e ne divengono arroganti ; ma poiché sono cresciuti, e veggono che solamente i fanciulli usano di simili inezie, senza essere dai padri ammoniti, per ver- gogna le lasciano, siccome inostri, poiché sono gran- dicelli, gittano le noci, i giocherelli e simili inezie. Quanti diversi effetti partoriscono negli uomini questi 1^0 tJTOPU» diversi istituti, non mai mi è parato vedere tanto ma- nifestamente ^ quanto negli ambasciatori degli Ànemo- Ij (i). Qujesti erano giunti ad Amauroto, mentre ch'io mi vi trovava : e perchè venivano a trattare di gran cose, tre cittadini di ogni città aveano precorso il loro ar- rivo; e parimente gli ambasciatori delle genti vicine^ venuti prima. I quali sapendo i costumi degli Utopiensi, che non onorano gli abiti sontuosi, e poco apprezzano l'oro, anzi è tra loro biasimato, usavano presentarsi in vesti quanto meno potevano sontuose. Ma gli Anemolj^ eh' erano poco lontani, e aveano poco commercio cogli Utopiensi, intendendo come tutti vestivano rozzamente, si diedero a credere, che facessero questo per povertà, onde più arroganti che savi determinarono di mostrarsi come Dei cogli abiti ornati, e muovere i miseri Utopiensi a meraviglia. Cosi entrarono nella città tre ambascia- tori con cento in compagnia vestiti a vari colori, e molti di seta. Gli ambasciatori , che erano nobili nel paese loro, aveano manti e collane d'oro, anelli d'oro pendenti dalle orecchie, ed altre collane pendenti dai ca- pelli, con gioie e perle lampeggianti : ed in somma erano ornati di quelle cose, che sono appo gli Utopiensi o supplici de' servi, o biasimi d'uomini infami, ovvero ine- zie di fanciulli. Era un giuoco mirare come si mostra- vano arroganti, quando faceano comparazione dal loro ornamento al vestire degU Utopiensi, perchè tutto il po- polo si era ridotto in piazza. Considerate ora quanto si trovarono ingannati della loro speranza, e lontani da quello che immaginavano di ottenere. Questo loro ornamento fu giudicato cosa vergognosa dagli Utopiensi, eccetto da. pochi, i quali per giuste cause erano stati a vedere alif e nazione ; per il che salutando per signori ogni minimo servo di quelli, pensarono che gli amba- sciatori fossero servi e non gii onorarono punto. Avresti veduto i fanciulli che avevano gettato le perle e le gioie, quando le videro pendere dai capelli degli am* (1) Pa6 interpretarsi nasion vano, popolo frivolo. LIBRO SBCONDO. 51 basciatori^ mostrargli alle madri dicendo : Eccoti ©ma- dre quello sciocco^ che usa perle e gioie come se fosse un bambino. La madre da dovero diceva: taci figliuo- lo^ perchè forse colui è un buffone degli ambascia- tori. Altri biasimavano quelle catene d'oro con dire che erano tanto sottili^ che un servo le potrebbe rompere , e tanto larghe , che se le potrebbe levare- dal collo e fuggire. Gli ambasciatori stati ivi due giorni^ e vedendo quanto a vile vi era tenuto Toro^ anzi più biasimato Appo gli Utopiensi , che non era appo loro in prezzo : e mirando le catene e i ceppi di un servo fuggitivo , nei quali era più oro ed argento, che non valeva ogni ornamento di tutti tre, deposero ogni lor vago porta- mento, del quale prima andavano arroganti. Poiché par- larono cogli Utopiensi, compresero come si maraviglia- vano che un uomo potesse mirare una gioia lampeg- giante, al quale fosse lecito di mirare le stelle e il sole : e che alcuno si riputasse più nobile per il filo di lana più sottile^ quando che quello pure è stato portato da una pecora, la quale perciò non è più che pecora. Si meravigliano ancora che V oro di sua natura cosi inu- tile tanto venga stimato dalle altre genti, che l'uomo, per causa del quale V oro è in pregio, sia meno stimato che l'oro, in tanto che alcuno rozzo e stupido tenga in servitù molti uomini dabbene e savi, solamente per- chè possedè molti danari. I quali se per fortuna o per qualche sottilità delle leggi fossero condotti in mano dei peggior servo di quello, sarà egli astretto farsi servo del suo servo, solamente per questo mutamento di pos- seder danari. Mi maraviglio ed abbomino quelli che danno ai ricchi quasi gli onori divini, non perchè loro siano obbligati, né debitori , ma solamente perchè sono ric- chi, benché non sperino, vivendo quelli, aver pur un danaro de' tanti che possedono, conoscendoli mìseri ed avari. Queste e simili opinioni hanno bevuto gli Uto- piensi parte col latte nella fanciullezza, parte negli isti- tuti della repubblica, i quali da ogni inezia sono molto alieni» e parte dalla dottrina. E benché non molti sono Ss tTTOPiA. in ciascuna città esenti dalle fatiche ed applicati alia lettere, cioè quelli soli cbe dalla fanciullezza mostrano acuto ingegno, e r animo inchinato alle buone arti, tut- tavia tutti i fanciulli vengono ammaestrati nelle lettere e buona parte del popolo, maschi e femmine, occupano in istudj quelle ore che avanzano loro da lavorare. Im- parano le scienze nella loro favella, la quale è copiosa di parole, soave ad udire e innanzi ogni altra fedelis- sima interprete dell'animo. Questa ìstessa, ^enchè in molti luoghi corrotta e diversa, in ogni parte di quel clima è in uso. Prima che vi andassi, non avevano pur udito il nome dì quei filosofi, che sono di qua illustri ; nondimeno essi hanno trovato in musica, logica, arit- metica e matematica quasi le istesse cose, che trova- rono i nostri antichi. Ma siccome ragguagliano quasi in ogni cosa gli antichi, cosi colle nuove invenzioni di logica sono molto inferiori : perchè non hanno niuna regola delle restrizioni, amplificazioni e supposizioni trovate acutamente nella logica, che tra noi da fanciulli s' impara. Le seconde intenzioni tanto sono dal loro di- scorso lontane, che non possono comprendere Tuomo in comune ed universale, quantunque noi l'abbiamo fatto grande come un gigante e quasi lo mostriamo a dito. Ma nel corso delle stelle e movimento dei cieli sono pe- ritissimi ; ed hanno trovato stromenti di figure diverse, colle quali comprendono a pieno i movimenti del sole, della luna e delle stelle, che sono nel loro orizzonte. Non sanno cosa alcuna deir amicizia ed inimicizia delle stelle, né dell'astrologia indovinatrice, anzi ingannatrice. Co- noscono molto avanti le pioggie, i venti e le tempeste per certi lor segni. Ma circa le cause di tutte le cose, del corso e salso dei mare, ed in somma deir origine e natura del cielo e del mondo, dicono parte come i no- stri filosofi; parte son come quelli di vario parere. Circa la filosofia morale, disputano delle stesse cose corno noi. Ragionano dei beni dell'anima, del corpo e degli esterni ; se tutti si possono chiamar beni, o solamente quelli dell' animo. Disputano della virili e della voluttii. LIBRO SECONDO. ^3 ma la principale controversia tra di loro è in quai cosa consista la vera felicità dell' uomo, ovvero se consista in più cose. Ma inchinano più del giusto a credere che nella voluttà consista il viver felice. E si servono a que- sto delia religione, la quale però appresso di loro è grave e severa: né mai disputano delia felicità, che non uniscano insieme alcuni principi tolti dalla reli- gione e dalla filosofia. Senza i quali pensano che la ra- gione umana sia tronca e debole ad investigare la vera felicità. Quei priucip] sono tali; che l'anima è immor- tale, nata per benignità di Dio alla felicità; che alle virtù e buone opere nostre sono assegnati i premia ed alle scelleraggini i supplici . Benché tali principi vengano dalla religione, tuttavia pensano che siano con ra- gioni e fondamenti umani condotti a crederli^ ed a con- cederli, e levati vìa questi^ confermano arditamente, che ciascuno quantunque stupido é astretto di cercare la voluttà a dritto e a torto: e solamente ha da mirare ebe un minor diletto non impedisca il maggiore, onde ne segua qualche affanno, che annulli Tavuto sollazzo. Perchè il seguire la virtù, cosi aspra e malagevole^ e non solamente cacciar da sé il vivere soave, ma soffe- rire ancora spontaneamente i dolori , non porta frutto alcuno , se dopo morte non ne segue alcun premio , avendo passato la vita miseramente : e questo giudicano estrema pazzia. Tuttavia non pongono la felicità in ogni voluttà^ ma solamente neir onestà , perché la na- tura é tratta a quella, come ad un sommo bene dalla virtù, nella quale sola la parte avversa mette la fehcità. Questi dicono che la virtù è un viver secondo la na- tura^ e che siamo creati a questo disposti. E che segue la natura, colui il quale nel bramare e fuggire le cose ubbidisce alla ragione ^ la quale primieramente muove %\\ animi umani ad onorare la divina maestà^ alla quale siamo tenuti dell'essere, e per cui siamo ca- paci delia felicità ; secondariamente ci ammonisce e de- sta^ che cerchiamo di vivere lietamente con minore aasietà che si [iuò, e che aiutiamo gli altri ad ottenere S4 UTOWA. qaesto bene, per la naturale compagnia che è tra noi. Niuno mai ha seguito tanto rigidamente la virtù, né dato si è tanto ostinatamente alle fatiche e vigilie , ch'egli non sia stato pronto ad, alleggerire le altrui miserie, ed a commendare per cosa umana che Tuomo stadi a giovare air uomo e mitigando i travagli di quello, ricondurlo dalle miserie a vita tranquilla e sollazzevole. E perchè non debbe la natura istigarci che facciamo lo stesso ufficio verso noi stessi? Perciocché o la vita sollazzevole e gioconda è cattiva, e non solamente non devi porgere aiuto ad alcuno di ottenerla, anzi quanto puoi devi privarne ciascuno, come di cosa perniciosa e mortifera : o è buona, e tanto più devi procurarla a te stesso, a cui non meno sei tenuto di provvedere che agli altri. Dicono adunque : la natura ci assegna la vita gioconda, cioè la voluttà, come un fine di tutte le opere nostre ; e vogliono che il viver secondo la natura sia il vivere virtuoso. Ma invitandoci la natura ad aiu- tarci r un r altro (il che fa ella meritamente , quando che niuno è di tanta dignità, che la natura si pigli cura di lui solo, perchè essa porge il seno a tutti quelli, ai quali ha dato una forma comune) essa stessa veramente ti ammonisce, che non procuri i tuoi comodi con l' al* trui incomodo. Vogliono adunque che si osservino le convenzioni fatte tra privati uomini, ed anche le pub- bliche leggi fatte da buon principe , o da un popolo che non sia oppresso da tirannia, le quali assegnano il modo a comunicare i comodi e godere le voluttà. Gli è poi gran prudenza se , non offendendo queste leggi , si cerca il proprio comodo , ed è singolare pietà stu- diare al comodo universale. Ma egli è strana e spiace- vole ingiuria volersi pigliare sollazzo con altrui dispia- cere : ed è singolare benignità spogliare sé medesimo di qualche sollazzo per accomodarne altri; il che tut- tavia riporta comodo uguale al danno che se ne sente; perchè viene con benefìci ricompensato ; e la coscienza dell' opera buona, con la memoria della carità e bene- volenza di coloro ^1 c^uaU bài Catto beneficio, (orta at- LIBRO SECONDO. S5 l'animo più diletto che non avrebbe dato quella vo- luttà corporale, dalla quale ti sei astenuto. Finalmente (co- me la religione v'ersiiade air animo umano) Iddio con per- petua allegrezza ricompensa una breve voluttà. Cosi vogliono cbe si considerino le operazioni nostre e tra queste le virtù, mirando finalmente alle voluttà cbe sono dalla felicità il fine. Chiamano essi voluttà ofi^ni movimento o fermezza di animò e di corpo , nel quale l'uomo della natura guidato si diletta trovarsi. Né senza causa vi aggiungono l'appetito della natura. Perchè siccome non solamente il sentimento, ma la dritta ragione segue ogni cosa , che è per natura gio- conda, alla quale non si vada con ingiuria altrui, né perdendo maggior sollazzo, o incontrando fatica; così quelle cose reputano inutili alla felicità, che sono da- gli uomini contra l'ordine di natura reputate dolci : anzi le tengono per nocive , quando che avendo una fiata occupato l'uomo, tanto io adescano con falso di- letto^ che non lo lasciano pigliar piacere dei veri sol- lazzi. Sono veramente assai cose, che di loro natura non hanno alcuna soavità, anzi non poca amaritudine ; ma per il diletto dei tristi piaceri non solamente sono annoverate tra le più gioconde voluttà , ma eziandio tra le principali cause della vita nostra. Tra queste sorta di falsa voluttà annoverano la soddìsfazion di coloro, i quali per esser meglio vestiti, si reputano mi- gliori; nel che pigliano doppio errore, riputando mi- gliore la loro veste, che l'altrui, e sé medesimi degli altri più degni. Qual maggior dignità ha il filo di lana più sottile che il grosso, considerando Taso della ve- ste? Tuttavia molti si tengono da più, per esser più pomposamente vestiti , e si sdegnano , quando non si veggono stimare più che gli altri, il che è una scioc- chezza considerando quanto sia vano l'onore dagli abiti causato. Che naturai diletto porge, che alcuno si cavi la berretta, o pieghi le ginocchia ad onorarti ? Ti gio- verà forse questo a levarti il dolore del capò o dei ginocchi t Quanto soavemente impazziscono in q^uesta 56 UTOPIA. falsa imniagine di volattà coloro j che si tengon no» bili, per esser nati da progenie, la quale per molte età sia stata ricca, quando che non conoscono altra no- biltà: benché non si tengono men nobili^ quantunque non sia lasciata loro da' maggiori alcuna facoltà , ov- vero essi rabbiano consumata. A questi si aggiungono coloro che si dilettano di gioie , e si reputano Dei , quando avviene che ne abbiano qualcuna di gran prez- zo , e molto stimata a sua età. Non la. comprano le- gata in oro, anzi la vogliono nuda^ e con sicurtà che sia buona j tanto temono di essere ingannati. Nondi- meno all'occhio umano tanto diletta una gioia fina quanto una finta, non discernendo una dall'altra. Do- vrebbe tanto valere la gioia fina come la finta appresso di te, che non sei in questo giudizio differente da un cieco. Che diremo noi di coloro che conservano so- verchie ricchezze solamente per mirarle a lor sollazzo ? Godono essi la vera felicità^ oppure si trovano ingan- nati da falsi diletti? Ma quei che nascondono il tesoro, il quale forse non più vedranno^ stando in pensiero di non perderlo, lo perdono. Mettendolo sotterra , ove né a te né agli altri può servire, nondimeno tu ti ralle- gri poiché hai nascosto il tesoro: e stai con Tanlmo sicuro. Se alcuno però te lo rubasse dieci anni prima che tu morissi, ove tu ignori un tal furto, che noce- rebbe esso per tutto questo spazio alla tua felicità? Fra gli amatori di vane allegrezze annoverano gli uto- piensi i giocatori di dadi o di carte , i quai giuochi solamente per nome conoscono , e parimenti i caccia- tori e gli uccellatori, e dicono : Che sollazzo é gettare i dadi , poiché gettandoli spesso Tuomo dovrebbe sa- ziarsi ? non è piuttosto un fastidio udir abbaiare i cani ? che maggior diletto è veder un cane seguire la lepre , che un cane Taltro cane? perché veramente si vede la velocità del correre a questo ed a quel modo. Se ti diletta veder straziare ed uccidere quell'animaletto, do- vresti piuttosto muoverti a pietà mirando la lepre im- ^otente« fuggitiva^ timida ed innpcente esaer stracciata LIBRO SECONDO. 57 dal cane gagliardo, feroce e crudele. Così gli Utopiens^ hanno rifiutato al tutto quest'esercizio del cacciare; come arte conveniente ai beccaj, la quale hanno com- messa ai servi. Anzi giudicano che il cacciare sia di nella la più infima parte ^ stimando le altre più utili ed oneste, quando si ammazzano gli animali per la ne- cessità del vivere umano, laddove 11 cacciatore sola- mente si piglia piacere della morte del misero animale. 11 qaal desiderio pensano essi che nasca da un animo alla crudeltà disposto. Queste ed altre cose innumera- bili , delle quali gli uomini altrove pigliano diletto , sono appo gli Utopiensi sprezzate, come di ninna soa- vità; e benché piacciano al volgo, il quale pervertendo la natura^ reputa dolci le cose amare : siccome le fem- mine gravide, le quali tengono la pece ed il sevo per più dolce che il miele, perchè hanno corrotto il gusto; il quale però non può mutare la natura di ninna cosa, e specialmente della voluttà. Fanno diverse specie di voluttà ; alcune assegnano al corpo , alcune airanima. All'anima danno l'intelletto e quella dolcezza che na- sce dal contemplare la verità. Vi si aggiunge la gio- conda memoria di aver vissuto bene. La voluttà del corpo dividono in due forme, e la prima secondo essi, è quella che diletta.il sentimento e ristora le parti che sono in noi da calor naturale consumate , il che si fa col cibo e col bere : perchè evacuandosi il corpo nel mandar fuori le cose soverchie scaricando il ven- tre, o generando, o levando il prurito in qualche parte è di mestieri che sia riempiuto. Evvi un'altra voluttà, che non dona ai sentimenti nostri cosa alcuna da loro bramata, né di alcuna li priva, ma solamente con oc- culta forza porge loro diletto : come è la musica. Met- tono un'altra forma di corporal voluttà, la quale con- siste nel quieto e tranquillo stato del corpo: e nomasi ia tutti sanità. Questa, non essendo da qualche dolore afflitta per sé stessa, diletta senz'altro sollazza este- riore. E quantunque essa non si mostri così manife- stamente ai sentimenti j» come la voluttà del mangiara S8 UTOPU, e del bere , tuttavia tatti Thanno per grandissima vo- luttà ^ e gli Utopìensi la tengono per fondamento di ogni sollazzo, senza il quale ogni voluttà è nulla. Per- chè mancare di dolore senza sanità, è piuttosto uno stupore che un sollazzo. Quella opinione che dice la sa- nità non essere voluttà, perchè non si sente , se non con qualche esterno movimento, è da loro al tutto ri- fiatata. Anzi tutti concordevolmente affermano la sa- nità essere una speciale e primaria dilettazione. £ di- cono : se nella infermità è il dolore , mortai nemico della voluttà , perchè non sarà nella quiete della sa- nità una giocondezza singolare? Non fanno differenza che si dica Tinfermità istessa esser dolore, ovvero il dolore esser l'infermità, perchè ne riesce la medesima sentenza. Ma se la sanità è la voluttà istessa , ovvero necessariamente partorisce voluttà, come il fuoco pro- duce caldo, veramente ad ogni modo segue, che la ferma sanità riesca una vita gioconda. Oltre di questo dicono, quando mangiano ristorarsi col cibo la sanità, la quale per la fame cominciava ad indebolirsi ; e quando è tornata al solito vigore , sentiamo là giocondità del mangiare, tanto maggiormente, quanto la sanità è più robusta. Cosi appare esser falso quello che taluni as« seriscono, che la sanità non si sente. Il che non può avvenire in uomo che non sia stupido , e per conse- guente non sano. Abbracciano adunque primieramante quelle voluttà deiranimo (che sono appo loro le prin- cipali) le quali sanno che nascono da virtù e dalla buona coscienza. Ma pongon la sanità innanzi ad ogni altro corporeo diletto. Né vogliono che si brami il man- giare ed il bere o altra voluttà, se non per conservare la sanità. Perchè non sono tali cose da loro istesse gioconde , ma in quanto mantengono la sanità. Però debbo il savio piuttosto cercare di non essere occupato dall'infermità, che bramare la medicina ; di tener lungi i dolori, che d'aver bisogno di voluttà, le quali si con- viene temperare. Se alcuno per esse si tiene beato, egli è astretto di confessare che allora sarà ieUcisslmo,, LIBRO SXGONDO. 59 quando da fame , sete , pizzicore sarà travagliato , le qaali cose veggiamo manifestamente esser sozze e mi- sere. Queste adunque sono le meno sincere voluttà, le quali ci avvengono solamente per medicare ai contrari dolori ; perchè col diletto di mangiare si accompa- gna la fame^ e con legge non uguale. Perchè il dolore tanto è più lungo, quanto è maggiore ; e nascendo in- nanzi al piacere, non si estinerue se non insieme col piacere. Stimano essi poco queste voluttà , se non quando la necessità li stringe di usarle. Nondimeno godono queste ancora, e ne ringraziano la natura ma- dre, la quale adesca con soavità i suoi figliuoli a quello che era necessità che si facesse. Con quanto fastidio vivremmo, se avessimo a cacciar la fame e la sete con pozioni e veleni, siccome cacciamo le altre infermità? Ma abbracciano lietamente la bellezza, le forze e la destrezza , come doni giocondi e propri della natura. Gli altri sollazzi che per le orecchie, per gli occhi e per le nari passano all'anima , i quali sono propri del- l'uomo (perchè ninno animale considera la bellezza del mondo, né sente gli odori, se non quanto fa mestieri per discernere il cibo , né si diletta della varietà dei suoni) questi dico volentieri accettano. In tutti però tengono tale misura che il maggior sollazzo non sia dal minore impedito. Ma sprezzare la bellezza , dimi- nuire le forze , mutare la destrezza in pigrizia , este- nuare con digiuni il corpo, fare ingiuria alla sanità, e rifiutare gii altri sollazzi dalla natura a noi concessi , se non fosse per giovare alla repubblica, reputano una sciocchezza, e che questo nasca da un animo crudele e ingrato alia natura , i cui benefici rifiuta, come sde- gnandosi di essergliene debitore, e specialmente facen- dosi questo per una vana ombra di virtù, ovvero per sopportare con minor dispiacere le avversità, le quali forse non mai verranno. Questo è il loro parere circa la virtù e la voluttà; e se Dio non ne inspira ad essi un migliore, credono che non se ne trovi altro più saggio. (loa mi occuperò a disputare della verità della 60 UTOPIA. loro opinione, perchè non lo concede il tempo ; ed lo mi sono posto a narrare gristituti degli Utopiensi^ non a difenderli. E siano questi decreti quali si vogliano ^ io tengo di certo che non si trovi più degno popolo , né repubblica più felice. Sono di corpo agile e vigo- roso, e di maggior forze che non promette la loro sta- tura, la quale però non è picciola. E quantunque il loro terreno sia mal fertile , e Tarla poco sana, tutta- via con temperato vivere si mantengono contro l'aria, e con l'industria vincono la terra di maniera , che in niun luogo vengono più copiosi ricolti, né animali me- . glio nodriti, ed i corpi umani più vivaci e meno alle infermità soggetti. Perciò non vedrai solamente fare da loro quelle opere , che fanno i lavoratori altrove per vincere la malignità del terreno. Anzi ivi si vede una selva cavata dalle radici ed un'altra piantata altrove; nel che non si è considerata la fertilità del terreno ^ ma il comodo di condurre i frutti, le legne o altre cose al mare o al fiume, ovvero alle città. Sono gli Utopiensi gente benigna e piacevole, che^ ama il riposo: e, quando fa mestieri, paziente della fatica, specialmente , negli studj che ornano l'animo. Essi avendo da me inteso delle lettere e dottrina de* Greci , perchè delle cose latine altro npn commendano, che le storie ed i poeti, sì mostrarono molto bramosi ch'io di quelle let- tere gli ammaestrassi. Cosi io cominciai a legger loro, piuttosto, acciò non credessero eh' io schivassi la fa- tica, che io ne sperassi frutto alcuno. Ma avendo letto alquanti giorni, la loro diligenza mi diede ardire che non sarebbe vana la mia sollecitudine. Perchè comin- ciarono a scrivere le lettere, pronunciare le parole , e mandarle con tanta prestezza a memoria, che mi parve cosa miracolosa: e molti per ordine del senato furono destinati a questo studio, cioè quelli del numero degli studenti, che erano di più acuto ingegno e di matura età. Cosi in tre anni leggevano speditamente ogni au- tore greco, purché non fosse corrotto il libro. Ed essi, per mio avviso, taato agevolmente impararono q^ueile tlBRO SBCOIIDO. 6Ì lettere, perch' io credo che derivassero dai Greci ; quan- doché nella loro favella, che è persiana, sono molte parole greche, specialmente nel nominare le città ed i magistrati. Io la quarta fiata che navigai alla volta loro, mi posi nella nave buon numero di libri in luogo di mercanzie; avendo meco disposto di non tornar mai, piuttosto che tornar presto. Cosi lasciai a quelli molte opere di Platone e di Aristotile, e Teofrasto delle piante, ma troncato in più luoghi. Perchè essendo tenuto con poca cura nella nave, una scimìa ne cavò fuori al- quante carte, e stracciatele giuocando, le avea sparse qua e là. Hanno in grammatica Costantino Lascari; non avea portato meco Teodoro Gaza , né altro dizionario che Esichio e Dioscoride. Tengono carissimi i libretti dì Plutarco, e si dilettano delle piacevolezze di Luciano. Dei poeti hanno Aristofane, Omero, Euripide e Sofocle in forma piccola di Aldo. Degli storici, Tucidide, Ero-' doto ed Erodiano. In medicina, Tricio Arpino mio com- pagno, avea portato alcune opere d'Ippocrate, e il Mi- crotecne di Galeno, i quai libri tengono in gran pregio. E quantunque meno sono bisognosi della medicina che qualunque altra nazione, tuttavia è presso di loro ono- rata più che in altro paese, perché l'annoverano tra le parti principali ed utilissime delia filosofia; ed inve- stigando le cose di natura con Taìuto di questa , si danno a credere non solamente di prendere gran di- letto, ma eziandio di aggradirsi sommamente all'autore e artefice di quella. Pensando eh' egli, come fanno gli altri artefici, abbia posto innanzi agli occhi dell'uomo, il qual solo ha fatto di tal cognizione capace , questa macchina, acciocché la consideri : e che più gli sia caro Tuomo, che considera con ammirazione le degnissime opere sue, che colui, il quale, come animale senza in- telletto e stupido, non si cura di contemplare questo mirabile spettacolo. Cosi gl'ingegni degli Utopiensi nelle lettere esercitati vagliono mirabilmente a trovare le arti utili ai comodi della vita. Ma sono a noi debitori di due, cioè d'imprimere libri e fare la carta bamba- 62 UTOPIA. gina ; benché in buona parte da loro stessi ne vennero a perfetta cognizione. Perchè mostrando loro le let- tere di Aldo impresse in tale carta^ e ragionando dello stampare Hbri^ intesero assai più oltre di quello^ che dicevamo, ninno di noi essendo molto esperto né dei- Tana né dell'altra. Essi di subito fecero congettura come si potessero fare colali arti : e perché scrivevano per addietro in pelli^ in scorza ed in papiro, tentarono subito di fare là carta e stampare. Né riuscendo bene a principio^ fecero tante fiate l'esperienza, che appre- sero alfine ciò che desideravano; e se non mancas- sero loro copie, avrebbero già stampato assai libri greci. Ma non hanno altri libri che i sopraddetti, e di questi hanno stampato gran numero. Ognuno che sia di sin- golare ingegno, ovvero che abbia veduto buona parte del mondo , il quale pervenga a loro per mirarne gli istituti, è accolto benignamente , perché odono volen- tieri ciò che si fa negli altri paesi. Pochi mercanti vi vanno. Che altro vi possono portare, che ferro ? e che vorrebbero portar via altro che oro? Ma essi vogliono in persona condurre altrove le cose loro, per aver co- gnizione degli altri paesi, e non si scordare la peri- zia del navigare. Dei servi. Non tengono per servi quelli che sono presi in guerra, ancorché fosse (atta da loro, né i figliuoli dei servi, né alcuno che serva appo altre nazioni, i quali possono com- perare ; ma quelli che per qualche mancamento sono da loro dannati alla servitù, ovvero altri di esterne nazioni, che sono lor dati a tale supplicio, per qualche delitto ; il che avviene sovente, e molti ne hanno per vilissimo prezzo. Tengono questi servi in continua fatica, ed in catene, ma trattano i loro propri più duramente, giudi- cando che siano incorreggibili e degni di più grave sup- plicio, poiché essendo tanto egregiamente nudriti alla LIBRO SSGORDO. 03 virtù , non si hanno potuto raffrenare dal vizio. Evvi un'altra sorte di servi, quando alcuno di altra na* zione> avvezzo alla fatica , povero e di bassa condi- zione elegge di servir loro. Questi ( eccetto cbe danno ad essi alquanto più fatica) trattano benignamente, e li tengono poco meno cbe per loro cittadini. Se al- cuno vuol*f partirsi, il cbe di rado avviene , non lo tengono contra sua voglia , né lo mandano via senza doni. Grinfermi, come dicemmo, trattano con gran cari- tà, non tralasciando cosa alcuna circa le medicine ed il governo del vivere, cbe vaglia a rendere a quelli la sa- nità. Se alcuno è incurabile, tenendogli compagnia, par- lando con lui^ e servendolo, alleggeriscono la sua cala- mità. Che se rinfermità sua è di perpetuo dolore, i sa- cerdoti ed il magistrato lo confortano, che essendo già inetto agli ufficj della vita, molesto agli altri e grave a 8ò stesso, non voglia sopravvivere alla propria morte, e nodrire seco la pestifera infermità : e cbe essendogli la vita un tormento, non dubiti di morire: anzi cbe, avendo buona speranza, liberi sé stesso da si acerbo carcere, o si lasci dagli altri liberare; e che farà opera da prudente, quando cbe le calamità saranno da lui lasciate morendo, non i comodi : oltre cbe seguendo il consiglio dei sacerdoti interpreti degli Dei, farà opera santa e pia. Coloro cbe sono a questo persuasi, ovvero con astinenza finiscono la vita, ovvero dormendo sono uccisi. Ma non ne fanno morire alcuno contra sua vo- glia, né mancano di servirlo nell'infermità parendo loro cbe questa sta onorata cosa. Ma se alcuno si uccide senza il consentimento dei sacerdoti e del magistrato, egli senza esser sepolto viene gettato in una palude. Le femmine non si maritano imiaiizi degli anni dodici, ed i maschi dei sedici. Se il maschio o la femmina sono trovati a lussuriare innanzi al matrimonio, vengono puniti gravemente, e privati in perpetuo dei matrimo- nio medesimo, ove il principe non si muova a pietà di perdonar loro tal fallo. Il padre e la madre di fa- miglia, sotto il governo dei quali avviene tal manca- 64 UTOPIA. mento, sono infamati come poco attenti al dover loro. E il motivo di tanto severa punizione è il prevedere che pochi si mariterebbero volentieri, per non vivere tutti gli anni con una sola, e non tollerar le molestie del matrimonio, quando fossero avvezzi a liberi pia- ceri. Nell'eleggere le mogli tengono un modo a mio pa- rere ridicoloso, ma riputato da loro prndentissimo. Una onesta matrona mostra la vergine^ o vedova che sia, nuda allo sposo ; e parimente un uomo di gravità mo- stra il giovane nudo alla giovinetta. E biasimando io questo costume come inetto^ essi all'incontro risposero che si meravigliavano assai della pazzia delle altre gentil le quali nel comperare un cavallo, ove si tratta di po- chi danari, vanno tanto cautamente che lo vogliono ve- dere senza sella, acciocché sotto quella non avesse qual- che piaga, e in elegger la moglie, la quale, può dare o sollazzo dispiacere mentre che dura la vita, sono tanto negligenti che si contentano di veder la donna quasi tutta coperta^ anzi di non vederne che il volto: e tuttavia potrebbe essa nascondere qualche difetto , pel quale non mai si vorrebbe averla presa. Né tutti sono di tanta sapienza, che mirino solamente ai co- stumi; anzi nei matrimoni dei savi uomini, le doti del corpo fanno più grati i doni dell'animo. E veramente tale bruttura potrebbe nascondersi sotto gli abiti , che la moglie sempre fosse odiosa a! marito ; ed a questo si debbe provvedere con leggi, prima che segua l'in- ganno, quando che essi soli di tutte quelle nazioni sono Contenti di una sola moglie, né si scioglie il matrimo- nio se non per l'adulterio, o per altra intollerabile mo- lestia. In tali casi il senato concede all'innocente di rimaritarsi, ed il colpevole resta infame e privo in per- petuo del matrimonio. Non vogliono che la moglie non colpevole sia ripudiata contra sua voglia, ancorché ca- desse in qualche calamita del corpo ; parendo loro una crudeltà che si abbandoni la persona, quando ha mag- gior bisogno di consolazione; perché la vecchiezza, che porta con sé infermità, ed é l'infermità stessa, sarebbe LIBRO SBGONOO. 65 dalia compagnia abbandonata. Avvieae alle fiale, che coniugi non si confacendo dei costami, e trovando amendue con chi sperano di vivere più soavemente, si separano, e rimaritansi, con Tautorità però del se- nato, il quale non ammette il divorzio, se prima non ne conosce e non ne fa dalle proprie donne investigare Je cause. Ed anco si rende difficile a questo, accioc- ché non si speri di mutar facilmente il matrimonio. Gli adulteri si puniscono con durissima servitù : e se alcun di essi non era celibe, si -concede che i coniugi offesi, ripudiati gli adulteri, si maritino insieme, ovvero con altri. Ma se quello ctie è offeso, tanto ama l'olTensore che non voglia fare divorzio, non gli è vietato di man- tenere il matrimonio, purché voglia seguire nell'opera il dannato. E sovente è avvenuto, che la sollecita pa- zienza deir innocente ha ottenuto la libertà al colpe- vole. Ma chi adultera dopo questo perdono, è punito nella testa. Alle altre colpe non si assegna determinato suppiicio, ma secondo il mancamento segue il supplicio più o men grave come pare al senato. I mariti casti- gano le mogU, i padri i figliuoli, se non fosse qualche enorme mancamento, che si dovesse punire pubblica- mente. Ma quasi tutte le gravi colpe sono punite con servitù, il che non meno splace agli scellerati , ed è più comodo alla repubblica che ucciderli, perchè gio- vano più con la fatica che con la morte, e con l'esem- pio continuo ammoniscono gii altri a guardarsi da si- mili colpe. Se in tale stato sono perversi ed inobbe- dienti, allora come bestie indomite gli uccidono, l pa- zienti non sono fuori di speranza, che tollerando i tra- vagli e le fatiche, e mostrando che più loro spiaccia il peccato che la penitenza, non siano francati o venga loro mitigata la servitù per autorità dei principe o suf- fragi dei popolo. Non meno puniscono chi ha provo- cato alcuna persona a lussuria, che se avesse commesso l'errore: parendo loro che la volontà determinata a pec- care, ancorché non possa venire ad effetto, sia degna dello stesso supplicio. Si pigliano piacere de'buffòui, ma Moro» 5 66 UTOPIA. non è lecito far loro ingiuda. Né gli danno in governo a cbi non si diletta delle loro facezie, temendo che non siano ben trattati. Non si concede il farsi beffa d'alcuno, che sia tronco o sciancato, parendo sconve- nevole schernire quel vizio , cbe è venuto neir uomo senza sua colpa. Siccome tengono per da poco cbi non ha cura di conservarsi la bellezza naturale, cosi biasi- mano quelli che con belletti studiano di aumentarla; avendo per certo che la bontà dei costumi assai più vale a render grata la moglie al marito, che alcuna bellezza corporale. Non solamente si rimangono dalle scelleraggini per tema dei supplici, ma sono invitati alle virtù con egregi onori. Rizzano nella piazza statue agli uomini, che per la repubblica hanno fatto qualche de- gna impresa , acciocché si conservi la memoria d^le opere illustri, ed i loro discendenti siano alla virtù in- citati. Ohi cérca di avere alcun magistrato ne viene privato al tutto. Vivono assieme amichevolmente, per* che i magistrati non sono terribili ; si chkimano padri, e si portano da padri ; ed i popoli gli onorano spenta^ neamente. Il principe non é dagli altri conosciuto per diadema o corona, ma per un manipolo di frumento , che gli viene portato innanzi, ed il pontefice per un torchio. Hanno poche leggi, e biasimano gli altri popoli, che empiono di leggi e d'interpreti smisurati volumi. Parendo loro che sia iniquità obbligare a tante leggi l'uomo, che non si possano leggere, e taiito oscure, cbe non siano intese. Non ammettono avvocati, anzi vogliono che ognuno in giudìzio dica la sua ragione, perchè in tal guisa si disputa meno, e meglio si cava la verità senza ornamento di parole* Il giudice solleci- tamente spedisce ogni causa, e favorisce agli ingegni semplici contro i malvagi ed accorti : il che a fatica si può osservare appo le altre nazioni tra tante dubbiose leggi. Appo loro ciascuno è giureconsulto, perchè hanno pochissime leggi, e commendano sommamente la più semplice interpretazione, che loro si dia. Perchè la sot- tile interpretazione non può esser da tutti intesa; il LIBRO SBC li rimandano onorevolmente e ne conducono degli altri. Ed in vero questi popoli ottimamente provveggono alla loro re- puU^lica, la eoi salute o rovina dipende dai costumi dei magistrati, né potevano fare miglior elezione ; quan- doché sono gU Utopiensi di una tale costanza, che non si piegane a pieEao alcuno, ed avendo dà ritornare alla patria, non hanno occasione di far ingiustizia, massi- mamente che non conoscendo quei cittadini, non pos- sono da alcuno agevolmente esser persuasi di contrav- venire al giusto. Questi due mali, amore ed avarizia, quando hanno potere nei giudizj, pervertono ogni giu- sti^, ed indeboliscono ogni nervo della repubblica. GH Utopiani chiamano compagni quei popoli , ai quali daano magistrati, ed amici quelli a chi hanno fatto beBeflcj. Essi non fanno con altre genti confederazioni, le quali tanto sovente appo altri popoli sono fatte e rhmoTate. Perchè si hanno da fare, dicono essi , con- fèderamoni alcune, bastando ad amicarsi l'uomo la co- mune natura, la quale non giovando, cbe potranno più valere le parole ? Sono in questo parere, perché le con- vensionl e patti tra principi in quei paesi, poco fedel- mente si osservano. Ma in Europa e specialmente dove regna la fede di Cristo, si conservano inviolabilmente le coniéderazionl, parte per giustizia e liontà dei prin- cipi , parte per riverenza e timore dei sommi ponto« fici; I quali, siccome non commettono cosa alcuna, che contravvenga alla religione, cosi comandano che gli altri principi mantengano le loro promesse, e con scomuniche severissime sforzano i contumaci a ser« bare la loro fede. £ meritamente in vero tengono per biasimo vituperevole, che non si osservi fede nelle con« federaiioni da coloro, che ^eialmente si nominano ,6S UTOMA. fedeli (1). Ma in quel nuovo mondo tanto dal nostro distante, quanto sono ancora i costumi dissimili, non si fidiano di confederazioni, quando che non si possono fare con tante cerimonie e sagramenti, cbe non si trovi nelle parole qualche calunnia postavi a studio, e non vi si occulti un uncino da eluderle. Ed è singoiar cosa che se trovano simili accortezze o inganni nei contraili degli uomini privati, li dannano come sacrileghi e de- gni di morte quegli stessi consiglieri de'principi, i quali si gloriano d'essere stati autori delle fraudolente con- federazioni, acciocché si potessero rompere. Indi av- viene, che non vi sia altra giustizia, se non l'umile e plebea, e molto inferiore dalla regale maestà; come se vi fossero due giustizie, una del volgo umile e bassa, la quale avvinta con molti nodi , non ardisca levarsi, l'altra dei principi alta e magnifica, alia quale tanto sia lecito quanto loro piace. Io credo che gli Utopiensi non facciano alcuna confederazione perchè i prini^ipi di quel paese tanto sono a contravvenire ad ogni loro promessa disposti: tuttavia, se vivessero in queste parti, muterebbero proposito. Benché essi giudicano; ancorché fossero osservate le confederazioni ottima- mente, cbe non sia bene il farle ; perché si potrebbero tenere per nemici quei popoli, che sono divisi con un rivo con un colle, non avendo tra loro tal segni di patti, ed indi guerreggiare insieme. Anzi fatte le con- federazioni, non si stringe però r amicizia; e resta la licenza di saccheggiare,, non avendosi per imprudenza potuto porre nella confederazione ogni cautela suffi- ciente a ribattere l'ingiuria. Ma essi all'incontro giudi* cane cbe non si tenga alcuno per nemico, dal quale non si abbia ricevuto ingiuria. E che basti la compa- gnia naturale in luogo di confederazione: perchè gli uomini più volentieri e con maggior fermezza si uni- scono cogli animi, che per confederazioni o parole. (1) Sa ognuno quanto a qaeste parole del buon Raffaello sia conforme la storia specialmente de^ tempi suoi. L'America gli avea bea fatta dimenticare rSuropa. LARO SBCOIIDO. 69 Della guerra. Gli Utopiensi hanno sommamente in abbominazione la gnerra, come cosa d'animali, di cui però ninno cosi lun- gamente guerreggia, come Tuomo : né tengono altra cosa più biasimevole^ che la gloria acquistata coir armi. E quantunque si esercitino nella milizia non solamente i maschi, ma le femmine ancora a certi giorni^ per noQ essere al combàttere inetti, quando fosse il bisogno; tuttavolta non si mettono a guerreggiare inconsidera- tamente, ma solo per difendere i loro confini, o per li- berare dalla tirannia e servitù qualche misero popolo. Benché talvolta porgono aiuto agli amici, non solamente perché si difendano, ma eziandio perché ricompensino le avute ingiurie. Questo però fanno, essendosene di- mandato loro consiglio^ prima che si venga alle armi, ed ove sia provata la causa per giusta; cioè quando grinimici di quelli, facendo correrie^ abbiano condotto via il bottino, e, ridomandato, non l'abbiano voluto ren- dere. Ma guerra più atroce intraprendono, quando 1 loro mercanti sono maltrattati o calunniati ingiusta- mente appo le altre nazioni. Tale fa quella che fecero, poco avanti la nostra memoria, pei Nefelogiti (i) con- tra gli Alaopoliti (2), i quali avendo maltrattato i mer- canti dei Nefelogiti sotto colore di osservare le loro leggi, furono con la guerra, sanguinosa però d'ambe le parti, di maniera afflitti, che moltiplicando le calamità, caddero in servitù de' Nefelogiti medesimi ; perché gli Utopiensi combatterono per questi , e non per proprio interesse. Cosi gli Utopiensi prendono atroce vendetta delle ingiurie fatte agli amici anco nei danari, ma non tanto fieramente vendicano le proprie ; perché se gli nomini loro per qualche inganno perdono i beni, [tur- che non sia lor fatto violenza nei corpi, si contea timo (I) Porse da Nc^eXoYsvii^, o varrebbe nubi^eni. CS) Nomadif girovaghi, o fuorusciti. 70 UTOPÌA. che si soddisfaecia al danno e più non tengono com- mercio con quella gente cbe gli offese. Non che meno curino i loro cittadini che i loro confederati, ma per- chè i mercanti di questi, essendo ingannati, perdono del proprio avere, laonde sentono maggior danno; e i cittadini Utopiensi altro non possono perdere che dei beni della repubblica, i quali si mandano ad altri paesi, quando avanzano loro, ed indi quasi niuho ne prova disagio. Perciò reputano che sia una crudeltà voler pu- nire con morte di molti quel danno, dal quale ninno sente incomodo nel vivere o nella vita. Ma se alcuno dei loro cittadini viene ferito o morto ingiuriosamente, sia per consiglio pubblico o privato, mandano amba- sciatori a dimandare i colpevoli, e, non essendo loro dati, movono guerra centra quel popolo a cui appar- tengono. I colpevoli, che sono lor consegnati, ovvero uccidono , p tengono per servi. Si vergognano e pen- tono della vittòria sanguinosa, parendo loro di aver comperato troppo caro le metc^miè, ancorché fossero di gran prezzo. Si gloriano di aver vinto i nemici con arte o cod inganno ; di questo trionfano pomposamente e ne rizzano un trofeo: ed allora si vantano ardita- mente quando hanno vinto con quelFindustria, con la quale l'uomo solamente può vincere, cioè con le forze deiringegno , Il che reputano un*egregia virtù. Dicono essi : i leoni , gli orsi , i lupi , I cinghiali , i cani e le altre bestie combattono con le forze del corpo ; ma sic- come assai di quelle ci vincono per valore e ferocità corporale, cosi noi le superiamo tutte con Tingegno e con la ragione. Nel loro guerreggiare mirano di ottenere quella cosa, per cagion delia quale hanno mosso guerra; e se alcuno ad essi resiste, ne fanno cosi atroce ven- detta, che gli altri per l'avvenire non ardiscono con- trapporsi. Propostosi uno scopo, in breve ne vengono ali*effetto, avendo però rocchio principalmente piutto- sto a schivare il pericolo, che a farsi gloriosi. Perciò, intimata la guerra, fanno porre SégréUlmièlite molti scritti col bollo pubblico nel luoghi più frequenti dei nemici. LIBRO SECONDO. 71 dando a sperare gran premio a cbi ammazza il prin- clpe> e minore in proporzione per la. testa degli altri, che proscrivono, cioè i consiglieri, i quali, dopo il prin- cipe, sono aittori delle ostilità. Ma danno doppia ricom- pensa a cbi li presenta vivi, ed anco invitano con larghe promesse gli stessi proscritti ad andare contra i loro popoli, e perdonano a quelli ogni passato fallo. Cosi gl'inimici in breve tempo hanno sospetto di tutti gli uomini i né si fidano tra loro medesimi , laonde si trorano in gran pericolo e timore. Ed è più volte av- veauto» che in buona parte di essi, e tra questi il prin- cipe» siano slati traditi da coloro, nei quali aveano maggiore speranza. Tanto facilmente vengono spìnti ad ogni scelieragginc gli uomini coi doni , i quali sono dati dagli Utopiensl in questi casi senza misura alcuna, perchè considerando a quanto pericolo il confortano, studiano di ricompensameli con la copia dei beneflcj. Perciò ^omettono, ed attendono poi con effetto, non solamente gran somma d'oro, ma eziandio grandi ren- dite in luoghi sicuri appo gli amici. Questa foggia di apprezzare e mercare il nemico, biasimato appo le altre nazioni, e riputato di animo vile e crudele, appo loro è tenuta per gloriosa impresa. Poiché si credono in questo prudenti, che forniscono guerre grandissime senza venire a conflitto, e pietosi, perchè con la morte di po- chi salvano la vita di molti, che morirebbero nei fatti d'arme, parte dei cittadini, parte dei nemici^ dei quali hanno quasi tanta pietà come dei loro propri, sapendo che non vengono alla guerra spontaneamente, ma spìnti dal furore dei loro principi. Se loro ciò non riesce, se- minano e nodriscono discordie tra nemici, dando spe- ranza di ottenere il regno al fratello del principe, o a qaalcimo che vi possa aspirare. Quando non valgono queste sedizioni, eccitano i popoli vicini a guerreggiare contra i nemici con mostrare loro qualche ragione, che abbiano nel paese di quelli, e promettendo di favorirli danno ad essi danari oopiosamente. Ma di rado vi man- dane i loro cittadini, 1 quali tengono tanto cari , che J 72 UTOPIA. non ne cangerebbero uno còl principe della parife ne- mica. Danno Toro e l'argento più facilmente; perché lo conservano a questo effetto, né vivrebbero meno co- modamente ancorché lo dispensassero tatto. Ed anco, oltre le ricchezze che tengono in casa, hanno infinito tesoro, che loro debbono molte nazioni. Mandano però alla guerra soldati di alcuna di quelle, e specialmente dei Zapoleti (1). Questo popolo è lontano dall'Utopia cin- quanta miglia , verso oriente , orrido , rusticano e fe- roce , il quale abita le selve , dove ancora è nodrito. Gente dura, atta a patire il freddo, il caldo e la fatica, senza alcuna delicatezza, non si dà all'agricoltura ; né studia come si vesta o fabbrichi; solamente governa gli animali, e vive di cacciagione e di rapina. Nata al combattere, brama la guerra studiosamente, offerendosi per vii prezzo a chi la ricerca. Non ha per sostenta- mento della vita che questa sola arte, con la quale si cerca la morte ; ma serve fedelissimamente e virilmente a chi l'assolda, obbligandosi sino ad un certo giorno, con patto che passato quello possa andare al soldo del nemico : tuttavia ritorna per poco maggior prezzo. Si fanno poche guerre che non vi sia di questo popolo d* amendue le parti. Così avviene che i parenti e gli amici, soldati da questa e da quella parte, concorrano insieme a mortale uccisione, scordandosi dell'amicizia e del parentado, solamente mossi dal ricevuto sti- pendio, al quale sì avidamente mirano, che potendo aver un danaro di più al giorno, passano alla parte nemica. Tanto sono Immersi nell'avarìzia I la quale però non giova punto ad essi, perchè consumano a vivere lussuriosamente in breve tempo quanto Iranno acqui- stato col sangue. Questo popolo serve nella guerra agli Utopiensi contra chiunque essi vogliano, perchè gli danno maggior stipendio, che altri possano dargli. Sic- come gli Utopiensi cercano gli uomini dabbene per ac- ci) Probabilmente Invece di Zoepoleti , cioè venditori della vita. LIBRO SECONDO. 1^ cduiodarseae ; cosi pigliano gli uomini malvagi, per ser« virsene alla guerra, e quando fa mestieri, con gran pro- messe gli spingono a grandi pericoli ; laonde spesse volte una gran parte di loro non torna a dimandarne Tese* gui mento. Gli Utopiensi però le attendono fedelmente a quelli, che rimangono vivi, per accenderli a simiH im- prese. Né si pigliano cura se ne muoiono gran numero, parendo loro di giovare alla natura umana, ove potes- sero purgare il mondo della feccia ^'un popolo tanto scellerato e malvagio. Dopo questa mandano le squadre di quei popoli, pei quali combattono , e dietro ad essi la gente degli amici, che porge loro aiuto. Finalmente vi aggiungono i loro cittadini, dei quali uno , che sia per virtù illustre, fanno di tutto Tesercito capitano. A costui sostituiscono due, i quali, vivendo egli prospe** ramente, siano uomini privati, ma morto lui, o rima^- nendo prigione, uno di loro gli succede come per ere- dità. Così secondo il caso aggiungono un terzo, ac- ciocché pericolando il capitano ('Come avviene nella guerra) non si turbi tutto Tesercito» Di ogni città si ammaestrano i soldati , che spontaneamente vogliono militare ; perchè ninno è mandato fuori alla guerra mal suo grado; avendo per cosa certa, che Tuprao timido, oltre che non. si porterà virilmente, darà timore agli altri. Movendosi però guerra contro la patria, . mettono nelle navi quelli, che sono timidi, purché siano di corpo gagliardi e li mescolano con uomini arditi e valorosi, ovvero li collocano sulla muraglia, in guisa che non possano fuggire. Cosi la vergogna dei suoi, l'aver Tini- mico a fronte, ed il non poter fuggire, fa che vincono il timore: e Testrema necessità spesse volte si muta in virtù. E siccome ninno é tratto a guerra estrema contra sua voglia, cosi confortano e con lodi incitano le mogli a seguire i mariti, e nel conflitto le pongono vicino ad essi, e d'intorno i figliuoli ed altri loro prossimi , i quali sono mossi dalla natura a porgersi aiuto insieme. Il marito che torna senza la moglie é biasimato ; cosi il flghuolo perduto il padre : indi av- fi tftÙPÌA. Viene cbe itó il aemlco non fa^ge> si combatte fino allo Btèhùihiè. Percfiè, siccome schivano quanto possono di venir a fatto d'arme , e conducono a qtiest' effetto sòidstl forastieri ; cosi quando sono astretti di combat- tere vi córrono tanto arditamente , quanto prima stu • diosamente lo hanno schivato. Non s'infuriano da prin- cipio , ma a poco a poco pigliano vigore, con animo fermo di morire piuttosto che dare le spalle. Quella sicurezza delle cose al vivere necessarie, senza l'af- fanno dei loro discendenti (il che in ogni luogo inde- bolisce gli spiriti generosi) fa gli Utopiensi di animo altiero, e che si sdegna di esser vinto. Si fidano an« Cora nelià perizia che hanno nella guerra, ed anco le dritte opinioni e i buoni istituti della repubblica che hanno imjp^àrHti dalla fanciullezza, aumentano in essi la virtù , con la quale non tanto sprezzano la vita , che la gettino , Ixè tanto l'hanno cara , che , richiedendo onesta causa di espprla alla morte, se la vogliano ava- ramente e 6on biasimo conservare. Quando più fiera Ih ogni parte arde la pugna, alquanti giovani congiu- rati mirano ad uccidere il prin'cipe nemico, ora a fac- cia aperta, ora con inganno, di lontano e d'appresso con lunga e continuata squadra, sostituendovi ognora i più freschi agli stanchi. E di rado avviene, se non fugge, che non rimanga morto o prigione. Se sono vit- toriosi, non attendono ad uccidere inimici che fuggono, ma piuttosto li pigliano. Né mai tanto li perseguitano che non tengano sempre una Squadra in ordinanza > e piuttosto li lasciano fuggire che guastare i propri loro ordini, atendo memoria che molte fiate essendo rotto il campo avverso, i vittoriosi spargendosi qua e là , e . lasciando pochi per retroguardia, hanno dato occasione ai nemico di farsi di vinto vittorioso. Non Salerei nar- rare se siano più astuti a disporre le insidie o più ac- corti a schivarle. Alle volte penserai che fuggano, (fùando sono più ostinati di non fuggire, de si può a segno alcuno indovinare quando da doyero si dispon- gono di l^lo. Perchò sehtendosi in disvantaggio nel UBfto 4B0&KDO. n nilmei^tl, o {lèi* sito éèl liioecf, 91 levxiftd di: notle fael- tamérìte o Ai^gònò ^liatebe astuzia» d^tétò di giorno si ^ftonb , ina con tal ordine , che iioa è tcMùté ^th c^fd issaliirli quando se ne vanno, che ^tisibiilo stanno fiftM. Fortificano i loro alloggiamenti con larga epro- tMHa fossa , né si servono in questo dei vili servi ; anzi i soldati di lor mano là cavano, gettando la tefra dentro, eccetto quelli che per ogni subito cago stannò armati alla guardia. Còsi, adoperandovisi tanto' numero, fortificano gran campo in pochissimo tempo. Usano arme a pigliare i colpi ferme, e non inette da portar# e muovere , intanto che non gì' impacciano nuotando. Perché tra gli ammaestramenti della milizia ^ àvvez- sano à nuotare armati. Per arme di lontano usftno le saette ; e sono a lanciar quelle ove disegnano gagliardi ed esperii, non solamente i pedoni , ina eziandio i ca* valieri. Dappresso non usano spade , ma accette , che tagliano e pungono acutissimamente, e col peso ancora sono mortali. Fanno certe macchine, le quali tengono nascoste finché fa mestieri dh usarle, onde non siano piuttosto di TÀdibrio che di vantaggio ; e mirano a farle tali che agevolmente si possano condurre e girare, come porta il bisogno. Osservano le tregue tanto santamente, che essendo ancora ingiuriati non le violano. Non sac- cheggiano il paese nemico, né ardono le l^ade; anzi a loro potere non le lasciano calpestare dai pedoni, né da cavalieri, facendo presuf^posto che crescano per loro. Non uccidono alcuno disarmato^ se non è qualche spia. Difendono le città che loro si rendono, e non deva- stano quelle che pigliano a forisa, ma uccidono sola- mente coloro, che non lasciavano ch« si arrendessero, e gli altri, che le difendeano, fanno servi. Ma non of- fendono la turba inetta a guerreggiare. Danno parte dei beni del dannati a coloro, che persuadevano che la città si rendesse ; ed il rimanente, che si vende, do- nano ai compagni venuti loro in aiuto. Niuno di loro piglia cosa alcuna del bottino. Finita la guerra, non < prendono dagli amici quello, che vi lunno speso, ma 70 OtOfU. da quelli che »quo vinti : per questa causa parte ri- scuotono danari, parte si appropriano alcuni terreni , dei quali i popoli vinti pagano loro ogni anno cert^ rendite, che fra tutte ben montano a più di settecen- tomila ducati. Mandano in que' luoghi alcuni lor citta» dini per camerUnghi, acciocché vivano magniflcameftt^ e vi stiano come nobili, tuttavia ne riportano buone somme nell'erario , ovvero le prestano a' popoli vinti , né le riscuotono, se non quando lo ricerca il bisogno: e di raro tutte intere. Di tali campi assegnano parte ^ quelli, che fanno per loro qualche pericolosa impresa, com'è sopra detto. Se alcun prìncipe si apparecchia di assalire con armi il loro paese, con grande esercito gli vanno subito contra fuori dei loro confini, per non guerreggiare nel proprio paese : né mai vengono a tanta necessità , che accettino nelllsola aiuto alcuno dagli amici. Delle religioni degli UtopiensL Sono varie le religioni, non solo per risola, ma per le città ancora. Altri onorano il sole, altri la luna/al- tri alcuna delle stelle erranti. Alcuni venerano per «ommo Dio qualche uonìo, che sia stato egregio per virtù. Ma la maggior parte , i più prudenti dico , non adora alcuna di queste cose, ma pensa che vi sia una occulta, eterna, immensa ed inesplicabile divinità so- pra ogni capacità umana, la quale con la virtù non con la grandezza si stenda per questo mondo, e tal Dio chiamano Padre. Da lui riconoscono l'origine, Taumen- to , i mutamenti ed il fine di tutte le cose , ed a lui solo danno i divini onori. Gli altri tutti, benché ado- rino cose diverse , in questo' parere concorrono , che vi sia un sommo Dio, il quale abbia creato il tutto, e con sua prudenza lo conservi, e chiamdnlo in loro lin- guaggio Mythra (1). Ma discordano in ciò, che uno (4) Secondo Erodoto altro non era fra i Persi antichissimi che LIBRO SECONDO. 77. afferma che questo sommo Dio sia una cosa , ed al« cano un'altra. Affermano però che quel sommo, il quale tengono per Dio, ha il governo dei tutto. Ma tutti a poco a .poco si scostano dalla varietà delle supersti- zioni , e concorrono in quella religione, che con più ragioni ed evidenze si prova. E già sarebbero tutti di una religione; se non che ogni disgrazia che loro ac- cade nel mutare , si pensano che ad essi sia mandata dal cielo per castigo, e che quei Dio, il. quale vogliono abbandonare , si vendichi di questa loro empia inten- zione. Ma poich' io predicai loro il nome di Cristo , la dottrina di quello , i miracoli e la costanza di tanti santi martiri , che spontaneamente vollero spargere il sangue: e come tante nazioni si sono a lui convertite, mirabilmente vi s'inchinarono, ovvero per divina inspi- razione, ovvero che parve loro tal via molto simile alla loro religione. E valse questo assai , perchè ave- vano compreso che la foggia del loro vivere piaceva a Cristo^ e. che i veri cristiani avevano monasteri, molto simili ai loro istituti. Sia però avvenuto per qual caso si voglia, molti si convertirono alla fede cristiana, e vollero essere battezzati. Ma poiché di noi quattro, che ivi eravamo, gli altri due essendo morti, ninno era sa- cerdote , quei popoli ancora desiderano avere sagra- menti, cui s'appartien di ministrare solamente ai sa- cerdoti, e disputano sovente se sia lecito , senza com- missione del pontefice, eleggere sacerdote uno di loro : e già stavano per eleggerlo, ma non ancora ravevano fatt«, quando io mi partii. Quelli che ancora non hanno appreso la fede cristiana, non biasimano chi la crede. Se non che uno di nuovo battezzato, cominciò arden- temente, quantunque io rammoniva che tacesse, a com- mendare il culto di Cristo, e dannare ogni altra setta, chiamando empi coloro, che adoravano altro che la l'amore, principio delle generasionl e della fecondità, che per- petua e ringiovanisce il mondo. Da' Greci e da' Romani fu con- foso col solei risguardato come 78 trotu. ss. Trinità» e degni del fuooo elenio. Costai fa presoi non già come Tiolatore delia religione» ma come colai, clie avcTa levato nel popolo tumulto : allegando gli anti* chisiimi loro istltati, cbe ognano posaa tenere qaai religione più gli piaee. Gli (Jtopiensi ayendo inteso i primi abitatori dell'isola essere stati circa la religioiie di pareri diversi , e considerando che le varie sette » combattendo tra loro» aveano dato ad essi occasione di vincerli tatti, fecero un editto che ognano potesse tenere qaal religione più gli aggradiva all'animo ; e se alcuno bramava di tirare FaHro nella soa^ con mode>- stia e ragioni stadiare a persuaderlo, ma non asaro in questo alcuna violenza o ingiuria : e ehi conten- deva di ciò importunamente, era punito con esilio o- con servitù. Fecero gii Utopiensi tale statuto, non so- lamente per conservare la pace , la quale con la con- tensione , e con l'odio si estingue , ma esiandio pen- sando che piacesse a Dio il culto vario e diverso , e che perciò ispirasse vari riti a questo ed a quello. Giu- dicarono quindi che non fosse convenevole voler con forza e minacce costringere alcuno a credere quello » che tu eredi per vero, fi quantunque una fra le diffe- renti lor religioni fosse vera, tuttavia vollero che t cittadini venissero a quella persuasi con modestia, spe- rando che la verità , quando che sia , debba rimaner vittoriosa. Laddove, contendendosi' con arme , gli uo- mini ostinati potrebbono con le loro vane superstizioni opprimere la vera religione, come avviene che i frutti vengono affogati dalle spine. Mossi da tali ragioni la- sciarono libero ad ognuno di epedere quello , che più gli piaceva. Solamente vietarono che ninno affermasse le anime morire coi corpi, e che il mondo fosse go- vernato a caso, senza previdenza divina, tenendo anzi per fermo che, dopo quesu vita, fossero puniti i vizj, e premiate le virtù. Chi nega, quindi , tali cose , è te- nuto peggio ohe bestia , volendo rassomigliare l'anima umana alle pecore ; né lo reputano loro cittadino, come colui, il quale, non essendo da timore raffrenato, spres* Limo sCG0imo. 79 sera ogni buon costvmQ ed UtUuto. &d 6 4» credere ch'egli contraffaccia di nascosto alle leggW o stadi di aunnllarley per servire al suo appetito, non avendole in riverenza f né sperando o temendo cosa alcuna dopo questa vita. A cbi tiene tale opiniiiiie non danno onore alcuno, né magistratura; cosi p lasciato da parte» come uomo inetto e da poco. Non però viene ignito, giudi- candosi che non sia in potere di alcuno credere quello» che gli piace: e neppure ò forsi^to con minacce a te* ner segreto il suo parere, fingendp di credere come gU altri. Gli vietano però Ù disputare di queUa sua opif nione , specialmente appo il volgo. Ma confortano gtt ì|omini di gravità , ed i sacerdol^ che ne n^gipnino» sperando che tale pazzia debba essere vinta dalla r^" gione. Altri in gran numero tengono che le anime an- cora delle bestie siano immortali, ma delle nostre men degne e non nate ad egoale felicità, Tanto sono per* suasi dell'immensa felicità delle anime nostre, che pian- gono gl'infermi e non i morti, se non quelli, che veggono mal volentieri lasciare questa vita. E questo hanno per cattivo augurio, come se l'anima senya speranza di bene alcuno, spaventata dalla propria coscienza, temesse il supplicio. E pensano che non piaccia a Dio l'andare di colui, il quale non corre volentieri quando è chia- mato, ma sta ritroso. Se veggono alcuno morire in que- sta guisa, se ne smarr4scono, e lo portano a seppeUire tacitamente , e pregano Dio che perdoni alla sua dap- pocaggine, liiuno piange quelli, che muoiono lietamente, e con buona speranza ; anzi seguendone le esequie can- tando, raccomandano affettuosamente le loro anime a Dio, e ne ardono i corpi con riverenza piuttosto che con rammarico. Rizzano una colonna, ove sono spoi- pite le lodi del defunto, e tornati a casa , ricontano i costumi e la vita di quello , e specialmente commen- dano la sua morte. Tengofto che tale commemorazione di bontà sia ai vivi uno stimolo alla virtù, e gratis- simo culto ai defunti, dandosi a credere che questi in^ visibilmente si trovino presenti ^ simiti parlari. Ferohè 80 UTOPIA. non sarebbero felici, quando non potessero andare ove piace loro, e sarebbero ingrati, se non bramassero di rivedere i loro amici, a cui erano uniti con rispondente carità, la quale, essendo uomini dabbene, piuttosto debbo essere accresciuta, che scemata. Credono adunque che i morti pratichino tra* vivi , mirando quanto si fa e dice. Perciò si mettono ^arditamente alle imprese, fidan- dosi di tali aiuti; e portando onore alia presenza dei loro maggiori, si guardano dal commettere cosa diso- nesta anche segretamente. Sprezzano gli augurj e le al- tre superstizioni d'indovinare, le quali sono appo le altre nazioni tanto riputate. Onorano quei miracoli, che vengono senza aiuto alcuno di natura, come testimoni della divina presenza; e nelle grandi cose con pubbli- che supplicazioni studiano a placare Dio. Pensano che contemplare le cose di natura sia un culto a Dio gra- tissimo. Molti ancora mossi da religione sprezzano le lettere, non si danno a contemplare cosa alcuna, ma solamente pensano di acquistare la felicità perpetua con buone operazioni. Così altri servono agi' infermi , altri riconciano le vie, altri purgano le fosse , altri rifanno i ponti, cavano sabbia e pietre, conducono nelle città legne e frutta , altri tagliano alberi e li segano : e, come fossero servi , si pongono volentieri ad ogni imprésa difficile, strana o sozza, la quale dagli altri per la fa- tica pei fastidio è lasciata Travagliano continuamen- te, perchè gli altri riposino , non biasimando però al- cuno che viva altrimenti. Questi quanto più si portano da servi, tanto vengono dagli altri più onorati. Ma sono di due sorta. Alcuni vivono casti, non mangiano carni dì animale alcuno, e lasciano da parte ogni diletto con speranza della vita futura, e non pertanto sono sani e prosperosi. Altri dati parimente alle fatiche, si maritano per eseguir l'opera della natiya, e generar figliuoli alla repubblica. Non fuggono quei sollazzi che non li riti- rano dalle necessarie occupazioni. Mangiano carni d'a- nimali di quattro piedi, dandosi a credere , che con quel cibo si mantengano più robusti al lavoro. Gii Uto • LIBRO SECONDO. 81 piani tengono questi per più prudenti, e quelli per più santi. Ma quando più apprezzano il celibato che il ma- trimonio, e la vita austera che la deliziosa, li beffano : nondimeno, dicendo che sono mossi a questo da reli- gione, gli onorano ; perchè si guardano sommamente di non dannare la religione di alcuno. Essi chiamano que- sti tali Butreschìy che appo noi significa religiosi. Hanno sacerdoti di vita santissima, ma solamente tredici per ogni città, secondo il numero dei templi. Quando vanno alla guerra ne conducono seco sette , e ne creano al- tri sette in luogo loro, finché si torna ; e allora gli ul- timi accompagnano il pontefice, sinché per morte .dei primi succedono al sacerdozio. Sono eletti dal popolo , come i magistrati, segretamente, acciocché non nascano odj tra loro ; e dal loro collegio vengono sagrati. Que- sti sono preposti ai divini misteri. Hanno cura delle religioni, sono giudici dei ckstumi, ed è biasimato co- lui, che sia da essi ripreso. Siccome è loro ufficio am- monire i malfattori, così ai magistrati conviensi di ca- stigarli. Solamente scomunicano gli ostinati , il che é appo loro sommamente biasimevole, e tenuto per grave sapplicio. Perchè temono l'infamia e la religione: ol- tre che non sono sicuri del corpo , perché se tardano a pentirsi , e soddisfare ai sacerdoti , sono puniti dai magistrati. Questi sacerdoti ammaestrano i fanciulli, . avendo egual cura a formarli nelle lettere , che nei buoni costumi. E pongono ogni studio che imparino buone opinioni , e piglino desiderio di esser utili alla repubblica, acciocché gli animi giovanili in questo for- mati, nell'età virile siano disposti a mantenere Io stato comune, il quale solamente vien meno pei vizj che na- scono da sinistre opinioni. Danno ai sacerdoti elettis- sime mogli del popolo loro : fanno sacerdotesse ancora le femmine, ma di rado, se non sono vedove, o di età matura. Sono più onorati i sacerdoti appo gli Utopiensi, che qualunque magistrato , e se commettono qualche rea opera , non vengono puniti da alcuno , ma lasciati al divino giudizio ed alla propria coscienza. Perche non Moro. 6 82 utóPlA. par loro giusta cosa di toccare con mano mortale co- lui che è a Dio sagro. Questo costume possono osser- vare agevolmente, perchè eleggono sacerdoti quelli, che sono di ottima vita. I quali di rado cadono nei vizj , vedendosi con tanto favore eletti, perchè osservino la virtù. E se pure avviene che pecchino, come accade nell'umana natura, tuttavia perchè sono pochi, e senza potestà alcuna, non si teme che possano a modo alcuno infestare la repubblica. E ne fanno pochi, acciocché sia tale diignità più ragguardevole: e perchè tengono che si% difficil cosa trovare gran numero di buoni, che pos- sano esserne degni. Questi e dai loro popoli e dagli stranieri sono molto onorati , il che per mio avviso è cagionato da ciò, che facendosi alcun fatto d'arme, essi separati dagli altri stanno in ginocchione vestiti coi sagri abiti, e con le mani al cielo levate; pregano prima per la pace , e poi per la vittoria al loro po- polo, senza spargimento di sangue d'amendue le parti. Vincendo la propria, corrono nelle squadre , vietando l'uccisione degli sconfitti, e ciò basìa a salvarli ; anzi tanta è la riverenza verso di essi , che il solo tocco delle ondeggianti lor vesti difende le persone e le cose da ogni bellica ingiuria. Perciò sono in tanta venera- zione appo le estere nazioni , che molte fiate hanno salvato non meno i nemici dalle mani dei propri citta- dini, che questi dalle mani de' nemici. Alle volte è av- venuto ch'essendo sconfitto il campo loro, e m:tt3ndosi i nemici a saccheggiare, sopravvenendo i sacerdoti, è stata raffrenata T uccisione , e fatta la pace con oneslì partiti. Non mai si trovò gente alcuna tanto feroce e cruda, la quale non a'^bia onorato il corpo di quelli, come sagrosanto ed inviolabile. Celebrano gli Utopj solennemente il primo e l'ultimo del mese, e parimente dell' anno, il quale dividono secondo il corso della luna. I primi giorni chiamano Cinemerni, e gli u'timi Trape- memi, cioè prime feste, ultime feste. Hanno egregi tempi non molto lavorali, ma, com'era necessario nel loro pic- clol numero, capaci di uno assai maggiore. Sono questi LIBRO SECONDO. 83 alquanto scurì, per consiglio dei sacerdoti » perchè la molta luce distrae i pensieri nostri, e la mediocre li raccoglie, e fa l'uomo alla religione più dedito. Benché siano di varie forme, nondimeno tutti sono alla reli- gione accomodati quasi ad una comune foggia. I sagri- ficj particolari di ciascuna setta sono celebrati nelle case particolari. I pubblici poi si fanno con tal ordine, che nulla derogano ai privati. Cosi non tengono nei tempj alcuna immagine degli Dei, acciocché possa ognu- no liberameate immaginarsi Dio in qual forma più gli piace. Chiamano Dio solamente per questo nome Mythra: e tutti per questa voce intendono la natura della divina maestà. Non si fanno orazioni, le quali non si possano pronunciare senza offendere le altre sette. Concorrono al tempio nelle ultime feste al vespro e digiuni, per rendere grazie a Dio di aver passato quel mese prosperamente. Il giorno appresso, che è la prima festa, concórronvi la mattina a supplicare felice saccesso per il mese che segue. Nelle ultime fe- ste, prima che si vada al tempio, le mogli innanM ai mariti, i figliuoli ai padri si mettono in ginocchione, chiedendo perdono di ogni mancamento : cosi ogni odio nascosto o dispiacere nato tra loro si estingue, e si trovano ai sagrificj con animo candido e puro. Perche temono d'intervenirvi, non avendo l'animo da ogni odio ed ira purgato. I maschi vanno alla destra parte del tempio , e le femmine alla sinistra , ed ogni padre e madre di famiglia si mette innanzi a tutti i suoi, per vedere i gesti di coloro che hanno in governo , e po« terli correggere da ogni errore che commettessero. At- tendono che i giovani stiano vicici ai vecchi, accioc- ché non si diano a cose puerili se stanno tra fanciulli garzoni ; parendo loro che in quel tempo debbano , col levare la mente a Dio , essere incitati alla virtù. Non sagrificano animali, dandosi a credere, che la di- vina clemenza non si plachi con sangue od uccisione, avendo quella dato la vita agli esseri perchè vivano. Ardono incenso ed altre cose odorifere, e portano as- 84 UtoptA* sai torcbj. Non già che non sappiano come tali cose niente vagliono a placare la divina natura : neanco le orazioni degli uomini : ma piace loro questo culto seiiza nocumento alcuno ; e con tali odori e lumi si sentono muovere a divozione verso Dio, e diventare più pronti ad onorarlo. Il popolo nel tempio si veste di bianco, ed 1 sacerdoti di vari colori , ma non di preziosa ma- teria ; perchè sono le lor vesti quasi ricamate non di pietre preziose , ma di varie penne di uccelli , in tal modo disposte, che l'opera oltre ogni stima più assai vale, che la materia. Dicono ancora che in quel variare di penne sono compresi alcuni segreti misteri , l'inter- pretazione dei quali imparata dai sacerdoti che dili- gentemente l'insegnano, fa loro comprendere i divini benefic] , che ricevono , e quale pietà debbano usare verso Dio ed il prossimo. Quando il sacerdote ornato esce del santuario, tutti si piegano con la faccia in terra, con tanto silenzio, che muove agli animi timore, come se Dio fosse presente. Poiché sono stati alquanto in terra, ad un segno del sacerdote medesimo si levano, e cantano a Dio laude con musicali strumenti, di forma assai differenti da quelli, che si veggono appo noi, ma nel suono alcuni più, alcuni meno, soavi che i nostri. Ci vincono però di gran lunga in questo, che ogni lor musica , con organi , o con voce umana, imita ed esprime gli affetti naturali, e si accomoda alla materia, sia orazione supplicatoria, lieta, placabile, turbata , lu- gubre sdegnata, e rappresenta in tal guisa il senti- mento, che gii animi di tutti sono a quello disposti ed accesi. In fine dei sagriflz) tutti ad una voce dicono certe parole col sacerdote, le quali benché siano pro- nunziate in comune, ognuno può applicare a sé mede- simo. In queste riconoscono Iddio autore della crea- zione e del governo, e di tutti gli altri beni, e di tanti benefici gli rendono grazie , ma ' particolarmente clie siano nati in repubblica felicissima , ed abbiano reli- gione , a loro parere , d'ogni altra più vera. E se pi- gliano errore in questo, pregan Dio che inspiri loro LIBRO SECONDO. 85 la miglior via, offerendosi pronti a seguirla, ina se la repubblica loro è ottima, e la religione verissima, dia ai medesimi costanza a perseverare in quella, • con- duca tutti gli ucHnini alla medesima foggia di ben vi- vere, e nello stesso parere circa la religione, se però non si diletta più di tanta varietà per la sua inscru- tabile sapienza. Supplicano poi che li riceva a sé dopo la morte, e che questa non sia crudele, ne strana. Fatta quest'orazione, di nuovo si piegano in terra, e poco appresso levati vanno a mangiare: il rimanente del giorno consumano in giuochi ed esercizi militari. Vi descrissi, quanto più veracemente mi è stato possibile, la forma di quella. repubblica, la quale non solamente giudico ottima^ ma eziandìo sola, che possa con ragione esser chiamata repubblica. Perchè altrove si ragiona veramente del pubblico comodo, ma si attende al par- ticolare. In questa da deverò si mira ai ben pubblico, lasciando al tutto da parte ogni proprio utile. Chi è nelle altre repubbliche, ancorché siano fiorite e prospere, il quale non teme di morirsi per fame, se non procura piut- tosto i suoi privati comodi, che il pubblico bene? Ed anco la necessità nelle altre repubbliche strigne l'uomo --rt-far questo. Nella Utopiense, ove ogni cosa è comu- ne, ninno teme di patire^ purché sieno pieni i granaj pubblici. Perché ivi non si distribuisce con malvagità, né vi è alcuno povero, e quantunque ninno posseda in particolare^ tutti sono nel pubblico ricchi. Perché ve- ramente , non avendo pensieri circa r acquistare par* ticolarmentej menano lieta vita con tranquillo animo. Non istanno in pena del loro vivere, non sono con do- majaàe continue dalle mogli travagliati, non temono che i figliuoli impoveriscano, né di dotare la figliuola stanno in pensiero. Anzi sono sicuri dei vivere felice dei figliuoli, nipoti e d'ogni lor discendente, ed anco di sé stessi, perché primieramente si provvede a chi non può lavorare, come a quelli che lavorano. Ardirà al- cuno di comparare l'equità di altre genti > le quali a mio parere non ne tengono ombra alcuna, con r equità 86 UTOPU. di questa repubblica? Che equità è quella che un no- bile ovvero orefice od usuraio, oppure qualunque altro che non opera cosa alcuna , ovvero ogni cui fatto è poco necessario alla repubblica, si acquisti il vivere de- licato e splendido : quando che un servo , un lavora- ta >rtj de* campi, un fabbro, un carrettiere, con tanta fa- tica diurna e notturna che non la patirebbero i buoi, si guadagna parcamente il vivere, quasi peggiore che quello degli animali? Perocché questi non lavorano tanto assiduamente, né stanno in timore delle cose av- venire ; ma gli altri sono afflitti dalla poco fruttuosa, fatica, e pensando alla povertà, che aspettano in vec- chiezza, restano vinti dal dolore. Poiché vedendo di non poter tanto guadagnare, che basti loro di giorno in '''orno, perdono ogni speranza di riporre cosa al- cuna pel futuro. Non è ingiusta quella repubblica ed ingrata , la quale dà liberamente tanti doni ai nobili , agli oziosi, agli artefici de' vani diletti, agli adulatori , e non provvede ai lavoratori di terreno, ai carbonaj, ai servi, ai carrettieri ed ai fabbri, senza i quali non può stare alcuna civil società? anzi essendosi delle loro fatiche servita, mentre che erano giovani, poiché invecchiano, li lascia di disagio morire in estrema po- vertà. Che dirò come i ricchi pigliano ancora del sa- lario diurno dei poveri, non solamente con violenza o frode, ma con pubbliche leggi? Considerando adunque tutte le repubbliche , che ora fioriscono , cosi mi ami Dio, che non veggo altro, che una congiura di ricchi, la quale tratta dei propri comodi. Sotto nome di re- pubblica ricercano essi ogni modo od arte, con la quale possano fare grandi acquisti, e tenerseli senza timore ; di poi come con piccioli salari aver le fatiche dei po- veri, e servirsene a loro voglia. Quelli trovamenti dei ricchi sotto colore di repubblica diventano leggi. Tut- tavia que' pessimi uomini , poiché hanno con insazia- bile appetito diviso tra loro ciò, che a tutti dovea ba- stare , sono degli Utopiensi inferiori, quanto alla felicità della repul!?lica loro; dalla quale essendo levata via l LIBRO SECONDO. 87 la cu^digia del danaro, ogni molestia e scelleraggine è insiem rimossa. Chi non sa quante frodi, rapine^ risse, tumulti, contestazioni, sedizioni, uccisioni, tradimenti, incantesimi, puniti piuttosto che raffrenati coi supplicj, colio sprezzare i danari se ne vanno, e con ciò la sol- lecitudine, i pensieri, le fatiche, le vigilie, ed anco la povertà, la qual sola pare che di danari sia bisognosa ? E per meglio chiarirti, pensa di qualche anno sterile , nel quale siano morti per fame gli uomini a migliaia , e troverai che nel fine di quella carestia era tanto fru- mento nei grana] dei ricchi, che avrebbe nodrito quelli, che morirono di fame^ né alcuno avrebbe sentito la ste- rilità di quel tempo. Cosi facilmenìe si acquisterebbe il vivere se il desio di accumulare danari, non impove- risse gli altri. I ricchi stessi, non ne dubito, ciò com- prendono e sentono che sarebbe miglior partito non mancare di cose necessarie, che abbondare di tante so- verchie. Ed io tenoi non sono ingressi» che nella parte concava delle mura, • si penetra nelle staiize ia* U CITTA' hZl SOLE. 93 feriori caniminando in piano, mentre per giungere ali» superiori si salgono scale di marmo, che mettono nelle gallerie interne, e da queste s'arriva alle parti più alte degli edìflzj clie mostransi belle, e ricevono luce per finestre esistenti tanto nel concavo, che nel convesso delle mura, stupende per la loro sottigliezza. Ogni muro convesso, cioè la parte esterna, presenta uno spessore di circa otto palmi , di tre soli il conca- vo, ossia la parte ^interna, e le tramezze non ne hanno Ohe uno o poco più. Oltrepassata la prima pianura giun- gasi alla seconda più ristretta di circa tre passi, e qui l'oc* chio scopre il primo muro del secondo giro guarnito pure di palazzi, i quali a somiglianza di quei del primo giro hanno gallerie sì al basso come all'alto, e verso la parte interna vi ha un altro muro interiore, che cir- conda i palazzi medesimi, ed inferiormente ha pogginoli e peristili sostenuti da colonna: nella parte superiore poi presenta pregiati dipinti là dove riescono le porte delle case superiori ; e cosi per somiglianti giri, e doppi muri che racchiudono palazzi, ciascuno de' quali è or nato di gallerie sorrette da colonne, si perviene airui tima parte della città sempre camminando in piano solamente quando s'entra per le porte dei vari circuiti che sono doppie, cioè una nel muro interno, l'altra nel l'esterno, si sale per gradini talmente costrutti che ap pena sensibile è l'ascesa, essendo collocati obliqua mente, e gli uni pochissimo elevati dagli altri. Alla sommità del monte s'incontra una spaziosa pianura nel cui mezzo sorge un tempio ùi meravigliosa costru- zione. G. M. Prosiegui, ora, te ne scongiuro, prosiegui. Amm. 11 tempio è perfettamente rotonda non rin- chiuso fra mura, ma appoggiato a massiccie ed eleganti colonne. La vòlta principale , opera ammirabile, occu- pante il centro, o il polo del tempio, ne capisce un'al- tra più elevata, e di minore dimensione, la quale pre- senta nel suo mezzo uno spiraglio, direttamente guar- dante sopra l'altare, ch'è unico, situato nel mezzo del. 94 LA citta' DSL SOLE. tempio, e tutto attorniato da colonne. La capacità del tempio supera trecentocinquanta passi. — All' infuori dei capitelli delle colonne , e sovra essi appoggiate, sì innalzano altre arcate sporgenti circa otto passi, e so- stenute dalla parte esterna da altre colonne, alle quali nel basso aderisce un grosso muro alto tre passi ; cosi che le colonne del tempio, e quelle sorreggenti l'arcata esterna, formano nel loro interspazio le gallerie infe- riori che hanno magnifico pavimento. L'interno poi del piccolo muro è interrotto da frequenti porte, e qua e là veggonsi sedili immobili, sebbene frammezzo alle co- lonne interne sorreggenti il tempio siano numerosi ed eleganti sedili portatili. Sopra l'altare non v'ha che due globi, dei ;qualì il più grande porta dipinto tutto il cielo, il secondo la terra. Nell'area poi della volta principale stanno dipinte le stelle del cielo, dalla prima alla sesta grandezza, segnata ciascuna col pro- prio nome; e tre sottoposti versetti appalesano quale influenza ogni stella eserciti su le vicende terrestri. I poli ed 1 cerchj maggiori e minori secondo il ragionato loro orizzonte trovansi indicai, non finiti nel tempio, mancando al basso il muro, ma sembra ch'esistano nella loro interezza atteso il rapporto coi globi collocati so- pra l'altare. Il pavimento è fregiato di pietre preziose, e sette lampade d'oro chiamate col nome dei sette pia- neti ardono cont'nuaiiente. La piccola vòlta al vertice del tempio è circondata da ristrette, ma elegante, celle, e dopo quello spazio piano esistente sopra le arcate delle colonne interne ed esterne, vi ha altre spa- ziose e ben addobbate celle , abitate da quarantanove sacerdoti e religiosi. Una bandiera mobile ind'cante la direzione dei venti (dei quali ne dlstn^uono sino al numero di trentasei) sormonta l'estremo punto della vòlta minore, e con c'ò conoscono quale annata appor- teranno i venti, quai mutamenti avverranno *in terra, e sul mare, ma unicamente sotto il clima proprio. Sotto la medesima bandiera poi osservasi un quadrante scritto a lettere d'oro. Là Cmk' DEL SOLl£. 98 Ci. Il- Uomo generoso, spiegami il modo di reggi- mento di cotesta gente ; io con impazienza t'aspettava a questo punto. . Amm. Sommo reggitore di questa città è un Sacer- dote nel linguaggio degli abitanti nominato Hoh, Noi lo chiameremmo Metafisico. Questi gode#*una autorità assoluta; a lui è sottoposto il temporale e lo spiri- tuale, e dopo il suo giudizio deve cessare ogni contro- versia. Egli viene incessantemente assist'to da tre al- fri cap", detti Pon, Sin e Mor, nomi che appresso noi equivalgono a Potenza, Sapienza eA Amore, La Potenza ha il governo di quanto spetta alla pace ed alla guerra, come altvesi airintero dell'arte militare. Questo triu nviro non riconosce superiori neirazienda militare, eccetto Hoh. Egli presiede ai magistrati mili- tari, aircoercito ; a lui appartiene sorvegliare le mu- niziona, le lortificazioni , le costruzioni , quanto in- somnr:a concerne slmile genere di cose. Alla Sapienza incoir')e la direzione dell'arti liberali, meccaniche e di tutte le scienze, ed anche quella dei ri- spett'vi magistrata d'esse, dei dottori e delle scuole d'i- stru^'otie. A Ir* quandi obbediscono tanti magistrati quante sono le scienze. V'ha un magistrato che si chiama Ast *ologo, altri Cosmo'^rafo, Aritmetco, Geometra, Isto- riografo. Poeta, Log'co, Retore, Grammatico, Medico, Fi- siologo, Polit'co, Morale, e per questi esiste un unico libro detto Sapere, nel quale con meravigliosa conci- sione e chiarezza stanno inscritte tutte le scienze. Que- sto viene da essi letto al popolo secondo 4 metodo dei Pita^oric . La Sapienza poi con ordine ammirabile fece ador- nare tutte le mura esler.ie ed interne, superiori ed in- feriori, di pregiatissimi dipinti rappresentanti tulte le scienze. Su le esterne del tempio, e sopra le cortine, che s'abbassano qucndo il Sacerdote tene conclone, perchè non vada dispersa la voce,vej^onsi pinte le stelle eoa le loro virtù, grandezze e movimene' , ed il tutto spiegato da tre appositi versetti. 96 LA CITTA* DEL SOL», Sulla parete interna del primo giro furono dipinte tutte le figure matematiche, ben più numerose di quelle ritrovate da Archimede ed Euclide. Esse compaiono grandi secondo le proporzioni delle pareti, ed un breve concetto, contenuto in un verso, fa conoscere il signi- ficato di ciafltiina. Sono definizioni, proposizioni, ecc. Sulla parete esterna del medesimo giro scopresi pri- mieramente una compita ed estesa descrizione di tutta la terra; seguono quindi le tavole particolari delle Provincie, delle quali vengono con brevità chiarite le cerimonie, le costumanze, le leggi, le origini e le forze degli abitanti. Gli alfabeti poi delle diverse nazioni leggonsi là dove si trova l'alfabeto della Città del Sole. Neir interno del secondo giro , ossia delle seconde case, stanno tutti i generi di pietre preziose e comuni, dei minerali e dei metalli, non solo mostrati dalle pit- ture, ma eziandio offerti da pezzi reali, e ciascuno colla speciale spiegazione di due versi. Neil' esterno di que- sto giro vengono indicati tutti 1 mari, i fiumi , i laghi e le sorgenti delia terra; come pure i vini, gli oli, i liquori colla loro provenienza, qualità e proprietà. Sopra le arcate sono varie ampolle connesse al muro, riempite di differenti liquidi , esistenti già da cento ai trecento anni , e serbati siccome rimedj a diverse malattie. Inoltre particolari figure , e versetti appor- tano istruzioni sulla grandine, la neve , sui tuoni ed intorno a tutto quanto si forma nell'atmosfera : ed i cittadini solari conoscono anche l'arte con cui pos-. sonsi riprodurre entro una stanza tutti i fenomeni me- teorologici, i venti, le pioggie, il tuono, l'iride, ecc. Nell'interno del giro terzo ritrovansi le dipinture di tutti i generi delle piante e dell'erbe, alcune delle quali però sono viventi entro vasi collocati sopra le arcate della parete esterna. Le dichiarazioni annessevi inse- gnano il luogo deiU prima scoperta, le forze , le pro- prietà e i rapporti loro eolle cose celesti , colle diffe- renli parti dell'organismo umano, colle produzioni me- talliche e marine , ed unclie l'uso particolare di eia- ìA GtVTA'' DBL 80UE* ^7 BCimaia medicina, ecc. Nell'esterno veggonsi i pesci d'o- gni specie, di fiomi, di laghi e di mari, le loro abitudini, qualità, modi di generazione, di vita e di educazione , l'uso a cui il móndo e noi gli facciamo servire ; infine le relazioni loro colle cose celesti e terrestri, prodotte dalla natura e dall'arte ; cosi , leggiera in me non fu la meraviglia scoprendo il pesce Vescovo, Catena, Co- razza , Chiodo , Stella ed altri , perfette immagini di cose appresso noi esistenti. Si osservano i ricci , le conchiglie, le ostriche, ecc. Finalmente in questo giro una pittura ed una scrittura veramente ammirabili istrui- scono intorno a quanto il mondo acqueo racchiude de- gno d'attenzione. Nell'interno del quarto giro verniero dipinte tutte le specie degli uccelli, la qualità, la grandezza , l'indole , i costumi, i colori e la vita loro , e quello che desta maggior stupore è lo scoprirvi la vera Fenice. L'ester- no poi presenta tutti i generi degli animali rettili, i serpenti, i draghi, i vermi , gli insetti , le mosche , le zanzare, i tafani, gli scarabei, ecc., colle particolari pro- prietà, distinzioni ed usi, ed in un'abbondanza appena credibile. Nell'interno del quinto giro vengono mostrati tutti ì generi degli animali terrestri più perfetti, ed in nu* mero portentoso. Noi non ne conosciamo la millesima parte, ed essendo anche grandissimi, non pochi furono dipinti sull'esterno del. medesimo giro. Ed ora quante cose potrei esporre f Quante specie di cavalli t Quanta bellezza di figure. Neirintemo del sesto giro trovansi dipinte tutte l'arti meccaniche e i loro istrumenti, e come ne usino le diverse nazioni, e ciascuna fu ordinata e spiegata giusta il pro- prio valore, e porta anco il nome del suo inventore. Nell'esterno poi i dipinti rappresentano tutti i sommi uomini nelle scienze, nell'armi e nella legislazione. Ho veduto Mosè, Osiride, Giove, Mei^urio, Licurgo, Pompi- lio, Pitagora , Zamolhim , Solone , Caronda , Foroneo e moltissimi altri. Che più t Hanno dipinto lo stesso Mao- 98 LA citta' DKL sole. metto , clic però reputano fallace ed iaoaesto legisla- tore. Ma vidi rimmaglne di Gesù Cristo essere stata collocata in un posto eminenti ssimo , insieme a quelle dei dodici Apostoli da essi altamente venerati , e cre- duti siccome superiori agli uomini. Sotto i portici esterni ^ osservai dipinti Cesare, Alessandro. Pirro, Annibale ed ( altri sommi, la maggior parte cittadini romani , chiari I in pace ed in guerra : ed avendo con meraviglia chie- sto come essi conoscessero le nostre istorie, risposero ; coltivarsi fra loro tutte le lingue , ed essere soliti in- viare esploratori e ambasciatori per ogni parte delia terra onde apprendano costumi, forze, governo, istorie, beni e mali di tutte le nazioni , ed essere moltg desi- dei'osi gli abitanti solari di simile istruzione. Ho sa- puto avere i Chinesi prima di noi scoperto la polvere da cannone e la stampa. V ha maestri che spiegano questi dipinti, ed avvezzano i fanciulli ad imparare senza fatica, e quasi a modo di divertimento^ tutte le scienze, però con metodo istorìco, avanti il decimo anno. Il terzo dei triumviri è TAmore, ed uffizio primiero a lui spetta quanto riguarda la generazione. Principale suo scopo è dunque che l'unione amorosa accada fra individui talmente organizzati , che possano produrre un'eccellente prole, e si fanno beffe di noi, che affati- raufloci pel miglioramento delle razze dei cani e dei ca- valli , totalmente trasandiamo quella degli uomini. Ai governo di lui è sottoposta l'educazione dei fanciulli , l'arte della farmacia, come pure la seminazione e la rac- colta delle biade e dei frutti, l'agricoltura, la pastorizia, l'apparecchio delle mense e àm cibi. Infine l'Amore re- gola tutto quanto si riferisce al vitto, al vestilo ed alla generazione, come anche i molti maestri e iuaestre ad- dette a ciascuno di questi ministeri. Questi tre trattano le anzidette cose unitamente al Metafisico , senza del quale non fassi nulla ; e cosi la republica viene governata da quattro, ma generalmcnle dove propende il volere del Metafisico acconsente pure quello degii altri. £A CITTA' DEL SOLE. 99 G. M. Ma dimmi, amico, ì magistrati, gli affizj , le ca- riche, Teducazione, tutto il modo di vivere è proprio d'una vera repubblica, ovvero d*una monarchia o d'una aristocrazia ? Aific. Questo popolo si ricovrò quivi venendo dal- rindia, abbandonata da lui per scampare alle inuma- nità dei magi , dei ladroni e dei tiranni , cbe tormen- tavano quel paese, e tutti d'accordo determinarono d'in- cominciare una vita filosofica ponendo ogni cosa in comune; e quantunque nel loro paese nativo non sia in costume la comunità, delle donne, essi pure Tadot- tarooo unicamente pel principio stabilito, che tutto dovea essere comune, e che solo la decisione del ma- gistrato, doveva regolarne Tequa distribuzione. Le scienze quindi, le dignità ed i piaceri sono comuni in modo che alcuno non può appropriarsene la parte clic spetta agii altri. £ssi dicono, cbe ogni sorta di proprietà trae origine e forza dal separato ed individuale possesso di case , di figli, di mogli. Questo poi produce l'amor proprio, e ciascuno ama arricchire, ed ingrandire l'erede; e quindi , .se potente e temuto , defrauda la cosa pu- blica; se debole, di nascita oscura e mancanle di ric- cbezze, diviene avaro, intrigante ed ipocrita,. Al con- trario perduto l'amore proprio, rimane sempre Tumore della comunità. G. M. Adunque nessuna avrà voglia di iavoraro . stando in aspettazione che gli altri lavorino per suo sostentamento; obbiezione da Aristotile mossi a Pia- tone. . Amm. lo non seppi che ciò desse occasione :id cil- terchi, ma ti dico essere appena credibile riiìunensiti dell'amore che quel popolo nutre per la patria , ed in ciò sono superiori agli antichi Romani die spoiiiauea- inente si davano in olocausto per la comune s.\lvc/.7a ; cosi doveva essere, perchè l'amore alla cosa pubblica aumenta secondo che più o meno si è fatto rinuazia all'interesse particolare. Credo anzi, che se i monaci ed 100 LA GITXA^ DSL SOLE. i ehierici appresso noi uon fossero viziati da ann so- verchia benevolenza verso i congiunti, gli amici, o meno rosi dall'ambizione di sempre più elevati onori, avrebbero con una minore affezione alla proprietà acqui* stata lode di più bella santità , e simili agli Apostoli , ed a molti de' tempi presenti, sarebbero comparsi al mondo esempj d'ogni più sublime carità. G. M. Questo fu già detto da S. Agostino; ma di gra- zia dimmi : gli abitanti solari, non potendo scambiarsi benefizi » non conosceranno dunque l'amicizia? Ahk. Anzi è grandemente sentita. Imperocché, seb- bene nessuno possa ricevere particolari favori, avendo tutti il necessario dalla comunità, e vegliando i magi- strati perchè nessuno ottenga più di quanto meriti (il ne- cessario però non viene giammai negato), Tamicizia pure ha campo di mostrarsi in caso di guerra o di malattie, ì)vvero prestandosi mutua opera nello stadio delle scienze, e talvolta anco scambiandosi lodi , fun- zioni, od il necessario. Tutti i coetanei poi si chia- mano fratelli ; acquistano il nome di padre oltrepassata l'età di ventidue anni, avanti al compimento di questi si dicono figli, ed una delle primarie funzioni dei magi* strati è l'impedire ogni offesa fra i confratelli. G. M. E come mai viene ciò conseguito? Ahk. In queste città il numero e i nomi dei ma- gistrati corrispondono alle virtù appresso noi cono- sciute. Havvi chi è chiamato Magnanimità, e chi For- tezza, Castità, Liberalità, Giustizia criminale e civile. Diligenza, Verità, Beneficenza, Gratitudine, Ilarità, Eser- cìzio, Sobrietà, ecc.; e colili, che dall'infanzia si co- nobbe nelle scuole più propenso fkll'esercizio di qual- cuna delle anzidette virtù, questi - ne viene nominato magistrato. Quindi non essendo possibili fra loro i la- trocini, gli assassini, i tradimenti, gli stupri, gl'incesti, gli adulteri e altri misfatti di cui incessantemente noi ci lamentiamo, essi vengono dichiarati colpevoli d'in- gratitudine, di malignità (quando alcuno nega una de- bita so^sfazione), di pigrizia, A tristizia, di collera, u carrV cbl sout. Mi di bas8dz£a, di maldicenza e di menzogna» delitto colà detestato più che la peste. E le pene più usitate sono la privazione della mensa comune, la proibizione delle donne e degli altri onori per tutto quel tempo che viene dal Giudice creduto necessario perchè ne segua la correzione. G. M. Potresti ora spiegarmi qual sistema venga se- gaito nella elezione de' magistrati? Amc. Se prima non ti espongo il loro metodo di vita 9 è impossibile ch'io soddisfaccia pienamente alla tua domanda. Sappi dunque, che uomini e donne por- tano abiti egualmente foggiati, idonei alia guerra, col- l'unica differenza che alle donne la toga copre le gi- nocchia 9 mentre gli uomini le hanno scoperte. Tutti assieme senza distinzione vengono educati in tutte le arti. Trascorso il primo anno, ed avanti il terzo, i fan- ciulli imparano la lingua e l'alfabeto passeggiando nelle sale; essi sono distinti in quattro drappelli, ai quali presiedono vecchi dignitosi, che guide e maestri sono, d'una probità superiore ad ogni prova. Dopo alcun tempo incominciano gli esercizi della lotta, del corso , del disco e d'altri giuochi ginnastici tutti aventi a scopo di rinvigorire adeguatamente 1 corpi: sempre però a piedi nudi, ed a capo scoperto sino all'anno settimo. Distinti in drappelli vengono an- che condotti alle differenti officine dell'arti ; a quelle dei calzolai, dei cucinieri, dei fabbri , de' pittori , ecc. Perchè venga chiarita la tendenza speciale di ciascun ingegno, dopo l'anno settimo , acquistate già le no- zioni matematiche mediante i dipinti delle mura, sono applicati allo studio delle scienze naturali. Le lezioni vengono recitate a ciascun drappello da quattro diffe- renti maestri , i quali poscia danno termine ad oprni altra parte dell'istruzione in quattro ore. Quindi alcuni esercitano i corpi, mentre altri attendono alle public ae funzioni, o s'applicano alle lezioni. Dopo comincia lo studio delle materie più difficili, delle matematiche su- blimi, della medicina e d'altre scienze, e continuamente lOà LA CITTA* DEL SOLtì. passano fra loro esercìzj di dispute scientifiche; col progresso del tempo poi quelli, che più si segnalarono in una scienza , od in un' arte meccanica, ne vengono eletti a magistrati. L'agricoltura e la pastorizia sono insegnate mediante l'osservazione, e tutti sotto la scorta del proprio capo e giudice escono nei campi ad esa- minare ed apprenderne i modi dfi lavorò , e stimano primo e più grande chi ha conoscenza di maggior numero d'arti , e tutte sa jsrofessarle con senno. Ed io non posso esprimerti quanto disprezzo facciano di noi che chiamiamo ignobili gli artefici, e nobili quell! che, non sapendo fare cosa alcuna, vivono nell'ozio, e sacrificano tanti uomini, che, chiamali servi, sono islru- menti d'ogni pigrizia e lussuria. Dicono quindi non doversi fare meraviglia se da queste case , scuole di ogni bruttura, escano caterve di intriganti e malfat- tori^ con infinito danno della cosa pubblica. Gli altri funzionari sono eletti dai quattro primati Heh, Pon, Sir e Mor, unitamente ai magistrati di quel- l'arte a cui debbono corisecrarsi. Obbligo poi dei quat- tro Sommi è conoscere perfettamente quale idoneità, per una data arte o virtù , possegga quello che deve divenirne il reggitore. Quando occorre un'elezione , gli i do] lei vengono proposti in un'adunanza dai magistrati, e non ò permesso ad alcuno presentarsi sotto forma di candidato ad addimandare cosa alcuna, ma tutti pos- sono esporre quanto sanno di contrario o di favore- vole agli eligendi. Nessuno però aspira alla dignità di Hoh se profondamente non conosce le istorie di tutte le genti, i riti , i sagrifizj , le leggi delle repubbliche e delle monarchie; gli inventori delle leggi, delle arti, i fenomeni, e le vicende terrestri e celesti. A ciò s'ag- giunga la cognizione di tutte le jirti meccaniche (im- pala ndnne essi una quasi nello spazio di tre giorni , ancorché non riescano perfetti nell'esecuzione, la quale però òt facilitata dall'esercizio e dalle pitture). Inoltre ò mestieri essere versatissimo nelle scienze fisiche ed astrologiche; la medesima importanza però non viene LA CITf a' OEL sole. 103 assegnata alla cognizione delle lingue» avendo essi quan* lità d'interpreti, nella repubblica chiamati grammatici. Ma d'assoluta necessità è il possedere nella loro in* terezza le scienze metaAsiche e teologlcbe. Debbonsi quindi conoscere le radici , i fondamenti , le prove di tutte le arti e scienze, i rapporti di convenienza e di disconvenienza delle cose , la necessità , li fato , Tar- moTiia del mondo, la potenza, la sapienza e l'amore delle cose di Dio, le gradazioni degli Enti^ i loro sim- boli colle cose celesti, terrestri e marine, e colle ideali in Dio per quanto è concesso a mente umana. Final- mente è d'uopo avere con lunghi studj approfondate le profezie e l'astrologia. Per il che il futuro Hoh viene riconosciuto molto tempo avanti l'elezione. Esso non può occupare si eminente dignità se non dopo il com- pimento del settimo lustro. La carica n' è perpetua , qualora non si scopra altro più sapiente e. meglio adatto a governare la repubblica. G. M. Ma qual uomo può possedere tanta dottrina? Anzi uno scienziato non è forse il meno idoneo al re- gime della cosa pubblica? Amv. Questa obbiezione venne pure da me mossa , e per risposta ebbi: Tanto noi siamo certi potere un sapiente possedere attitudine al buon governo d'una repubblica , quanto voi, che anteponete uomini igno- ranti, e stimati abili perchè discendenti da principi , od eletti dalla prepotenza d'un partito. Ma il nostro Hoh, supposto anche inespertissimo in ogni forma di governo, non diverrà giammai crudele, scellerato o ti- ranno, e solo perche possiede un'immensa sapienza. Bensì questa obbiezione può avere forza appresso voi, che chiamate sapiente l'uomo che lesse in maggior nu- mero grammatiche o logiche d'Aristotile od altri au- tori, e quindi volendo comporre un sapiente de* vostri paesi si addom.inda unicamente un' ostinata fatica ed un ser\'ile travaglio di memoria che abituano l'uomo all'inerzia , perchè non stimolato ad addentrarsi nelle cognizioni delle cose, e contento dt possedere un am- 104 LA. citta' I»L soia. masso di parole, avvilisce Tanima, afViaticandoU sopift. morti segni. E siffatti sapienti ignorano come vengano dalla causa prima governati tutti gli esseri , e quali siano le regole e l'abitudini della natura e delle na- zioni. Questo non accade al nostro Hoh , giacché per apprendere tanto numero d'arti e scienze, è necessario avere sortito vastissimo ingegno al tutto idoneo; abi- lissimo dunque ancbe al politico governo. Inoltre noi sappiamo non conoscere alcuna scienza chi soltanto fu istrutto in una , ed .avere ingegno tardo e pregevole quei che, atto ad unica scienza, tolse pur questa ad impre- stito dai libri. Simile giudizio non può portarsi sul no- stro Hoh. I tre primati poi che lo assistono, debbono essere profondi conoscitori, specialmente dell'arti che hanno immediata attinenza colla propria loro carica, e basta che solo istoricamente siano istrutti dell'arti co- muni. Cosi la Potenza è peritissima nell'arte equestre, in quella di coordinare un esercito , di preparare gli accampamenti , o fabbricare le armi , ed in ogni fae- ' eenda militare come in stratagemmi, in macehine, ecc. Ma al conseguimento di questo scopo è mestieri che la Potenza abbia nozioni di filosofia, di storia, di po- litica , di fisica , ecc. Lo stesso dicasi degli altri due triumviri. Ora , tornando a parlarti del loro metodo di vita , e dell'eccellenza dei mezzi d'istruzione, devi sapere, che in quella città le scienze vengono apprese si facilmente, che i fanciulli v'imparano in un anno solo quanto ap- presso noi s'acquista ordinariamente dopo dieci o quin- dici anni di studio. Essendo io stato chiesto d'interro- gare alcuno degli allievi, non so esprìmerti il mio stu- pore udendo risposte piene di prontezza, verità e sa- pienza da alcuni che parlavano correntemente la nostra lingua. Imperocché é stabilito che tre d'ogni drappello imparino il nostro idioma, altri tre l'arabo, e tre il po- lacco, e tre altre speciali lingue. Prima che diventino dottori non viene giammai loro concesso alcun riposo^ poiché dopo lo studio eseona LA cntA' OBI» SOLI. tcyi •Ila eMBpagaa» ore s'esercitano alla corsa» airareo« alla lancia , all' archibugio , alla caccia , ovvero nella bota- nica, nella mineralogia, neiragricoUora, o nella pasto- rizia. G. M. Desidererei ch'esponessi e classificassi le pub- bliche funzioni, e primamente che mi parlassi partita- mente della educazione. . Amm. Essi hanno in comune le case, i dormito!, i letti, tutte le cose necessarie. Ma dopo sei mesi i mae- stri scelgono quelli che debbono dormire in questo od in quel luogo, chi nella prima -stanza, chi nella seconda, e ciò Tiene indicato dagli zìtaLbe^ esistenti sopra l'alto degli ingressi. Maschi e femmine s'applicano in comune a tutte le arti meccaniche e speculative, colla differenza che le arti richiedenti fatica e cammino sono esercitate dai maschi, come arave, seminare, raccogliere frutta, travagliare sull'aia, far vendemmia, ecc., e le femmine vengono applicate a mungere gli armenti , a formare cacio, ed anche si spediscono negli orti vicini alle mura della città a coltivare ed a raccogliere erbe. Tutte le arti poi che si praticano rimanendo assisi o fermi in piedi spettano pure alle donne, come tessere, filare, cu- eire, tagliare capelli e barba, preparare farmaci, e tutte sorte di vesti. Sono però esenti dal lavorare legno e ferro. Ma se qualcuna mostra attitudine alla pittura, vienle concesso esercitarvisi. La musica invece è per- messa ad esse sole, e qualche volta anche ai fanciulli perchè suscettibili d'apportare maggior diletto, escluso però l'uso delle trombe e dei timpani. Le donne prepa- rano anche i cibi, e distendono le tovaglie, ma ò ob- bligo dei fanciulli il servizio delle mense, come pure delle fanciulle che non compirono l' anno ventesimo. Ognuno dei giri ha particolari cucine e cellieri, ed anche l'apparecchio degli utensili necessari al mangiare ed al bere ed a ciascuna officina presiede un vecchio ed una vecchia che d'accordo comandano ai ministranti, a possono battere od ordinare che vengano battuti i negligenti, i ritrosi, 1 4i^bbedienti, ed osservano e ten- 106 LA CITTA* DEL SOLE. gono conto dei genere d'ufRcio in e li maggiormente uii' fanciullo od una fanciulla si segnalò. La gioventù serre a quelli che hanno oltrepassato i quarant'annì, ed è do- " vere dei maestri e delle maestre sorvegliare alla sera quando vanno al riposo, ed al mattino per mettere in funzione quelli a cui spetta per ordine di successione, scegliendone uno o due per ciascuna stanza. I giovani poi servonsi vicendevolmente. Guai ai renitenti ! V'ha • le prime e le seconde mense, ognuna delle quali ha ri- spettivi sedili. S'assidono prima le donne, poscia gli uo- mini, ed all'usanza dei monaci non è permesso alcun rumore. Durante la mensa un giovane legge da alta ' tribuna a distinta e sonora voce alcun libro, e sovente i magistrati interrompono la lettura facendo osserva- zioni sui pàssi più importanti. Bellissima a vedersi' è questa gioventù succintamente vestita prestare ai suoi maggiori, con ogni opportunità, tutle specie di servigi, " e torna pure a grandissimo conforto l'osservare convi- venti in una perfetta armonia , con estrema modestia , decoro ed amore, tanti amici, fratelli, figli, padri e ma- dri. A ciascuno viene distribuito un tovagliuolo , un piatto ed una porzione di cibo. Incombe ai medici istruire i cuochi del giorno e della qualità degli alimenti da prepararsi, ed assegnare quali convengano ai vecchi , quali ai giovani, quali agli ammalati. Ogni magistrato riceve una porzione alquanto maggiore e più scelta., ed essi durante la mensa ne distribuiscono una parte a quei fanciulli che nel mattino più si segnalarono nelle scienze o nelle armi. Questo favore poi è ambito sic- come uno dei più preclari. Ne'giorni festivi durante il pranzo vi ha canto con musica, ma di poche, ed anche d'una voce soltanto, accompagnata da una cetra, ecc., e siccome l'opera dell'apparecchio venne prestata da molti e con diligenza, giammai non s'ascolta lamento per cosa che manchi. Vecchi dignitosi presiedono al regolare an- damento della cucina, ed ai preparatori degli alimenti , come pure alla mondezza dei letti, delle stanze, dei vasi, delle vesti, delle officine e degli inr'i;}ssi, ed a ciò at- tribuiscono somma importanza. tA citta' bel sole. 107 Riguardo al vestito essi portano sulle carni una ca- micia bianca, alla quale siegue la veste, che serve an- che per farsetto e per calzoni, senza increspature , la- teralmente aperta in alto e al basso delle gambe, e nel mezzo dall'ombelico alle natiche fra r estremità delle coscie; gli orli delle fessure anteriori vengono chiusi da bottoni sporgenti airinfuori, ed ai lati da lacci; gli stivaletti aderiscono ai calzoni , e discendono sino ai talloni ; coprono quindi i piedi con sottocalze di lana aventi foggia di semicoturni , ed assicurati con fibbie ; a queste soprappongono le scarpe, e finalmente, come già dissi, indossano la toga, e tanto ben fatte sono que- ste vesti, che levando la toga tu discerni chiaramente e senza timore d'ingannarti le ben proporzionate parti di tutta la persona. Cambiano quattro differenti vesti air anno , e ciò quando il sole entra neirArìete, nel Cancro, nella Lib- bra e nel Capricorno ; e la qualità e la necessità viene decisa dal medico, mentre la distribuzione è dovere di chi ha rincarico del vestiario in ciascun giro, e certa- mente ti recherebbe meraviglia il numero straordinario di tante vesti pesanti, o leggieri , secondochè è voluto dalla differenza delle stagioni. Tutti le portano ben im- biancate, ed una volta al mese le lavano col ranno e col sapone. Tutte le officine d'una certa specie d' arti come cucine, dispense, granai, magazzeni, arsenali, la- vacri, trovansi nelle parti Inferiori delle case ; sebbene anche sotto ai peristili sieno state costruite conche pei bagni, da cui l'acqua* esce per canali terminanti in cloache. In ogni piazza dei sette giri v'hanno respettive fontane, le quali gettano acqua sollevata dalle fajde del monte col semplice movimento d' un ingegnoso manu- brio. In generale le acque alcune sono primitive, altre raccolte in cisterne alle quali sono portate da acque- dotti arenosi, allorché dopo una pioggia discendono dai tetti delle case. Le prescrizioni del medico e del magi- strato regolano le lavature delle persone. Le arti mec- caniche si esercitano sotto i peristili, nelle gallerie su- 108 il otta' obl aoUL perioiii le speealaCire sui pogginoli doT« seopronsi i più pregiati dipinti; qnanto poi s'attiene alle cose divine Tiene insegnato nel tempio. Gli orologi solari , ed altre macchine indicanti V ore ed i Tenti, ritrovanai sotto gli atrj , sopra i ponti più eminenti di ciascun giro. G. M. Di grazia parlami ora della generazione. AvM. Àlcona donna prima del decimonono anno non può consacrarsi a questo ministerio, e gli uomini deb« bono aTere passato il Tentesimo primo, ed anche più se gracili di complessione. Prima di questa età Tiene permessa ad alcuni la donna, ma sterile o graTida; onde spinti da soverchia concupiscenza non s'abbando- nino ad eccessi non naturali, ed appartiene alle mae- stre matrone, ed ai vecchi più attempati, provvedere la venere a quelli che sopra loro segreta domanda, ov- vero nelle pubbliche palestre, conobbero soffrire più potenti stimoli ; salvo però sempre la licenza del Gran Magistrato della generazione , ossia Gran Dottore della medicina, il quale non riconosce altri superiori che il triumviro Amore. Sorpresi una prima volta in sodo- mia sono svergognati, obbligandoli a portare per due giorni i calzari legati al collo, punizione indicante avere essi invertito V ordine naturale delle cose, e messo il piede sopra il capo. Continuando l'iniquità, s'aumenta la pena, e talvolta può giungere anche alla capitale. Ma coloro che si mantennero illibati sino al ventesi- mo primo anno, e principalmente quelli che si protras- sero tali sino al ventesimosettimo, ricevono in pub- blica adunanza onori di feste e canti. Siccome poi essi, al costume degli antichi Spartani, tanto maschi che fem* minepmostransl nudi negli esercizi ginnastici , cosi I precettori hanno mezzo di scoprire non solo quali siano abili, e quali inetti alla generazione ; ma eziandio pos- sono determinare l'uomo che più conviene ad una data donna, secondo le respettive proporzioni corporali. Il congiungimento maritale avviene ad ogni terza notte, e dopo che i generatori siansi bea lavati. Una donna lA «CITTA' Q£Z« 90tS. lOd grande • bella ò unita ad un uomo robusto ed appas* sionato, una pingue ad un magro^ una magra ad un pin- gue, e cosi con sapiente e vantaggioso accozzamento Tengono moderati tutti gli eccessi. Al cadere del sole i fanciulli salgono nelle stanze ed apparecchiano i ta« lami. Dopo entrano i generatori , e secondo è imposto dai maestri e dalle maestre si mettono al riposo , né giammai possono consacrarsi all'importante ministerio se prima non hanno ben digeriti gli alimenti e termi- nata la preghiera. Nelle stanze sono eleganti statue di uomini ragguardevolissimi, ivi collocate perchè si con- templino dalle donne, dipoi affacciandosi ad una fine- stra cogli occhi rivolti ài cielo supplicano Iddio che conceda diventino madri di perfetta prole. Coricate po- scia in separate celle dormono sino all'ora stabilita per l'unione, ed allora la maestra levandosi apre al di Inori la porta sì degli uomini come delle donne. Questa ora è determinatsC dal medico e dall'astrologo, che stu- diano cogliere il tempo in cui tutte le costellazioni sono favorevoli ai generatori ed ai futuri generati. Cre- dono poi essere colpevole chi accostandosi alla gene- razione non abbia almeno per tre giorni conservato nella sua interezza e purità il seme, o chi avesse commesse Invereconde azioni , e chi non si fosse riconciliato e ravvicinato a Dio. Coloro invece, che per diletto o ne- cessità usano con donne sterili, gravide o difettose, non vengono obbligati ad alcuna cerimonia. I magistrati, poi che tutti sono sacerdoti, come anche i maestri delle scienze, non ponno assumere l'incarico di generatori che dopo molte giornate d'astinenza. Imperocché l'im- piego delle facoltà intellettuali, indebolendo gli spiriti aojmali, lor toglie che possano trasmettere l'energia del cerebro, e quindi osservasi sovente essere fiacca di corpo e tarda d'ingegno la prole di simile gente. Sa- piente è dunque la prescrizione che ordina ad essi d'ac- coppiarsi con donne vivaci, forti e belle. Parimente gli uomini pronti, ardenti, di temperamento sanguigno, deb- bono unirsi a donne pingui e fredde. E dleono che tra* 110 LA CITTA' DBIi SOLE. scurala la generazione non si può dopo colFarte acqui- stare l'armonia dei diversi elementi dell'organismo, causa di tutte le virtù, e che gli uomini ì quali nascendo hanno sortito cattiva organizzazione, operano il bene unicamente pel timore della legge e di Dio , cessato il quale, od in segreto o pubblicamente, guastano la repub- blica. Laonde devesi adoperare ogni diligenza nel mi- nisterio della generazione e riflettere ai veri meriti na- turali, non alle doti od alle nobiltà fittizie, e di men- zognera specie. Se una donna non viene fecondata dall' uomo destinatole è confidata ad altri ; se infine scopresi sterile diventa comune, ma le si niega l'onore di assidersi fra le matrone nell'assemblea della genera- zione, nel tempio, ed alla mensa, e questo fanno onde a cagione di lussuria non si procaccino coU'arte la ste- rilità. Quelle che concepirono , vengono per quindici giorni esentate da ogni fatica. Cominciano poscia la- vori facili onde fortifichino la prole , ed apranl« i meati della nutrizione , e dipoi si rinvigoriscono con sempre crescente esercizio. I medici poi non permet- tono loro che cibi proficui. Dopo il parto esse mede- sime allattano ed assistono il neonato in case comuni, a questo uopo appositamente preparate. Per due e più anni secondo le prescrizioni del Fisico sono allat- tati i bambini. Dipoi se femmina si consegna alie mae- stre , ed ai maestri se maschio. £d allora cominciano quasi per divertiQiento ad imparare gli alfabeti, a spie- gare i dipinti, ad esercitarsi alla corsa, alla lotta, quindi a studiare le storie esposte dalle pitture, e le differenti lingue, e sino all'anno sesto portano una veste ele- gante ed a molti colori. Dopo questa età danno prin- cipio allo studio delle scienze naturali , indi ad altro , secondo sembra opportuno ai maestri. Per ultime ri- serbansi le scienze meccaniche. Ma i fanciulli tardi d'in- gegno si spediscono in campagna, e qualora alcuni diano prove di aver fatto sufBcienli progressi si riammettono nella città. Mala maggior parte d'essi, essendo nati sotto la medesima costellazionei riescono consimili a'contem- LA citta" del sole. ili poranei per virtù, per costumi e per fattezze , e ciò è causa d'una durevole concordia, d'un reciproco amore e d'una vicendevole sollecitudine di aiutarsi l'un Tallro. I nomi non s'impongono a caso , ma pensatamente dal Metafisico, secondo le qualità individuali, come era costume appresso gli antichi Romani. Uno quindi chia- masi -Bello, l'altro Nasone, un terzo Crassipe , ed altri Torvo, Magro, ecc. Ma quando acquistano eccellenza in qualche arte, o per alcun gran fatto in guerra od in pace, al primo, nome s'aggiunge quello dell'arte, come Pittore bello, grande, aureo, eccellente, preclaro, o quello dell'azione, come Nasone forte, astuto, vincitore, grande, grandissimo, ovvero quello del vinto nemico, come Afri- cano, Asiatico^ Etrusco , e se superò Manfredo o Tor- Iclio , chiamasi Magro Manfredi , Tortello , ecc. Questi cognomi s'impon?ono dai magistrati superiori , accom- pagnando la funzione il più delle volte col dono d'una corona conveniente al fatto o all'arte , e d'una festa musicale, poiché essi non fanno stima alcuna dell' oro e dell'argento, considerandoli siccome materie per for- mare vasi ed ornamenti comuni a tutti. G. M. Dimmi di grazia : conoscono essi la gelosia, o meglio il dolore, quando alcuno non ottiene una sperala magistratura o tutt'altra cosa da lui ambita? Amm. No , perchè tutti oltre il necessario , godono eziandio di quanto può dilettare la vita. La generazione si considera opera religiosa avente a scopo il bene della repubblica, non dei privati ; e perciò obbediscono pie- namente ai magistrati. Essi poi, contro l' opinione no- stra, negano essere naturale all'uomo, perchè educhi con vantaggio la prole, il possesso d'una moglie, d' una casa, di figli, e dicono con San Tommaso , che scopo alla geneiazione ò il mantenimento della specie, e non dell'individuo. Essere quindi un diritto pubblico e non privato, e i particol iri averne parte , unicamente quai membri della repubblica. Soggiungono poi che la prin- cipale causa dei mali pubbhci sia nel cattivo modo di trattar la generazione e l'educazione, e che quindi esse 412 tA GltrV DSL SOLK. deronai reìigiosamente commettere alla saggezza del naa* gistratOy siccome > primi elementi per la felicità di un popolo. Gl'individui dunque, che per la loro eccellente orga- nizzazione hanno diritto d'essere generatori, o genera- trici , vengono appaiati secondo gì' insegnamenti della filosofia. Platone giudica doversi ciò eseguire mediante le sorti, onde gli allontanati dalle donne più belle non "^portino odio ai magistrati, ed anzi dice doversi ingan- nare gl'immeritevoli di somme bellezze, nell'atto che si estraggono le sorti, cosi che ottengano non le più desiderate, ma le più convenienti. Ma pienamente inu- tiie torna simile inganno agli abitanti solari, non esi- stendo fra loro deformità. Inoltre^ venendo le donne continuamente applicate a differenti lavori acquistano colorito vivace, membra robuste, grandi ed agili, e la bellezza viene costituita unicamente dalla elevatezza e dal vigore delle persone. Laonde incorrerebbe la pena capitale colei che imbellettasse il volto per comparire beila, od usasse zoccoli alti per parere più grande , o vesti allungate per coprire informi piedi. Ma eziandio se taluna avesse talento di fare le anzidette cose non lo potrebbe, e chi mai gliene accorderebbe la facoltà T Essi poi asseriscono, che simili inganni sono frutti ap- presso noi dell'ozio e dell'accidia delle donne, per cui deformandosi, impallidendo e diventando deboli e pic- cole, abbisognano di colori, di zoccoli, di vesti lunghe, ed amando meglio comparire belle per un'inerte deli- catezza che per una vigorosa salute, rovinano sé stesse e la prole. Allorché un individuo viene preso da violenta pas- sione per qualche donna, gli sono permessi colloqui , scherzi , e reciproci regali di fiori e di poesie. Ma se corresse pericolo la generazione, noiV s'accorda mai che s'accoppjno, se non quando trovasi già incinta la donna di un feto che appartiene ad un altro , ovvero già di- chiarata sterile. Del rimanente appena essi conoscono Tatoore di sola concupiscenza, bensì l'amidzia. Non sì tA CITTA* DEL SOLE. 113 danno soverchia briga per le eose famigllafi e comme- stibili, perchè ognuno ne riceve secondo il proprio bi- sogno, toltone quando trattasi d'onorai'e alcuno. Al- lora e specialmente nei giorni festivi soglionsi in se- gno d'onore distribuire agli eroi ed alle eroine, mentre si pranza, differenti regali, come variopinte ghirlande, cibi graditi, vesti eleganti, ecc. Sebbene durante il giorno, e nella città portino tutti vesti bianche, nella notte, e fuori della città, indossano abiti rossi di lana o di seta, e abborriscono siccome il più spregevole il color nero. Sono quindi avversi ai Giap- ^ ponesi che prediligono siffatta tinta. La superbia è giù- ^ dicata ìi più esecrando dei vizj , ed ogni azione che ne senta viene punita colle più crudeli umiliazioni. Nessuno quindi crede abbassarsi servendo a mensa , nelle cucine o neirinfermerie, ma chiamano ministerio ogni funzione, e dicono che tutte le azioni fatte dalle > differenti partì del corpo umano sono egualmente ono- / revoli. Non hanno la sordida costumanza di mantener servi, ^^ ad essi bastando, e molte volte essendo anche sover- chia, Tojpera propria. Ma noi con dolore vediamo l'op- posto. Napoli è popolata di settantamiia persone, e solo dieci quindici mila lavorando, prestamente vengono di- strutti dalla soverchia fatica; il rimanente è rovinato dall'ozio, dalla pigrizia, dall'avarizia, dalle infermità, dalla lascivia, dall'usura, ecc., e per sventura anco mag- giore, contamina e corrompe un infinito numero d'uo- mini assoggettandogli a servire, ad adulare, a parteci- pare de' propri vizj a grave nocumento delle funzioni pubbliche. I campi, la milizia, le arti o sono neglette o pessimamente coltivate con dolorosi sagriflcj d'al- cuni pochi : ma nella città del Sole essendo eguale di- stribuzione di ministeri, d'arti, d'impieghi , di fatiche , ogni individuo non affatica più di quattro ore per gior- no» consecrandone il rimanente allo studio, alla let- • tura, alle dispute scientifiche, allo scrivere, al conver- / 114 LA €ITTA' DSL SOLE. sare, al passeggiare, infine ad ogni sorta d'eserclzj ag- gradevoli ed utili al corpo ed alla mente. Non s'accorda licenza di giuoco che richieda ch'altri stia seduto, come dadi, scacchi e simili, ma divertonsi alla palla, al pallone, alla trottola, alla corsa, alla lotta, all'arco, airarchibu- gio, ecc. AlTermano inoltre che la povertà è la princi- pale cagione che rende gli uomini vili, furbi, fraudo- lenti, ladri, intriganti, vagabondi, bugiardi , falsi testi- moni, ecc., e che la ricchezza produce insolenti, su- perbi, ignoranti, traditori, presuntuosi, falsari, vanaglo- riosi, egoisti, ecc.; ed al contrario la comunità colloca gli uomini in una condizione al medesimo tratto ricca e povera. Sono ricchi perchè godono d* ogni necessario, sono poveri perchè non possedono nulla, e nel tempo medesimo non servono alle cose, ma le cose obbediscono ad essi, ed in ciò lodano i religiosi della Cristianità e specialmente la vita degli Apostoli. G. M. lo trovo utile e santa la comunità dei beni , ma non posso approvare quella delle donne. San Cle- mente romano dice dovere essere le mogli comuni, secondo r istituto apostolico , ed encomia Socrate e Platone insegnanti eguale dottrina: ma la glossa in- tende siffatta comunità riguardare l'ossequio e non il letto. £ Tertulliano appoggiando la glossa , scrisse che i primi cristiani ebbero tutto in comune, eccettuate le donne, le quali però foronlo , come si disse , rispetto all'ossequio. Amm. Io appena conosco queste cose , ma posso as- sicurarti avere veduto nella città del Sole comuni le donne rispetto all'ossequio ed al letto, ma non sem- pre ed a guisa delle fiere accoppiantisi a qualunque incontro di femmina, ma solo, come si disse, per ra- gione e per ordine di generazione. Nulla ostante credo che possono ingannarsi in questo. Ma essi fansi scudo del giudizio di Socrate, di Catone, di Platone, di S. Cle- mente, ma come tu osservasti mal inteso. Dicono che • S. Agostino approva ogni comunità, ma non quella delle donne pel letto , che ò l' eresia dei Nicolaiti , e che la LA citta' bel sole. 113 nostra Chiesa ha permesso la proprietàr dei beni non a titolo d'introdurre vantaggi maggiori, ma unicamente per evitare peggiori mali. Forse col tempo è possibile cbe abbandonino questo costume^ poiché nelle città saddite sono comuni i beni, non le donne, se non ri- spetto all'ossequio ed all'arti. Ma gli abitanti solari attribuiscono ciò air imperfezione delle dette città , meno della propria istrutte in filosoQa. Pure continua- mente spediscono messi ad esplorare altre nazioni , e non ricusano mai d'abbracciare quelle costumanze che loro sembrano migliori. L' abitudine pure fa che le donne riescano abili alla guerra e ad altri ministeri. Quindi dopo che conobbi questa città, convenni pienamente con Platone, ^neno col nostro Gajeta e discordai affatto da Aristotile. Un costume hanno essi pregevolissimo e degno d'imitazione, ed è, che nessun difetto vale a ri- tenere gli uomini nell'ozio, salvo un'età decrepita, nella quale però prestansi dando consigli. Quindi colui cbe zoppica serve nelle vedette impiegando gli occhi che ha sani. Chi è cieco scardassa colle mani la lana, e prepara piume per empire Ietti, capezzali ; chi è privo di occhi e di mani serve la repubblica impiegando l'o- recchio e la voce ; Analmente se alcuno non ha che un membro solo serve con quello nel miglior modo pos- sibile. . G. M. Parlami della guerra, che riserberai per innanzi le arti, le scienze e la religione. Amm. La Potenza , altro dei triumviri , presiede al maestro delle armi, come altresì a quelli dell'artiglieria, della cavalleria, dell'infanteria, e degli architetti, dei stratagemmi , ecc. , ed a ciascuno di questi obbediscono altri maestri, e primi funzionari delle rispettive arti. Inoltre la Potenza comanda agli atleti che sono espe- rimentati e vecchi capitani, precettori dei fanciulli nel- rarte militare dopo che hanno compito il duodecimo anno, sebbene prima di questa età siano stati esercitati tda maestri inferiori alla corsa, alla lotta, a lanciar pie- re^ ecc. Gli atleti quindi insegnano a ferire il perni co. il6 VA CITTA^ DBL flOLB. i catalli, gli elefanti, a maneggFate la spada, la lancia, r arco, le flonde, a cavalcare, ad inseguire, a fuggire , a restare in ordinanza , a soccorrere il compagno , a prevenire con ingegno il nemico, in una parola a vin- cere. Anco le donne imparano quest' arte sotto appositi maestri e maestre ; onde all'occorrenza possono portare soccorso agli uomini trattandosi di guerra non lontana dalle città, o di difenderne le mura se mai inaspettata invasione tentasse sorprenderle, ed in questo portano a cielo le Spartane e le Amazoni. Esse quindi sanno scagliare palle infuocate cogli archibugi , formarle col piombo, lanciare pietre dall'alto, andare all'ineon* tro dell'impeto nemico: cosi dalla frequenza di si- mili esercìzi vengono abituate ad affrontare senza al- cun timore ogni perìcolo, e se qualcuna mostra eodar* dia ne è severamente punita. Gli abitanti solari non temono la morte, perchè tutti credono all' immortalità delf anima, la quale uscita dal corpo s' accompagna agli spiriti buoni o cattivi seconda ha meritato nella terrestre vita. Sebbene siano Bramini, pure per alcune opinioni s'''accostano ai Pitagorici, dei quali non ammettono la metempsicosi dell'anima, ec- cetto qualche rara fiata per speciale giustizia di Dio, nò s'astengono dal combattere un popolo che si mostri ne- mico della repubblica, della religione e dell'umanità. Una volta ad ogni due mesi si passa in rivista l' eser- cito, e giornaliero è lo studio pratico dell'armi sia in campo aperto, sia fra le mura. Continue pure sono le lezioni sull'arte militare, e studiano la storia di Mosè. di Giosuè, di Davidde, de' Maccabei, di Cesare, di Ales- sandro, di Scipione, d'Annibale, ecc. Ciascuno può dire il proprio parere : qui operarono il bene , là il male , qui con probità, là con utilità, ecc., risponde il mae- stro, e sentenzia. G. H. Contro quai genti, e per quali ragioni fanno essi la guerri^ e quale ne è l'esito? Amk. Quand' anche non dovessero mai avere guerre, esse si esercitano airart« militare ed alla caccia ond« LA qiTTV DHI. 801)8. 417 QOQ ammoUiscaao , e gli eventi noa li sorprendano sprovvisti di difese. Inoltre nell'isola v'jha quattro regni, che invidiano grandemente la loro prosperità , ed il popolo amando meglio vivere alla maniera degli abitanti solari, che obbedire ai reggitori del paese, que- sti sovente movono guerra ai Solari adducendo usur- pazioni di conOniy empio modo di vivere, mancanza d'idoli , odio alle credenze dei Gentili, o degli antichi Bramini, ecc. Ed anche gli Indiani^ di cui erano già sudditi, si dichiarano contro essi trattandoli da ribelli, come altresì i popoli della Taprobana, dai quali ebbero l primi soccorsi. Non ostante i Solari n'escono sempre vincitori, fissi appena patito un insulto, una calun- nia , od una depredazione , ovvero sapute le molestie de' propri alleati, od anche chiamati quai liberatori da genti tiranneggiate, adunansi tosto in assemblea per deliberare. Qui primamente inginocchiansi al cospetto di Dio, pregandolo ad ispirare ottimi consigli. Esaminano qaindi le cose , e dopo dichiarano la guerra. Subita- mente si spedisce un sacerdote chiamato Forense. Que» sti domanda ai nemici la restituzione della preda , la liberazione degli alleati, o ]^ cessazione della tirannide. Se le inchieste non conseguono effetto , egli intima ia guerra nel nome del Dio delle vendette, del Dio di Sa- bahot, ade&terminio dei sostenitori dell' iniquità. Qua- lora poi i nemici chiedano tempo alla risposta, il sa- cerdote accorda un'ora se tratta con un re, e tre so con una repubblica, e ciò perchè sia impedito ogni in- ganno. Per tal modo gli abitanti solari si fanno di- fensori del diritto naturale e della religione. Dichiarata la guerra, l'intero dell'esecuzione viene affidato al Vi- cario della Potenza Questo triumviro poi, a somiglianza del dittatore de' Romani , opera pienamente secondo il proprio volere, onde siano tolte tutte ragioni di ritardi. Ma se somma è r importanza dell' impresa consulta Hoh, e la Sapienza e l'Amore. Ma dapprima un oratore espone in un'adunanza generale le ragioni della guerra e ia 0u3ti^a della causa, ed a questa assemblea inicrven- 118 LA CITTA' DEL SOLE. gono i maggiori deir anno ventesimo, e cosi resta pre- parato tutto l'occorrente. È duopo che tu sappi , con- servare essi in appositi arsenali ogni specie d'armi, delle quali sovente usano esercitandosi in finte batta- f le. Le pareti interne di ciascun giro sono guarnite di i ortai cbe vengono serviti da speciali soldati, ed hanno altre macchine di guerra chiamate cannoni, che por- tensi alla battaglia dai muli od asini, o sopra carri, ed allorché trovansi in aperta campagna rinchiudono nel mezzo i convogli , le artiglierie , i carri , le scale e le macchine, ed animosamente per lungo tempo si conten- dono il terreno. Ciascuno poscia si ritrae intorno alle pro- prie bandiere. I nemici credono che fuggano o si pre- parino alla fuga , quindi incalzano , ma i Solari divisi ri t'tìbi i lati a foggia di corni riprendono fiato e co- raggio , e coli' artiglieria scagliano palle infocate , e subito dopo ritornano al combattimento contro gli scom- pigliati nemici. £ questi ed altri consimili modi di guerra sono di frequente usati. Essi superano tutte le nazioni nella scienza degli stratagemmi e delle macchine/ e seguono il costume degli antichi Romani nella forma- zione degli accampamenti .# Alzate le tende , le circon- dano di bastioni e fosse con meravigliosa prestezza. < ;ii travaglio è assistito dai maestri dei lavori, delle 1. xchine e delle artiglierie, e tutti i soldati sanno ado- perare la scure e la marra. Hanno cinque, otto ed an* che dieci capi che provvedono ad ogni affare di guerra, che conoscono profondamente la disciplina ed i stra- tagèmmi, e sanno dirigere le proprie schiere secondo che divisarono fra loro da prima. Sogliono anche con- durre alla guerra fanciulli a cavallo , e forniti d'armi onde apprendano quest'arte, e s'avvezzino al sangue, come i lupi e i leoni usano coi loro figli. I fanciulli, u:^ tamente alle donne che pur v'assistono armate, si ritirano nell'istante del pericolo, ma dopo la battaglia ricompaiono a medicare, a servire ed a confortare con carezze e parole 1 combattenti. Immenso vantaggio ap- porta la [presenza di queste persone. Non pochi , per LA CITTA' DEL SOLE. 119 far mostra di valore in faccia alle donne ed ai fan- ciulli, fanno prodigi, tentano le più rischiose imprese^ e quasi sempre l'amore gli fa uscire vittoriosi. Chi nella battaglia fu primo a superare i ripari dei nemici riceve dopo il conflitto dalle mani delle donne e dei fanciulli una corona di gramigna in mezzo agli onori di feste militari. Riporta la corona civica chi soccorse V amico^ una di quercia chi uccise il tiranno, le cui spoglie vengono a perpetua memoria del fatto appese nel tem- pio, ed il Metafisico gli sovraimpone il nome dell'a- zione. Altri ricevono altre corone. I soldati a cavallo portano una lancia e due grosse e robuste pistole so- spese alle selle, ed essendo costruite più piccole all'o- rifizio che alla base^ hanno forza di trapassare ogni più massiccia armatura di ferro. Hanno anche la spada ed il pugnale. Altri poi sono armati d' una clava di ferro , e diconsi i militi armati alla leggiera. £ per tal mòdo se r armatura del nemico resiste alla spada ed alle pistole, r assaltano colla clava, siccome Achille fece con Cigno, la sconquassano e la rovinano. Attaccate alla clavp. pendono due catene di sei palmi, aventi all'estremità palle di ferro , cosi che scagliate contro al nemico, gli cingono il collo, scuotonlo, strascinanlo ed in fine lo rovesciano; per poi con maggiore facilità maneggiare la clava, governano le redini del cavallo non colle mani ma coi piedi. Imperocché le briglie si scambiano in croce sopra gli arcioni della sella, e discendono ad assicu- rarsi non ai piedi, ma all'estremità delle staffe. Queste poi hanno esteriormente una sfera di ferro, e nel basso un triangolo. Per il che raggirando il piede sopra il triangolo sono poste in movimento le sfere , queste sti- rano le briglie, e così con mirabil prestezza gover- nano a piacimento il cavallo, volgendolo col piede destro alla parte sinistra e viceversa. Siffatto segreto è ignorato dai Tartari stessi, poiché sebbene governino le redini coi piedi, non sanno però divergere, ritrarre e rallentare il cavallo, non conoscendo l'impiego della carrucola alle staffe. I cavalieri armati alla leggiera tao LÀ CITTA' DBL SOLB. incominciano r attacco con archibugi. Seguono le fa- langi colle aste, e poscia i frombolieri moltissimo sti- mati ed avvezzi a combattere , alcuni scorrendo quasi entro alla tessitura delle file> altri avanzandosi di fronte, altri serrandosi a vicenda. Hanno anche squadre che assicurano l'esercito colle picche. Finalmente la bat* taglia viene decisa dalle spade. Terminata la guerra celebrano trionfi militari come gli antichi Romani, ed anco meglio. Si rendono grazie a Dio con preghiere, ed il sommo duce della spedizione entra nel tempio^ dove un poeta od uno storico, ch'as- sistè ai fatti, bene o male gli espone. Dopo Hoh depone una corona d' alloro sulla testa del duce, e quindi se- gue la distribuzione dei regali e degli onori ai soldati che più sonosi segnalati, e per molti giorni questi vengono dispensati d'ogni fatica, ila gli abitanti solari non amando l'ozio, impiegano queste vacanze ai soc- corso degli amici. All'opposto que'duci che furono vinti, perdettero l'occasione d'una più completa vit- toria, per colpa propria sono infamati. Il primo poi fra i soldati che prese la fuga, non può sottrarsi alla morte se non quando l'esercito intero domanda la grazia della sua vita, ed ognuno assume sopra di sé una parte del ca- stigo. Ma questa indulgenza avviene raramente, e solo quando militino speciali circostanze. È battuto colle ver- ghe ehi non soccorse l'amico, e chi si mostrò disobbe- diente è rinchiuso in un recinto ad esser divorato dalle liere ponendo a lui nelle mani un bastone, e se avrà vinto gli orsi ed 1 leoni, che colà custodisconsi, il che è quasi impossibile, è nuovamente ammesso nella società. Le città soggiogate o sottopostesi di spontanea vo- lontà, mettono tosto in comune ogni cosa, accettano guarnigioni e magistrati solari , ed a poco a poco abi- tuansi ai costumi della città del Sole, maestra di tutte, ove spediscono pure i figli, ai quali senza alcuna spesa vien data una perfetta istruzione. Opera di soverchia lunghezza sarebbe parlare degli esploratori, e dei loro maestri, delle sentinelle, de^U or* LA CmA* OBL SOL£, ili din! e d^li usi dentro e fuori della città, le quali cose fa- cilmente tu puoi immaginare, e basti r accennarti cbe vengono scelti dalla fanciullezza secondo rinclinazione individuale e la costellazione che presiedette alla loro na- spita. E quindi operando secondo il proprio naturai talento ciascuno con puntualità ed anche piacere esercita il pre- fissogli ministerio, perchè in armonia all'indole propria. Lo stesso si dica degli stratagemmi ed altre funzioni. Le quattro parti della città sono guardate giorno e notte da sentinelle, altre delle quali custodiscono l'ul- time mura del settimo giro sopra propugnacoli, torri, e tra i trincieramenti interni. Durante il giorno anche le donne prestansi a questo uffizio, ma solamente gii uo- mini nella notte, perchè non impigriscano, e prevengano una sorpresa; la durata di ogni veglia è come appresso noi di tre ore. A.1 cadere del sole, fra suoni di timpani e sinfonie, s'assegnano agli armati i luoghi da guardarsi. Amano la caccia siccome una immagine di guerra, ed air occorrenza di varie solennità si danno sulle pub- bliche piazze divertimenti a cui prendono parte uomini a piedi ed a cavallo. In questi non manca giammai la musica, ecc. Volentieri perdonano Je offese e gli errori ai nemici, e dopo la vittoria sogliono beneficarli. Ha qualora per legge di necessità debbano spianare mura o troncare teste, il decreto viene messo ad esecuzione nel di medesimo della vittoria. Dopo continuano a pro- digare ogni sorta di benefizi, e dicono doversi combat- tere un nemico non per ispegnerlo, ma perchè di- venga migliore. Se fra loro sorge alterco per ingiurie od altra causa (poiché essi quasi non conoscono dispute se non d'onore), il primate ed i magistrati puniscono il colpevole segretamente, se l'azione che costituì l'af- fronto fu l'effetto d'un primo impeto di collera: se l'in- giuria venne da parole aspettano il di della battaglia , dicendo doversi l'ira versare contro il nemico; dopo si reputa aver difeso la causa migliore e la verità quello dei due disputanti che in guerra fece mostra di maggior r^^lor^. L'aUro cede. Ma le pene sono sempre proporzlo- 122 LÀ eiTTA' niL SOLK. nate alla colpa. Non si permette mai la prolungazione de* gli sdegni sino al duello , il quale oltre che distrugge il potere dei tribunali, è anche ingiusto venendo esposta a soccombere la parte della ragione. Cosi nella città del Sole, chi si crede immeritevole d'ingiuria e professa essere migliore del suo avversario , ha facoltà di mo* s trarne le prove nella guerra pubblica. G. M. Questo torna a gran vantaggio, perchè impe- dendo gli odj particolari s'osta alia formazione dipar- titi dannosi alla patria, come pure alle cause di guerre civili da cui sovente, come in Atene e Roma, sorge il tiranno. Adesso parlami, ten prego, del lavoro. Amm. Già ti dissi aver essi comune l'arte militare, r agricoltura e la pastorizia. Gorre obbligo a tutti co- noscere queste arti giudicate nobilissime, e quindi colui che ne esercita un maggior numero è creduto posses- sore di maggior nobiltà, e chi arrivò a maggior nobiltà, e chi arrivò a maggior perfezione in alcuna d' esse . ne viene eletto maestro. Le arti più faticose otten- gono la stima più grande, come quella dei fabbro, del muratore, ecc. , e nessuno ricusa esercitarle, perchè vennervi applicati per la particolare tendenza mo- strata nella fanciullezza , ed anche perchè il lavoro è distribuito in modo che non possa giammai nuocere alla persona, anzi debba renderla e conservarla migliore. Le donne esercitano le arti meno gravose. Tutti debbono essere abili al nuoto , ed appositi serbatoi d'acqua fu- rono preparati non discosto dalia città. La mercatura è piuttosto trascurata, sebbene conoscano il valore delle monete, e fabbrichino danaro, col quale i legati e gli esplo- ratori possano procacciarsi la sussistenza in stranieri paesi. Dalle differenti parti del mondo giungono mer- canti ai Solari, che comperano il superfluo della città. Gli abitanti non ricevono danaro, ma cambiano con quelle mercanzie di cui mancano, e sovente anche le comperano con monete.^ Ma di tutto cuore ridono {fan- ciulli solari veggendo tanta abbondanza di cose lasciate per cosi scarso numero d'inezie ; non ridono però i ver- LA CITTA* DEL SOLE. 123 eia. Àffinehè poi la città non venga corrotta dai oattiri costumi dei servi e degli stranieri, fanno ogni commer- cio nei porti, e vendono i prigionieri di guerra, o li spediscono fuori della città a scavare fosse, e ad altri lavori faticosi. Alla custodia dei campi vengono conti* nuamente spediti insieme ai coltivatori quattro drap- pelli di soldati, ognuno dei quali esce per una delle quattro porte della città ^ che mettono al mare per strade costruite di mattoni , onde le cose ed i fora- sti.eri abbiano più agevole l'ingresso nella città. Que- sti sono trattati con gentilezza e magnificenza. Vi- vono per tre giornate a spese pubbliche, al primo in- contro lavano, loro i piedi, gli conducano poscia per la città; gli daiina. posto all'assemblea ed alle mense, ove . sono assistiti e serviti da apposite personel Qualora vo- lessero farsi cittadini solari sono provati per un mese ÌB campagna, per un secondo nella città ; si decidono quindi, e se avviene l'ammissione, si premettono giura- menti e cerimonie. Grandemente pregiata è l'agricoltura : ogni palmo di terra apporta profitto. Studiati i venti e le stelle, esco- no, lasciando pochi alla custodia della città, ad arare, seminare, scavare, sarchiellare, mietere, vendemmiare, accompagnandogli trombe e timpani, ed in brevissimo tempo ogni lavoro è finito, risparmiando coll'arte tempo e fatiche. Usano carri sormontati da vele, che servono anche spirando vento contrario mediante un mirabile congegnamento di ruote , e mancando il vento riesce bellissimo a vedere come un unico animale trascini un immenso e pesantissimo carro. In questo mezzo 1 drappelli custodi del territorio vanno scorrendo all'in- torno , e sovente alternansi. Non hanno l'usanza dei concimi e dei fanghi ad impinguare i campi, credendo che questi corrompano le sementi , producano biade malsane, onde resta debole o breve la vita, siccome donne che belle non per l'esercizio ma pel belletto , danno alla luce figli languidi e malconci. Quindi non gettano cosa sui terreni , ma li lavorano con assi- / 124 LA CITTA* DEL SOLE. duUà ^ f da un libro chiamato Oeorgica , apprendono que' segreti che richiedonsi per la pronta nascita e fe- lice moltiplicazione delie sementi. Si lavora solamente quella porzione di territorio che basta ai bisogni dei cittadini ^ il rimanente è lascialo al pascolo degli ani- mali. Altissima stima è fatta anche della nobile arte che ri sguarda la procreazione e l'allevamento di buoi, ca- valli» pecore, ecc. Non inviano al pascolo gli stalloni insieme alle cavalle, ma quando occorre gli accoppiano nell'atrio delle stalle campestri , e per l'oroscopo os- servano il Sagittario in buon aspetto con Marte e Giove. Per il genere bovino guardano il Toro, per le pecore TAriete , ecc., secondo la dottrina. La famiglia degli animali domestici trovasi sotto le Pleiadi. Le donne con piacere conducono al pascolo le anitre e le oche fuori della città, e là sono luoghi in cui le rin- chiudono, ed altri dove possono preparare cacio, burro, ed ogni specie di latticini. Nutrono anche abbondante numero di capponi , ecc., ed in tutto questo si perfe- zionano leggendo un libro detto Buccolica, Abbondano d'ogni cosa, desiderando ciascuno mostrarsi primo nel lavoro, perchè non faticoso, e sempre utile, e gli animi loro sono docili , ed obbediscono volentieri a chi è preside dei ministeri, e lo chiamano re. Né que- sto nome spiace loro essendo creazione degli abi- tanti solari, e non l'intendendo a modo degli igno- ranti, e certamente tu meraviglieresti vedendo l'ordine con cui uomini e donne indistintamente procedono sotto l'obbedienza del re ; e ciò fanno senza rincrescimento come appresso noi , stimandolo un padre od un fra- tello d'età maggiore. Hanno boschi e foreste abbon- danti di fiere ed animali per l'esercizio della caccia. L'arte nautica è tenuta in pregio , ed hanno navi , alcune delle quali mediante un mirabile artificio viag- giano senza vele e remi. Conoscono il corso delle stelle, il flusso ed il riflusso del mare. Navigano per acquisi^re novelle cognizioni intorno a genti» a pa^si^ LA GITtA' DSL S0L8. UH a eose. Non offendono alcuno, ma non tollerano ingiu- rie ; combattono soltanto assaliti. Dicono dovere il mondo giungere a tanta sapienza che tutti gli uomini vivranno come essi. Ammirano la religione cristiana, ed aspettano in essi e in noi l'avveramento della vita degli Apostoli. Strinsero alleanze coi Chinesi, e con varie nazioni isolane e continentali , con Siam, Gali- cuta. Cocincina , ecc«, e questo facilita Tesplorazioni., Fabbricano fuochi artificiali per battaglie di terra e di mare e possedono il segreto d'un'infinità di stratagem* mi. Quindi escono dalle guerre quasi sempre vinci* tori. G. M. Cosa gratissima mi faresti parlando dei cibi e delle bevande, e come e quanto tempo essi vivono. Amm. £ loro dottrina doversi primamente provve* dere alla vita del tutto , poi a quella delle rispettive parti. Quindi costruendo la città studiarono aver pro- pizie le quattro costellazioni di ciascuno de' quattro angoli del mondo , le quali come si è già detto si os- servano anche nella concezione d'ogni iniividuo, per- ché dicono che Iddio ha assegnato cause a tutte le cose, e che il saggio deve conoscerle » usarle e non abusarne. Essi poi nutronsi di carni, di burro, di miele, cacio, datteri e legumi di differenti specie. Un tempo non vo- levano uccidere gli animali, sembrando azione barbara, ma considerando essere pure crudeltà lo spegnere erbe che godono d'un senso e d'una vita propria , per non morire di fame, conchiusero esser state le cose igno- bili prodotte a profitto delle più nobili, ed al presente cibansi di tutti gli animali ; ma per quanto è possibile risparmiano gli utili, come buoi e cavalli. Fanno distin- zione fra cibi sani e nocevoli, e lasciansi nella scelta dirigere dal medico. Il cibo è continuamente cambiato pre sponta- neamente ai magistrati, e chiede il castigo , è liberato dalla pena del delitto occulto , la quale viene mutata in altra, qualora non fosse stato accusato. Grandissime cautele usano ad impedire la calunnia ed ogni ca- lunniatore è sottoposto alla pena del taglione. Convi- vendo sempre in molto numero, a prova d'un delitto è richiesta la testimonianza dì cinque persone, altrimenti l'accusato dopo il giuramento è lasciato libero, pre- messe però ammonizioni e minacce. Bastano tre testi- moni ed anche due per essere doppiamente punito , quando è la seconda o la terza volta, che l'accusa viene portata al giudice. Le leggi di questo popolo sono po- che, brevi, chiare, scritte sopra una tavola di bronzo pendente agli interspazi del tempio, cioè fra le colonne, sopra le quali vedonsì anche in stile metaflsico e bre- vissimo scritte le definizioni dell'essenza delle cose, che siano Dio, gli Angeli , il Mondo , le Stelle , l'Uomo , il Fato , la Virtù , ecc., e per verità con grande semio. V ha pure le definizioni di tutte le virtù , ciascuna delle quali ha un gludiVe proprio che s'asside sopra LA citta' del sole. 131 una sedia, detta tribunale, posta sotto la colonna por- tante la definizione della Virtù che deve giudicare, e rivolto al colpevole gli dice: Figlio, tu peccasti con- tro questa santa definizione ; contro la beneficenza, la magnanimità, ecc. : Legi>i ... E dopo la discussione ri • ceve la pena meritata dal suo malfare. Le condanne sono vere e sicure medicine sententi più Tamore che il castigo. G. M. Ora aggradirei che mi parlassi dei sacer- doti, dei sagriflzj , della religione e delle loro cre- denze. Amm. Tutti i primi magistrati sono sacerdoti ; Hoh n* è il supremo. Uffizio loro è purificare le coscienze. Tutti i cittadini adunque mediante la confessione auri- colare, simile alla nostra, palesano ai magistrati .le pro- prie colpe , e questi, mentre purificano le anime> co- noscono i vizj più frequenti fra il popolo. Dopo i ma- gistrati stessi confessano ai tre Triumviri i propri falli, ed espongono anche gli intesi senza fare il nome ad alcuna, ma confusamente^ e quelli che più nuocono alla repubblica. Infine i Triumviri scoprono i propri mancamenti , e quelli degli altri allo stesso Hoh , il quale conosciuti gli errori che più serpono nella città può apporvi gli opportuni rìmedj. Offre dipoi sagriflzj e preghiere a Dio, e pubblicamente nel tempio confessa dall'alto del- l'altare in faccia all'Onnipotente le colpe di tutto il popolo; però solo quando lo crede necessario per l'emen- dazione , e sempre tacendo i nomi dei peccatori. Di- poi assolve il popolo ammonendolo a guardarsi da siffatte colpe, offre un secondo sagrifizio a Dio, e ter- mina pregandolo a perdonare, ad illuminare ed a pro- teggere la città. Una volta all'anno anche i capi de! le città suddite, insieme ai propri , confessano i falli dei loro concittadini alla presenza di Hoh, perchè li conosf a e rimedi ai mali delle Provincie. 11 sagrifizio è fatto nel modo seguente. Hoh donian l;i al popolo congregato quale fra tanti sia disposto a sa^ 132 LA citta' del sole. griflcarsi pei suoi confratelli, e chi è più perfetto spon- taneamente si offre. Allora, premesse le preci e le ce- rìinoiiie, viene posto sopra una tavola quadrata alia quale mediante fibbie sono attaccate quattro funi, che discendono da quattro carrucole, infisse nel muro della piccola vòlta, e supplicato il Dio della misericordia che degni accettare quel sagrifizio umano e spontaneo, non brutale ed involontario come appresso i Gentili , Hoh comanda che le funi vengano tirate, e la vittima giunge al centro della piccola vòlta, e quivi s'abban- dona al più fervente pregare. I sacerdoti che abitano airintorno per una finestra gli somministrano il cibo, ma scarsamente, finché sia compita la purificazione della città, e dopo trenta o quaranta giorni calmato lo sde- gno di Dio con preci e con digiuni egli o si fa sacer- dote, ovvero, il che rarissime volte avviene, ritorna al primo stato, ma discendendo per il cammino esterno dei sacerdoti. E in appresso questo uomo gode la stima e l'amore universale, perchè non esitò morire pei bene della patria. Iddio poi non vuole la morte di chicches- sia. I sacerdoti che al numero di ventiquattro abitano l'alto del tempio cantano quattro volte al giorno salmi a Dio, cioè a mezzanotte, a mezzogiorno, al mattino ed alla sera. Principale uffizio spetta ad essi studiare le stelle, i loro movimenti cogli astrolabi, ^ rilevarne ie inlluenze e le attinenze colle cose umane. Cono- scono quindi 1 mutamenti avvenuti , o che debbono accadere in una particolare regione, ad un dato tempo, e tengono conto delle predizioni sì avverate come fallite mediante esploratori inviati ai paesi indicati, onde pos- sano dopo ripetute esperienze predire senza timore d'in- gannarsi. Essi determinano l'ora della generazione , i giorni delia seminagione , della vendemmia , della rac- colta, e sono quasi internunzj, intercessori e legami ciie uniscono gli uomini a Dio, e la maggior parte de- gli Hoh viene presa fra loro. Scrivono inoltre i fatti degni di storia od affaticansi al perfezionamento di tutte le scienze. Solo pel pranzo e per la cena discendono ; tA AlTTA^ DfiL àOLfi. 1^3 iiàano rarissime volte colle donne, ed unicamente a ti- tolo di medicina. Hoh sale a consultargli giornalmente intorno a quanto scopersero e studiarono a benefizio di tutte le nazioni dell'universo. Un uomo del popolo continuamente resta nel tempio a pregare innanzi airaltare, e dopo un'ora gli succede un altro, come costumiamo noi nella solennità delle quarant'ore, e siffatto modo d'orare è detto sagri Azio perpetuo. Dopo il cibo ringraziano Iddio con suoni mu- sicali, ed anche cantano le gesta degli eroi cristiani , ebrei, gentili e di tutte le nazioni, e ciò con immenso loro piacere perchè non portano odio ad alcuna gente. Cantano pure inni all'amore, alla sapienza ed a tutte le virtù. Sotto la direzione del proprio re ciascuno sce- glie la donna che più gli va a genio , e tra i peristili Rsercitansi ad onesta e gioconda danza. Le donne por- tano i capelli lunghi uniti, in modo che formano una treccia sola colla quale attorniano il capo , gli uomini poi hanno un ciuffo solamente nel mezzo della tèsta, e tagliano tutti gli altri capelli all'intorno e portano una specie di cappuccio rotondo alquanto più rilevato della forma del capo. Nella campagna coprono la testa con cappelli , nella città con berretti bianchi o rossi, od a vari colori se- condo Tarte od il ministerio. l magistrati gli hanno più grandi e meglio guarniti. Con grande solennità ce- lebrano i giorni festivi, e questi occorrono quando il sole entra nei quattro cardini del mondo, nel Cancro, nella Libbra, nel Capricorno, nell* Ariete, e rappresen- tano azioni istruttive e quasi comiche. È pure giorno festivo ogni plenilunio e novilunio, come pure l'anniver- sario della fondazione della città, quello d'una vitto- ria, ecc., e questi si celebrano con suoni di trombe e timpani, e con femminili canti. I poeti cantano le lodi dei più illustri guerrieri. Però chi mente, eziandio enco- miando, è punito. Non è creduto degno delia nobile arte di poetare chi nelle sue invenzioni fa entrare la men- zogna, e dicono essere questo abuso una delle somm^ U4 LA CITTA* DEL SOLfi. pesti del genere umano, togliendo il premio alla virtù per porgerlo sovente al vizio, e qui si sempre per ti- more, ambizione, adulazione od avarizia. Non s'innal- zano statue ad onore d'alcuno se non dopo morto. Però chi avesse ritrovato nuove arti, o scoperto segreti uti- lissimi, ovvero apportato sommi beneflzj civili o mili- tari, ottiene d'essere inscritto anche vivendo sul libro degli eroi. Le spoglie dei defunti non si seppelliscono, ma si abbruciano, perchè non cagionino pesti, e si con- vertano in fuoco, materia nobile e vivente che discende dal sole per risalire al sole, ed anche perchè sia impe- dita ogni ragione d'idolatria. Ogni volta che fanno orazione si rivolgono ai quat- tro angoli del mondo; al mattino guardano prima al- l'oriente, poi airoccidente , indi al mezzodì. Non reci- tano che una sola preghiera con cui domandano sanitfi di corpo e di mente^ felicità a sé ed a tutte le genti , e terminano: come sembra meglio a Dìo. Ma la pre- ghiera pubblica dura lungamente^ e si solleva al cielo. L'altare è rotondo, e vi si va per quattro cammini clie s'incrociano ad angoli retti. Hoh s'affaccia succes- sivamente a ciascuno, dopo si prostra e prega cogli occhi rìsguardanti il cielo. Questa cerimonia è stimata siccome un gran mistero. Le vestì pontificali per bel- lezza e magnificenza assomigliano quelle di Aronne. Imi- tano la natura, e rendono meravigliosa l'arte. Dividono il tempo secondo l'anno tropico, non secondo il sidereo, ma ogni anno notano quanto uno anticipò l'al- tro. Credono che il sole continuamente s'avvicini alla terra e percorrendo men ampi cerchj giunga nel pre- sente anno ai tropici ed agli equinozi più prestamente che nel passato. I mesi si contano col corso lunare, col solare Tanno, non mettongli quindi d' accordo sino al decimonono anno in cui anche il capo del drago termina il suo corso. E perciò fondarono una nuova astronomia. Lo- dano Tolomeo, ammirano Copernico, quantunque ante- pongano Aristarco e Filolao, ma dicono, che uno nota LA citta' del sole. 13o con pielruzze, Taltro con fave, iiessmio secondo il vero ; danno quindi moneta ideale e non reale. A questo stu- dio dunque pongono la piii seria applicazione. Lo re- putano di tutta uecessilà se vuoisi conoscere come sia composto e costruito il mondo , se de^a o no iperire ed in qiial tempo, e pienamente credono airoracolo di Oesù Cripto Intorno all'apparizione futura dei se$;Ai nel sole, neUa Juna e nelle Sitelle ; molti stolti nella joro ignoranza danno a queste cose il nome di favole , ma costoFO saranno sorpresi dall'ultimo giorno del monio come dal ladro notturno. Aspettano dunque la rinno- vazione del secolo e forse ancbe il termine. Dicono regnare moltissima oscuri^ Sruir origine dei mondo, se sia stato fjtto dal nuUa, ovvero dalie rovine d'aJUri mondi o dal caos, ma giudicano verosiaille, anzi certo, cbe fu ritto, e non sia eterno. Sprezzano quindi TopiiQÀane d'Aristotile, che chiamano logico , non filo- sofo. ]E dall'anomalie astronomiche deducono moltissiflii a/gOkHUMiti contro l'eternitò, dell'universo. Essi onorano, BOiu adorano il sole, le stelle, siccome cose viventi, sta- tue e tempi di Dio ed altari animati del cielo. Prima d'ogni cosa creata stimano il sole, ma non ne degnano alcuna del culto di Latria, Questo (^ unicamente riser- bato a Dio, a lui solo servono onde per la legge del taglione non cadano sotto la tirannide e la miseria. Nel sole contemplano l'immagine di Dio, e lo nominano ec- celso volto dell'Onnipotente, statua viva , fonte d' ogni luce, caloce, vita e feliciti d'ogni cosa. L'altare qu'ndi Sii. eretto a somiglianza del soie , ed in lui i siccrdoU adorano Dio, e raffigurano nel cielo un tempio , nelle stelle altari, ed anche case viventi d'angeli buoni, no- stri intercessori appresso Dio, che fece principale mo- stra di sue bellezze nel cielo, e nel sole suo trofeo e statua. Negano gli eccentrici e gli epicicli di Tolomeo e di Copernico. Asseriscono essere unico il cielo, ed i pia- neti muoversi ed elevarsi per forze proprie quando s'av- vicinano e si uniscono al sole, e quindi innalzarsi con 436 LA citta' del sole. maggiore lentezza dovendo percorrere un cerchio sem- pre più ampio, e professano mille altre opinioni astro- nomiche che quasi tutte sono in opposizione a quelle che volgarmente si sanno. Assegnano due prìncipi fisici alle cose terrestri, cioè il sole padre e la terra madre. Dicono essere l'aria una porzione impura di cielo, ed il fuoco derivare piena- mente da! sole; il mare poi scaturire dal sudore della terra ardente e fusa, e costituire un mezzo d'unione fra l'aria e la terra, come il sangue ne forma uno fra gli spiriti ed i corpi animati. Credono essere il mondo un grande animale, e noi vivere nel suo ventre come i vermi nel nostro, e perciò che noi non apparte- niamo a quella provvidenza che è propria delle stelle , del sole e della terra, ma soltanto a quella di Dio, poi- ché rispetto ad esse intese ad altro scopo, noi siamo unicamente una loro amplificazione, nati e viventi a caso, ma rispetto a Dio, di cui quelle cose sono istru- menti , noi fummo creati con prescienza ed ordine , e destinati ad un gran fine. Noi quindi soltanto a Dio dobbiamo gratitudine come ad un padre, e Dio solo deve essere da noi riconosciuto qual autore e datore d*ogni cosa. Credono all'immortalità, dell'anime, ed alla loro asso- ciazione dopo la uscita dal corpo cogli angeli buoni o cattivi, secondo le azioni della presente vita, e questo perchè le cose simili amano i loro simili. Dififerente della nostra è la loro opinione intorno ai luoghi delle pene e dei premj. Dubitano se esistano altri mondi fuori del nostro. Credono mentecatto chi asserisce essere il vuoto', poiché dicono che esso non può esistere né dentro né fuori dei mondo, e Dio, ente infinito, non tol- lerare con sé un vuoto : ricusano però di concepire un infinito corporeo. Essi ammettono due principi metafisici , l'Ente cioè , che è Dio supremo , ed il Niente , che è la mancanza d'entità, ed il termine dal quale fisicamente si produce qualche cosa, perché non si fa ciò che esiste , dunque LA citta' del sole.* i37 non esisteva ciò che fu fatto. Cosi pure dall'Ente e dal Niente prende essenza Tessere finito. Parimente dalla tendenza al non essere trae origine il ma e ed il pec- cato. Il peccato quindi ha una causa di deficienza e non di efficienza. Per causa deficiente intendono la mancanza di potenza o di sapienza o di volontà. In questa ultima soltanto collocano il peccato, poiché chi sa e può beneficare, debbe anche volerlo, nascendo la volontà dalle due prime, e non quelle da questa. Essi adorano Dio nella trinità , e ciò fa meraviglia , ma di- cono che Dio è somma Potenza dalla quale procede la Somma Sapienza, che insieme è pure Dio , e da ambe- due poi l'Amore^ che è Potenza e Sapienza , quantun- que il procedente non abbi^ l'essenza di quello da cui procede e non recede. Non hanno però distinte nozioni delle tre nominate persone, come i cristiani, non avendo essi avuto rivelazione, ma conoscono esservi in Dio procedimento e relazione propria a sé, dentro a sé e per sé. Tutti gli enti quindi derivano l'essenza dalla Potenza, Sapienza ed Amore in quanto hanno Tessere; e dall'Impotenza, Ignoranza e Disamore in quanto par- tecipano al non essere; e per le prime acquistano me- rito, per le seconde peccano, sia con errori naturali ori- ginati dalle due prime, sia con offese contro il costume e l'arte derivanti da tutte tre, o soltanto dal tejrzo , e perciò anche una speciale natura pecca per ignoranza ed impotenza quando produce un mostro. Del resto tutto questo è preconosciuto ed ordinato da Dio, nemico d' ogni nulla e forza potentissima , sa- pientissima ed ottima. Ente alcuno non peccando in Dio, pecca fuori di Dio; ma fuori di Dio é impossibile andare se non da noi, e per riguardo nostro^ non già a causa di lai, e per riguardo suo, perchè in noi v'ha deficienza, in Dio efficienza. Il peccato adunque è atto di Dio in quanto ha non entità, e solo deficienza nella quale consiste T essenza del peccato , è dentro noi ed opera nostra, i quali tendiamo per una forza di disor- dine al non essere. I3S LA citta' del sole. Ci, M. Capperi, *son ben profondi! Amm. Oli ì se mi ricordassi d' ogni cosa, e non mi stesse a cuore la partenza, e più se nulla temessi , ti direi altro e ben più mirabile, ma perdo la nave se non m'affretto a prendere il largo. G. M. Ten prego ; rispondi a questa unica domanda : Glie dicon essi del peccato d'Adamo? Amm. Essi sinceramente confessano esservi molta ini- quità neir universo , e non essere gli uomini gover- nati da superiori e vere ragioni; vivere intCelici e non ascoltati i baoni ; trionfare i perversi , sebbene cliia- mino miserabile siffatto trionfo, non avendo nulla di pi ILI vano e di più spregevole che il volersi mo&trare ciò che in realttà altri non è, a non oienita d' essere , come tanti che eh ia man si re, sapienti, gmerrieri o santi. Argomentsmo quindi essere stato per ignota causa un gran disordine nelle cose umane. £ sulle prime incli- navano a credere con Platone aviere negli antichi tempi i mondi celesti subita una rivoluzione dal presente Occidente verso la parte ora chiamata Omcinte , e di poi essersi diretti verso la parte opposta. Soggiun- gono essere stato possibile che il g&yeirao di quaggiù « sia stato affidato a qualche Nume iAfeari6»ne, « tàò per- messo dal Dio Supremo, ma giudicano stolt«»i:a raffer- marlo assolutamente : e più stolto Tassorke aiv«re ^ma eoa massima eqjiità regnato Saturno, con minore Giove, mano mano gli altri pianeti, sebbene confessino venire l'età del mondo ordinata giusta la serie dei pianeti , e credano che dalle mutazioni degli astri dopo 1,000 o 1,600 anni possono ricevere grandi mutamenti le cose. Dicono che la presente età sembra doversi assegnare a Mercurio, quantunque modificata dalle grandi congiun- zioni e dai ritorni dell'anomalie che possiedono mn forza fatale. Affermano finalmente essere feli<^e t^el cristiano che s'accontenta credere avere tanta rivolu- zione avuta l'origine dal peccato d'Adamo. Opinano an- che i padri trasm^^ttere ai tigli più il male della «pena che della colpa , e potere questa riisalire dai Agli ai LA CITTA* DEL SOLE. 13') padri in quanto neglessero la generazione o la eserci- tarono fuori lìi tempo e di luogo, o non s'ebbe riguardo alla scelta ed all'educazione dei genitori, che pure ma- lamente produssero, peggio istruirono i figli. Ogni at- tenzione dunque viene da essi posta alla generazione ed alla educazione, e dicono ridondare a danno della repubblica sì la colpa dei padri e si la pena dei figli , come al presente il provano tutte le città piene dì mi- serie e ridotte a tale degradamento che chiamano feli- cità gli stessi mali, non avendo giammai conosciuto il vero bene , e ciò spingerebbe a credere essere V uni- verso governato dal caso. Ma chi studia la costruzione dell'universo e l'anatomia dell'uomo (eh* essi sovente esercitano sopra i cadaveri dei condannati) , ed i pia- neti, come altresì gli animali e Taso delle speciali loro parti, deve confessare ad alta voce la sapienza e la provvidenza di Dio. E debito dunque dell'uomo conse- crarsi interamente alla religione, e continuamente umi- liarsi al proprio autore , e questo non è possibile né facile se non a chi studia e conosce le opere di lui , obbedisce alle sue leggi e mette in atto la sen- tenza del filosofo : Non fare agli altri quanto non vuoi a te fatto , e quanto vuoi che a te sia fatto , tu lo fa agli altri. E quindi noi che pretendiamo dai figli e dagli uomini beni ed onori in contraccambio di pochi vantaggi che loro apportiamo , dobbiamo dare a Dio tutto, perchè tutto abbiamo da lui ricevuto, siamo tutto in lui e con lui. Gloria quindi a Dio per tutti i secoli de' secoli. G. M. In verità siccome questa gente che conosce soltanto la legge naturale, s'accosta tanto al Cristia- nesimo, il quale non aggiunge alle leggi della na- tura che i Sacramenti (conferenti forza a seguire fedel- mente quelle), cosi lo deduco un grande argomento a favore della religione cristiana, come quella ch'è Tunica vera che, tolti gii abusi, dovrà dominare tutto l'uni- verso, come insegnano e sperano i più valenti teologi. . Ed a questo proposito dicono avere gli Spagnuoli sco- 4 io LA CITTA^ DEL SOLE. perto un nuovo mondo (qaantnnqae la prima gloria si debba a Colombo, splendore di Genova), affinchè tutte le genti vangano associate sotto la medesima legge. Questi filosofi saranno dunque eletti da Dio a testimo- nianza della verità. Conosco quindi che noi ignoriamo quanto noi stessi facciamo, ma tutti istrumenti di Dio serviamo ai suoi fini, ed anche quello che per cupidi- gia di ricchezze va in traccia di nuove regioni. Altis- simi poi sono i fini di Dio. Il sole tende ad abbruciare la terra, non a produrre uomini o piante, ma Dio si serve della loro lotta per siffatte produzioni. A lui dun- que siano lodi e glorie. Amm. Oh se tu sapessi quai cose abbiano imparato dall'astrologia ed anch(' dai nostri Profeti intorno al secolo venturo ! Essi dicono che a'giorni nostri avven- gono più fatti degni di storia in cento anni che nei quattromila del mondo anterióre, che maggiore numero di libri furono pubblicati in questo ultimo secolo che nei cinquanta passati, e non cessano di encomiare Tin- venzione della stampa, della polvere da cannone e della bussola; segni particolari e istrumenti insieme deirunìo- ne di tutti gli abitanti del mondo in un solo ovile. Queste meravigliose invenzioni avvennero, aggiungono essi, mentre una grande congiunzione avea luogo nel triangolo di Cancro nell'abside dì Mercurio e dello Scor- pione sotto r influenza della Luna e di Marte , potenti in questo triangolo per le nuove scoperte di mare, alle nuove armi e ai nuovi regni. Ma quando, e non andr.^ guari, l'abside di Saturno entrerà nel Capricorno, quella di Mercurio nel Sagittario, quella dì Marte nella Ver- gine, dopo le prime e grandi congiunzioni e l'appari- zione di una nuova s'o:ia in Cassiopea, sorgerà una nuova monarchia, seguirà la piena riforma delle leggi e delle arti ; s'intenderanno profeti, e nell'universo pie- namente rigenerato la santa nazione verrà ricolma di ogni sorta di beni ; ma prima si dovrà abbattere e sra- dicare, poi edificare e piantare.... Ma ten prego lasciami partire che mi chiamano altrove mille faccende. Solo LA città' del sole. i41 sappi aver essi di già ritrovato l'arte di volare, l'unica che sembri mancare al mondo; e credono vicina la scoperta di istrumenli ottici con cui scopriransi nuove stelle, ed anche quella di istramenti acustici cosi per- fetti che con essi s'arriverà ad ascoltare la musica dei cieli. G. M. Hem! ah, ah, ah.... Tu parli benissimo, ma parmi che questa gente astrologizzi troppo. E come mai possono le stelle fare e sapere tanto ? Io ti dico che quaggiù tutto succede al tempo determinato da Dio. Amm. Essi pure mi risposero essere Dio immedia- tamente la causa di tutte le cose, ma solo come causa universale e non particolare, primitiva e non seconda- ria. Poiché Dio non mangia quando Pietro mangia; non ruba quando Paolo ruba, sebbene derivi da lui l'essenza e la facoltà di potere mangiare e rubare, come da causa immediata dalla quale dipende ogni altra più particolare che modifica Timmensità dell'azione divina. G. M. Oh come ragionano bene I I nostri dottori sco- lastici, e principalmente S. Tommaso, dicono lo stesso contro i filosofi maomettani , che professano l'opinione contraria. Amm. Dicono dunque che Dio assegnò cause uni- versali e particolari ad ogni effetto, e che le partico- lari non possono agire se non agiscono le universali. Poiché non fiorisce una pianta, se il sole non la ri- scalda davvicino. I tempi poi sono effetti ncI elle cause universali , cioè delle celesti. Noi dunque' tutti ope- riamo , operando il cielo. Le cause libere si servono del tempo a favore proprio e talvolta anche pel bene delle altre cose. Poiché l'uomo col fuoco sforza gli al- beri a fiorire , colla lampadi rischiara nell'assenza del sole la propria casa. Le cause naturali poi agiscono nel tempo. In quella maniera dunque ch'alcune cose si fanno di giorno , altre di notte ; alcune nell'inverno , altre nell'estate e nella primavera o nell'autunno, e ciò tanto dalle cause libere che dalle naturali ; cosi altre cose si fanno in questo od in un futuro secolo. E sic- J42 LÀ citta' D£L sole. come la caasa libera non è obbligata a dormire quando si fa notte , né alzarsi al venire del mattino , ma agi- sce secondo i comodi propri, approfittando deiralterna- zioni dei tempi; cosi non è obbligo a scoprire l'archi- bugio o la tipografia, quando succedono grandi sinodi nel Cancro, nelle monarchie quando in Ariete, ecc. Né possono credere aver il Sommo Pontefice ai coltissimi cristiani proibito l'astrologia, se non a quelli che ne abusano ad indovinare gli atti del libero arbitrio e uli eventi soprannaturali , mentre le stelle rispettò alfe cose soprannaturali non sono che segni , e rispetto alle cose naturali agiscono solo come cause univer- sali, sono solamente occasioni , inviti, tendenze. Poi- ché il sole al suo sorgere non ci obbliga a toglierci al letto, ma c'invita e ce ne porge tutte le comodità ; mentre la notte osta con mille incomodi al levarsi, ed è comodissima al dormire. Operando digique indiretta- mente e a caso sul libero arbitrio nell'atto che agi- scono sul corpo e sul senso corporeo affisso ad or- gani corporei ; la mente cosi viene eccitata dal senso all'amore, all'odio, all'ira ed a tutte le altre passioni , ed allora é in facoltà ancora dell'uomo il prestare as- senso, e l'opporsi all'eccitata passione. Adunque l'ere- sie, le carestie, le guerre preindicate dalle stelle, so- vente nella realtà sì verificano, perchè molti uomini lasciansi governare non dalla ragione, ma dagli appetiti sensuah, onde danno luogo a queste cose che accadono contro la ragione, s.»bbene molte volte succedono anche per avere obbedito razionalmente ad una passione, come quando si alimenta una giusta collera per intraprendere una guerra giusta. G. M. Tu continui a ragionare rettamente, e nelle tue opinioni convengonp il già citato S. Tommaso ed il nostro Sommo Pontefice, éhe permettono l' astrologia alla Tiiedicina , alla agricoltura ed alla nàutica, come anche i pronostici congetturali quando si tratta d* atti arbitrari, la quale ultima opinione é ammessa anche da tuHi gli scolastici ; ma per l'aumentare della malizia. LA CITTA DEL SOLE. 143 e per gli abusi successi proibiscono non le congetture, ina il pronostico congetturale, non perchè riesca sem- pre falso , ma perette spesso ed anche sempre perico- loso. Imperocché i principi ed i popoli che troppo con- cedono all'astrologia, pensano mali e tentano hffaì im- possibili, come lo provano Àrbace , Agatocle , Druso , Archelao, e noi pure co! tempo vedremo consimili cose avvenire ad un duce della Finlandia a ragione del pro- nostico di Ticone, e, quel ch'è più da lamentare, molti principi ingannati da cerretani, e soverchio creduli a siffatte congetture, osano mille iniquità contro i nostri Pontefici. Amm. l Solari pure dicono doversi proibire quanto è falso ovvero pericoloso, potendo essere istrumento alla rinnovazione dell'idolatria, alla distruzione delia libertà od al sovvertimento dall'ordine politico. Anzi ti dico avere di già i Solari ritrovato il modo d'evitare razione del Fato Sidereo; poiché ogni arte viene con- cessa da Dio unicamente a nostro vantaggio , quando dunque è imminente un eccUssi infausto, una malefica cometa, ecc., chiudono il minacciato dentro case bian- che impregnandone l'ambiente d' odori e d'aceto ro- sato, accendono sette torchj composti di cera ed aro- mi, e aggiungono allegra musica ed ilari conversazioni, e con ciò vengono disciolti i semi pestilenziali ema- nati dal cielo. G. M. Capperi ! queste cose son tutte eccellenti e ben applicate medicine ; il cielo agisce sopra ì corpi ; deve dunque la sua azione venire corretta da anti- doti corporei; ma non mi garba il numero delle can^ dele^ quasi che la virtù sanatrice risiedesse in un dato numero^ cosa che sa di superstizione. Amm. Certamente essi danno valore ai numeri , e s'appoggiano alla filosofia pitagorica, non so se ragio- nevolmente; né si fondano unicamente sul numero, ma sulla uie'lirin:i accompagnala da numeri. Ci. M. Ili ciò non scolgo superstizione , non co- nobceudo scrittura nò canone ecclesiastico che con- 144 LA citta' dbl sole. danni la forza dei numeri ; anzi i medici servoasi util- mente d'essi nei periodi e nelle crisi delle malattie. Inoltre sta scritto : che Iddio fece tutte le cose con peso, misura e numero; in sette giorni* creò il mondo, sette sono gli angeli sonanti le trombe, sette le tazze, sette 1 tuoni , sette 1 candelabri, sette i sigilli, sette i sacra-, menti, sette i doni dello Spirito, ecc. Onde S. Agostino, S. Ilario ed Origene ragionarono lungamente sul valore dei numeri, principalmente del settenario e del sena- rio. Non io perciò condannerei i Solari da cbe si fanno medici secondo i sogni celesti e difensori del libero ar- bitrio. Imperoccbè coi sette torcbj imitano i sette pia- neti del cielo, come Mosè colle sette lucerne, e Roma sentenziò non esservi superstizione se non quando ai soli numeri s'attribuisce ogni possanza, non alle cose numerate. Ma adesso prosiegui l'interrotto discorso. AMM. Dicono poi che i segni femminini apportano la fecondità alle regioni a cui presiedono, e quindi an- che un governo meno robusto nelle cose inferiori, cau- sando e occasionando, ed apportando ad altri comodità incomodità, ad altri togliendole. La prova ne è che il governo delle donne ha avuto la prevalenza nel no- stro secolo : nuove amazzoni sono comparse tra la Nu- bia e la Monopotapa, e in Europa noi abbiamo- ve- duto regnare Rossolane in Turchia, Buona in Polonia , Maria in Ungheria, Elisabetta in Inghilterra, Catterina in Francia, Bianca in Toscana , Margherita nel Belgio, Maria in Scozia , Isabella , che favori la scoperta del nuovo mondo, in Spagna, e un gran poeta nel nostro secolo incomincia pure dalle donne il suo canto: Le donne, i cavalier, Tarmi, gli amori. E i poeti maledici e gli eretici pel triangolo di Marte nella casa dominante di Mercurio e per l'influenza di Venere e della Luna parlano sempre di cose oscene e passionate , e gli uomini si vanno sempre più effemi- nando negli atti e nella voce, e si chiamano Vossigno- ria. In Africa ove regna l'influenza di Cancro e dello La citta* DÉIi SOLE. !4ì> scorpione, oltre le amazzoni si velono in Fez ed in Marocco dei lupanari di uomini e molte altre cose in- fami a cui il clima invita ma non sforza. Ora non per- tanto il trigono di Cancro (poiché è al tropico, e al- l'apogeo di Giove , del Sole e di Marte forma una tri- plicità) com|p d'altra parte la Luna, Marte e Venere ha favorito la scoperta di nuovi imperi , la possibilità di fare il giro del mondo e il governo delle donne ; e per Mercurio e Marte la scoperta della tipografìa e dell'ar- chibugio, senza contare che fu causa o piuttosto oc- casione agli uomini di gran mutazioni nelle leggi, sem- pre sotto la provvidenza di Dio che li invita al bene se essi non guastassero queste inclinazioni. I Solari mi scoprirono mirabili cose sul consenso delle cose cele- sti colle terrestri e colie morali, e della diffusione del cristianesimo nel nuovo moado, e delia sua stabilita in Italia e nella Spagna, come altresì della sua ruina nella Germania settentrionale, neiringhilterra , nella Scandi- navia e nella Pannonia. Ma non voglio ripetere que- sti pronostici perchè sapientemente il nostro Papa lo ha proibito. E nello stesso tempo che Xerifl e Soli introducevano mutazioni in Àfrica e in Persia, Viclefo, Hass e Lutero assalivano la religione presso di noi, e i Minimi e 1 Cappuccini la illustravano ; e mi dissero come dello stesso movimento del Cielo altri se ne ser- vono in bene, altri in male^ quantunque le eresie siano noverate dall'Apostolo tra le opere della carne, e quindi sottoposte all' influenze sensibili cagionate da Marte , Saturno e dalla Terra per la volontà che spontaneamente vi si assogetta. Solo aggiungerò che i Solari hanno tro- vata l'arte di volare, ed altre arti sotto la costituzione della Luna e di Mercurio col favore dell'abside del Sole; polche queste Stelle hanno influenza nell'aria per l'arte del volo. E ciò che producono nelle nostre re- gioni acquose pel nuoto, lo fanno nelle regioni equa- torialt nell'aria pel volo , per la posizione della terra e pel luogo più solito. E trovarono pure una nuova astronomia, perchè nell'altro emisfero dall'equiUore al* 146 LA citta' del SOLfi. l'austro nella casa del Sole vi è l'Acquario , in quella della Luna il Capricorno, ecc., e presero in senso contra- rio tutte le influenze e i segni, perchè in quelle regioni i segni si oominano altrimenti, e i pianeti altrimenti si distribuiscono che nelle nostre e nelle regioni po- lari. Non ripeterò quanto appresi da quei sapienti sulle mutazioni delle absidi e sulla eccentricità e obliquità degli equinozi, dei solstizi e dei poli, e dei segni cele- sti e dei loro incrocicchiamenti per cui agiscono nello spazio immenso della macchina del mondo, né dei rap- porti simbolici delle nostre cose con quelle che sono fuori del nostro mondo , né della rivoluzione che av- verrà dopo la grande congiunzione nell'Ariete e nella Bilancia^ segni equinoziali del ristabilimento delle mo- narchie 9 e che succederà con gran stupore dopo la gran congiunzione in conferma del decreto di chi ha stabilito la mutazione e it rinnovamento della terra. Ma tu non trattenermi più a lungo, poiché ho molte altre cose a fare , e tu sai quante faccende abbia per mano. Per ora ti basti sapere che non, di struggono, ma al contrario edificano il sistema del libero arbitrio, e dicono che se un sommo filosofo per quaranta ore venne crudelmente tormentato da' suoi nemici senza mai potergli strappare di bocca una parola su quanto essi domandavano, perché nel fondo dell'animo aveva determinato di tacere, cosi nemmeno le stelle che mo- vonsi in distanza e con lentezza non possono costrin- gerci ad azione alcuna contro nostra volontà, né val- gono poi meno a governarci o per obbligatorio de- creto di Dio perché noi siamo tanto liberi che pos- siamo bestemmiare Iddio stesso. Dio non sforza né sé né gli altri contro sé. Si può forse dividere Iddio ? Ma le stelle operando sui sensi alcune insensibili e legge- rissime modificazioni, succede che ne siano affetti prin- cipalmente coloro che seguono il senso , più che il aggio divino dei la ragione. Imperocché quella mede- sima costellazione che trasse fetidi vapori dalle cada- rveriche menti degli eretici, valse pure a produrre fra- ._J LA CITTA* DEL SOLK. i4^ granii esaiazioai dalle rette intelligenze di quelli che fondarono le religioni dei Gesuiti , dei ^Fratelli Minimi e dei Cappuccini ; ed avvenne sotto la stessa anche la scoperta del nuovo emisfero con cui Colombo e Cor- tes apersero novella arena alla propagazione della re- ligione cristiana. Ora sovrastano al mondo grandissimi eventi^ ma ne serbo a migliore opportunità Tesposizione. G. M. Rispondi almeno a questa unica domanda: Come mal senza vele e remi mettono in movimento le navi? Amm. Havvì a poppa una gran ruota in forma di ventaglio assicurata airestremità d'una pertica, la quale venendo dal lato opposto equilibrata da un appesovi carico, facilmente un fanciullo può con una sola mano innalzarla ed abbassarla. L'intero meccanismo movesi sopra un asse sostenuto da due forche. Inoltre alcuni navigli vengono messi in movimento da due ruote rag- girantisi entro Tacqua in forza di funi che partono da una gran ruota posta a prora, e le quali circondano incrocicchiandosi le ruote della poppa. Senza difficoltà messa in movimento la gran ruota/ questa fa raggirare le piccole giacenti nell'acqua , siccome vediamo avve* nire nella macchinetta che serve alle donne calabresi per attortigliare e filare il lino. G. M. Aspetta, aspetta un istante. Amm. Non posso, non posso. FINE DELLA CITTA* DEL SOLE. QUESTIONI S11LL0TTIM4 REPUBBLICi OSSIA SULLA CITTA DEL SOLE ^ QUESTIONI SULL'OTTIMA REPUBBLICA ARTICOLO PRIMO. Se a ragione e utilmente si sia aggiunta alla dottrina politica il dialogo della Città del Sole, Più difficoltà militano contro la ragionevolezza e l'utilità di una tal repubblica. 1.^ Di ciò che non esistette mai , né esisterà, né si spera che esista , è inutile e vano r occuparsene ; ma un simile modo di vivere in comune affatto esente di delitti é impossibile, né mai si è veduto, né si vedrà, dunque inutilmente ci siamo di esso occupati. Argo- mento che Luciano usava contro la repubblica di Platone. 3.^ Questa repubblica non può sussistere che in una sola città, non in un regno, poiché non si possono trovare luoghi affatto simili, adunque o sarà corrotta dai popoli soggetti, dal commercio, o dalle sedizioni che nasceranno contro una maniera di vivere si austera. 152 QUESTIONI *ò,^ Questa repubblica vien immagìaata ottima e che duri per sempre; ella prima non potrà durare per sem- pre perchè necessariamente essa dovrà corrompersi alla fine, essere invasa dalla peste pel lungo domicilio non essendo purificata dal vento , dalla guerra , dalla fame, dalle bestie feroci, se mai potrà sfuggire alla ti- rannia interna, o infine dal troppo numero dei cittadini, come diceva Platone della sua repubblica. Secondo, non potrà essere ottima poiché necessariamente vi saranno dei delitti come dice V^^ostoìo: si discessimus quia pec- catiim non habemus , ipsi nos seducimus , e parimenti Aristotile prova che la comunanza dei beni utili e delle mogli fa viziosa una repubblica contro Platone, e quando ci sembra aver sfuggito un male ne incontriamo una moltitudine. 4.^ Quel modo di vivere è più secondo natura che è provato dall'uso di tutte le nazioni ; ma il nostro è rigettato da tutte, dunque inutilmente e leggermente ne abbiam tenuto discorso. 5.0 Nessuno vorrebbe vivere sotto leggi ed osservanze cosi severe e sotto tutela dei pedagoghi e questa re- pubblica sarebbe rovesciata dagli stessi cittadini, come addivenne a molti ordini religiosi viventi in comunità. 6.0 È naturale agli uomini lo studiare le opere di Dio, il viaggiare pel mondo, cercare dovunque le scienze, far esperienza di tutto ; ma gli abitanti di una tal re- pubblica sarebbero come i monaci che non studiano che sui libri, e quando intendono qualche cosa che in essi non si trova si scandalizzano e si conturbano; come ora appena credono alle osservazioni di Galileo , e anteriormente che Colombo avesse trovato un nuovo emisfero, perchè S. Agostino lo nega. Ma, rispondendo prima in generale, in nostro favore sta l'esempio di Tommaso Moro , martire recente , che scrisse la sua repubUca Utopia imaginaria, sul cui esempio noi abbiamo trovate le istituzioni dt'Ua nostra ; e Pla- tone i>arimeate presentò un' idea della repubblica, che sebbene , eome dicono i teologi , ilell*;* iiatuia corrotUi sull'ottima repubblica. 153 non può essere in tutte le parti posta in pratica, pure nello stato d' innocenza avrebbe ottimamente potuto sussistere, e Cristo appunto ci richiama allo stato d'innocenza. Aristotile istituì nello stesso modo la sua repubblica e molti altri filosofi. I principi parimente pro- mulgano leggi che credono esser ottime ; non perchè s'imaginino che nessuno le trasgredirà, ma perchè pensano che faranno felice chi le osserva. JE S. Tom- maso insegna che i religiosi non sono tenuti sotto pena di peccato ad osservare quanto vien prescritto nella regola, ma solo le cose più essenziali, quantunque sa- rebbero più felici osservandole tutte : devono vivere secondo la regola cioè adattare per quanto possono comodamente la loro vita alla regola. Mosè promulgò leggi date da Dio e istituì un'ottima repubblica, e fin- ché gli Ebrei vissero a norma della medesima fiorirono ; quando poi non ne osservarono le leggi decaddero. Così i retori stabiliscono le ottime regole di un buon discorso privo di ogni difetto. Cosi i filosofi imaginano uà poema senza pecca , e tuttavia alcun poeta non sfugge ogni pecca. Cosi i teologi descrivono la vita dei santi, e nes- suno o pochi di loro la imita. Qual nazione poi o qual individuo potè imitare la vita di Cristo senza peccato? Furono per questo scritti inutilmente gli Evangeli? non mai: ma perche facciamo ogni sforzo per accostarci il più che possiamo ai medesimi. Cristo stabi4i una re- pubblica eccellentissima, priva d'ogni peccato che gii apostoli appena osservarono intieramente, poi dal po- polo passò al clero, e finalmente ai soli monaci; e in questi ora persevera in alcuni, negli altri poi vedi ben pochi istituti conservarsi in armonia colia medesima. — Noi poi presentiamo la nostra repubblica non come data da Dio ma come un trovato filosofico e della ragione umana per dimostrare che la verità àe\ Vangelo è con- forme alla natura. Che se in alcune cose ci scostiamo dal Vangelo , o sembriamo scostarci , ciò non si deve ascrivere ad empietà , ma alla debolezza umana che priva di rivelazione i)ens:i molle cose essere giuste , 154 QUESTIONI che al lume della medesima non sono tali, come direoM) della comunità dei matrimoni; e per questo abbiamo supposta la nostra repubblica nel gentilesimo che aspetta la rivelazione di una vita migliore, e vivendo secondo i dettami della ragione merita di averla. Quindi sono come catecumeni della vita cristiana; perciò dice Cirillo contro Giuliano: che ai gentili fu data la filosofia come catechismo. per la fede cristiana. Noi poi ammaestriamo i gentili perchè vivano rettamente se non vogliono es- sere abbandonati da Dio, e persuadiamo i cristiani che la vita di Cristo è conforme alia natura prendendo da questa repubblica l'esempio, come S. Clemente romano dalla repubblica socratica, e come fecero e il Crisostomo e S. Ambrogio. Egli è poi chiaro come con questa maniera di vivere vengano tolti tutti i vizi, poiché né i magistrati hanno ragioni di ambire i posti, e tutti gli abusi che nascono, sia dalla successione, sia dall'elezione, sia dalla sorte, stabilendo noi una specie di repubblica come quella delle grue e delle api celebrate da S. Ambrogio; cosi pure vengono tolte le sedizioni dei sudditi, che nascono sia dall' insolenza dei magistrati , sia dalla licenza di que- sti, dalla povertà, o dalla troppa abbiezione ed op- pressione. Cosi tutti i mali che nascono dai due opposti , dalie ricchezze e dalla povertà., e che Platone e Salomone con- siderano come l'origine dei mali della repubblica: cioè r avarizia, l' adulazione, la frode, i furti, la sordidezza dalla povertà : la rapina, 1* arroganza, la superbia, l* o- stentazione, V oziosità, ecc. , dalle ricchezze, Cosi si distruggono 1 vizi che nascono dall'abuso dell'amore, come gli adulteri; la fornicazione, la sodo- mia, gli aborti, la gelosia, le discordie domestiche, ecc. Così i mali che procedono dal troppo amore dei figli delle consorti; e la proprietà che tronca, come dice Sant'Agostino, le forze della carità, e l'amor proprio cagione di tutti i mali, come dice Santa Caterina in un dialogo; da qui 1' avarizia, T usura, T illiberalità,, l' odio sull'ottima repubblica. i58 del prossimo , Y invidia verso 1 ricebi e i grandi : noi accresciamo l'amore delia comunità e togliamo gli od) che nascono dall'avarizia, radice di ogni male, cosi le liti, le frodi, le false testimonianze, ecc. Cosi tutti i mali del corpo e dell' anima che nascono dal troppo lavoro nel povero, o dall' ozio nei ricchi, mentre da noi si scompartono le fatiche egualmente. Cosi i mali che vengono dall' ozio nelle donne, e che corrompono la generazione e la salute del corpo e dello spirito, mentre noi le occupiamo di esercizi e delle virtù ad esse confacenti. Cosi i mali che nascono dall'ignoranza e dalia stol- tezza, mentre nella nostra repubblica si vede tanta espe- rienza di dottrina in ogni cosa, e nella stessa fabbrica della città, ove con imagini e pitture a chi solo vi ri- guardi si inseguano tutte le scienze quasi in un modo storico. Cosi vien provveduto meravigliosamente contro la corruzione delle leggi. Finalmente siccome abbiamo sfuggito in ogni cosa gli estremi e ridotto tutte le cose a giusto mezzo, in cui sta la virtù, non può imaginarsi una repubblica più fe- lice e più facile. E finalmente tutti i difetti che si sono notati nelle repubbliche di Minosse, di Licurgo, di So- lone, di Caronda, di Romolo, di Platone, di Aristotile e di altri autori, nella nostra repubblica, a chi ben vi guarda, non vi si trovano , e felicemente si è provve- duto a tutto, poiché essa è dedotta dalla dottrina delle primalità metafisiche, colle quali nulla vien negletto od ommesso. Ora alla prima difficoltà si è risposto che se non si può raggiungere esattamente l'idea di una tal repubblica, non per questo si è scritto inutilmente, mentre si propone un esemplare da imitarsi per quanto si può. Ma che essa sia pur possibile lo mostra e la vita dei primi cri- stiani in cui la comunanza fu stabilita sotto gli apo- stoli secondo testifica S. Luca e S. Clemente. E in Ales- sandria si é osservalo V islesso modo di vivere sotto ÌS6 QUESTIONI s. Marco , come testiflcan Filone e S. Girolamo. Tale fu la vita del clero fino ad Urbano I ed anche sotto S. Ago- stino ; e tale ora è la vita dei monaci, che S. Grisostomo desidera, come possibile, introdotta in tutta la città di Costantinopoli, e che io spero doversi »in futuro rea- lizzare dopo la ruina dell'Anticristo, come ne* miei pro- fetali. Chi poi aristotelìzzando la nega, è però costretto ad ammetterla possìbile nello stato di innocenza , seb- bene non di presente. Ma i padri la suppongono pra- ticabile anche ora , poiché Cristo ci ha ridotti a quel primo stato. E mentre Luciano, gentile e ateista, deride Platone per aver imaginato una repubblica impossibile, S. Clemente, Ambrogio e Grisostomo lo lodano, e que- sti per dottrina e per santità sono bene da anteporsi a mille Luciani. Alla seconda obbiezione. Noi abbiamo per questo at' tribuito un tal modo di vivere solo alla capitale. I vil- laggi poi imiteranno un tal modo o in parte, o nel tutto, quando più di essi si uniranno a formare una provin- cia. Luoghi adatti poi si troveranno facilmente, e dove manchino varieremo la forma, in modo che nel più alto del monte sia il capo della città, nelle appendici semi- circolari poi le abitazioni, e al piano il nostro modello sarà pur buono , se non vi si oppone il fango , che si può schivare selciando le vie e scavando acquedotti. Perchè poi gli abitanti non siano corrotti dal commer- cio si è provveduto nel testo coi magistrati a ciò de- putati, ed a fuggire le sedizioni esterne valgono le roc- che ben munite della metropoli e le milizie che per- corrono di continuo per la difesa dell* impero, e più la probità della città dominante, il servire alla quale è una felicità come per gli ignoranti è bene servire al sapiente e al probo e più coli* opinione di probità che colla forza Roma accrebbe V impero , e sotto Pompilio stimarono nefando usare dei mezzi contrari alla virtù contra i nemici. Alla terza obbiezione. Essa durerà Ano ad uno dei periodi generali delle cose umane che dan origina dA àULL'OTTIJCA REPUBfeLltA. ìHf tìn nuovo secolo. Poiché quanto alla peste, alle Aere , alla fame, alla guerra, abbiamo provveduto ottimamente per quanto si può colla virtù o almeno assai meglio di quel che si soglia fare altrove, poiché i venti per le quattro vie maggiori purgano la cittn, e dove sono im- pediti dalle case suppliscono le finestre, poste in modo da chiudersi alle cattive esalazioni e da aprirsi alle sa- lubri. Quanto al numero degli abitanti vedi la metafì- sica. Dico questa essefe una via ottima e di cui si deve più aver cura che della durata. Certo vi saranno dei peccati, ma non gravi, come negli altri Stati o almeno non tali che minino la repubblica come risulta dagli or- dini stabiliti. Ciò poi che Aristotile obbietta ad una tale repubblica verrà sciolto nei susseguenti articoli. Alla quarta obbiezione. Dico che tal repubblica, come il secolo d' oro, vien jda tutti desiderata e chiesta da Dio quando si domanda che la sua volontà sia fatta cosi in cielo come in terra. Non vien però praticata per la malizia dei principi che a sé non ali' impero della somma ragione sottomettono ì popoli. Dall'uso poi e dall'esperienza è provato essere possibile quanto ab- biam detto; come è più secondo natura il vivere con- forme alla ragione che all' affetto sensuale , e virtuo- samente di quel che viziosamente, secondo Crisostomo. E i monaci sono di ciò una prova, e ora gli anabatisti, che vivono in comune, che se ritenessero i veri dogmi della fede, più profitterebbero in questo modo di vita ; e volesse il cielo che non fossero eretici , e praticas- sero la giustizia come noi professiamo : che sarebbero un esempio della sua verità; ma non so per qual stol- tezza rifiutano il migliore. Alla quinta obbiezione. Ella è anzi una somma feli- cità il vivere virtuosamente, come dice Crisostomo, e dove commettendo errore sei tosto corretto, avanti che sopporti gli effetti dell' errore. La licenza é causa dei mali, ed è felice qu-rlla necessità che ci sforza al bene. Ma, a noi avvezzi al male, sembra duro questo genere di vlla^ come ai giuocatori e ai discoli la vita dei buoni 188 QXJBStlONl cittadini : e à questi la vita dei monaci. Ma provate, é vedrete i religiosi non mai per la severità della disci- plina si rivoltano, ma se avviene è pel commercio dei laici, per T ambizione degli onori e l'amore della pro- prietà per libidine , ma nella nostra repubblica si è provveduto e sfuggito tutte queste cagioni. Dunque non prova r esempio di quelli. Alla sesta obbiezione. Noi anzi cerchiamo di far te- soro per la nostra repubblica dello osservazioni del- l' esperienza, della scienza di tutta la terra, e a questo fine abbiamo stabilito peregrinazioni, comunicazioni di commercio e ambasciate. Né i monaci si privano di que- sti beni mutando spesso città e provincia, né r igno- ranza dell' «'sperienza si dà a vedere nei migliori mo- naci, ma solo nei volgari. Le loro querele poi giovano perché meglio si discutono le cose^ e si rischiarano, e alla fine si acquietano pure tutti i virtuosi. £ tu non troverai che in alcun luogo più si sia fatto per la dot- trina e la conservazione delle scienze che negU ordini dei monaci e dei frati. £ i monaci antropomorfiti , in- sorti contra Origene ad istigazione del maligno Teofilo patriarca, non ottennero nulla dopo uh esatto esame. Ma é chiaro che tali sedizioni non avverranno nella città del Sole. Il monachismo é stato ritrovato per l'au- mento della santità e della scienza , non per rendere pesante la sudditanza, come pretendono gli ipocriti. ARTICOLO SECONDO. Se sia più conforme alta natura 5 e più utile alla con- servazione e ali* aumento della repubblica e deipartico- lari^ la comunanza dei beni esterni come sostengono Socrate e Platone ^ oppure la divisione difesa da Ari- stotile, Prima obbiezione. Contro la comunanza dei beni Ari- stotile nel 2.^ libro della Politica argomenta in questo modo : o in questa 6omananza> dice, i campi sarebbero .« J $ULL*OTTlltA REPUBBLICA. 1^9 propri e i frutti comuni o viceversa, o sì gli uni clie gli altri comuni. Nel primo caso chi avesse più suolo dovrebbe più lavorare per coltivarlo , e avere egual parte di frutti con quelli che non lavorano , e da qui nascerebbero discordie e mina. Nel secondo caso nes- suno sarebbe stimolalo al lavoro , e i campi sarebbero mal coltivati , poiché ognuno pensa più a sé che alle cose comuni, e dove v'è una moltitudine di servi il servizio è peggiore , mentre ognuno rimette suir altro il lavoro che dovrebbe fare. Nel terzo caso avverrebbe Io stesso e inoltre un nuovo male, poiché ognuno vor- rebbe avere la migliore e la più gran parte nei frutti , e la minore nelle fatiche, e quindi invece deli* amicizia, non vi sarebbe che discordia e frode. Seconda obbiezione. Contro la comunanza dei beni utili si obbietta essere necessarie più classi di persone pel buon governo della repubblica, come soldati, artefici e governatori, secondo Socrate: che se tutte le cose fos- sero comuni, ognuno rifiuterebbe le fatiche dell' agri- coltore, e vorrebbe esser soldato e in tempo di guerra vorrebbe essere agricoltore, e non combatterebbe senza stipendio ; o meglio ancora tutti vorrebbero essere ret- tori , giudici sacerdoti. Cosi onorando alcuni , si ag- graverebbero gli altri, aggravando i primi di minor la- voro, e quindi vi sarebbe ancora deir ingiustizia, come per lo innanzi; è dunque meglio dividere i beni. Terza obbiezione. La comunanza distrugge la libera- lità e la facoltà di esercitare r ospitalità, di soccorrere i poveri, poiché chi nulla possiede del suo non può fare alcuna di queste cose. Quarta obbiezione. È un' eresia il negare, la giustizia della divisione dei beni, come sostiene S. Agostino con- tro quelli che aveano in comune le donne e i beni e dicevano di vivere in tal modo alla maniera degli apo- stoli. E Soto nel iib. à.e Just, et Jure, dice che il con- cilio di Costanza condanna Giovanni Uss che nega po- tersi possedere qualche cosa in particolare; e Cristo disse '. reddite quce sunt CossarU CcesarL Ì6Ò QUESTIOM In contrario rispondiamo prima in generale colle j)a- role di S. Cleinente papa nell'epist. 4, e che sono ri- ferite da Graziano nel can. 2 , quest. I. — Carissirui , Taso di tutte Je cose che sono in questo mondo do- vea essere comune^ ma per iniquità, V uno disse essere sua questa cosa, l'altro quell'altra, ecc., e dice che gli apostoli hanno insegnato e vissuto in modo che tutto fosse in comune, anche le donne. E cosi insegnano tutti i Padri commentando il principio della Genesi, poiché Dio non distrihui nulla e lasciò tutto in comune agli uomini perchè crescessero, moltiplicassero e riempissero la terra. Cosi insegna Isidoro nel capo del ;«« naturale ; e che gli apostoli abbiano vissuto in tal modo e tutti i cristiani primitivi sì vede da S. Luca , S. Clemente , Tertulliano, Grisostomo , Agostino , Ambrogio , Filone , Origene ed altri; questa vita fu poi ristretta ai soli chierici che viveano in comune come testificano gli stessi e S. Girolamo, Prospero e Urbano papa e altri. Ma sotto il papa Simplicio, circa Tanno 470, fu fatta dal medesimo la divisione dei beni della Chiesa per modo che una parte toccasse al vescovo, T altra alla fabbrica, r altra al clero, ed una ai poveri. Poscia Gelasio papa poco dopo e S. Agostino non volevano ordinar chierici se non ponevano tutto in comune. Ma in seguito per non fare degli ipocriti che celavano il proprio , lo si permise, ma non volentieri. Perciò è un'eresia il con- dannare la vita comune, o il dirla contro natura. Anzi S. Agostino pensa che il togliere la proprietà è cagione di maggior splendore. Quindi si per-la presente che per la futura vita è migliore la comunanza dei beni. E S. Grisostomo insegna che questo genere di vita passò nei monaci ed egli la adotta, la insinua e la predica a tutti , e insegna neir omelia al popolo di Antiochia che nessuno è padrone de' suoi beni ma solamente è dispen- satore, come il vescovo di quelli deli i Chiesa, e quindi ogni laico il quale abusa de' suoi beni e non ne coma* nica agli altri , esser colpevole. S. Tommaso dice che siamo padroni della proprietà, non dell'uso , poi nel- SULL'omilA RBPUBBUOA. Ì6I r estremo bisogno tutte le cose sono comuni. Perciò^ se bene rifletti, una tale proprietà è piuttosto un peso per l'obbligazione di render conto della mala distribuzione, e ciò vien affermato da S. Basilio nel sermone ai ricebi, e da S. Ambrogio nel sermone 8i , e S. Crisostomo lo incalca in quasi tutte le sue omelie e particolarmente sopra S. Luca al cap. 6 ove si trovano queste parole: nemo dieat proprio a Dea pereipimw omnia : mendadi verba sunt meum et tuum. Lo stesso afferma Socrate nella Repubblica di Platone o del Timeo, lo stesso S. Ago- stino nel trattato 8.^ sopra Giovanni e il poeta Cri- stiano : Si duo de nostris toUas prommina réìfus , Praetta eessarent, pax siìie lite foret. S Ovidio nelle Metamorfosi I, pone tal vita nel secol d'oro. E Ambrogio sopra 11 salmo il8 alla lettera L, dice : Dominus noster terram hanc possessionevi omnium hominum voluit esse communem : sed avaritia possessionum jura distribuit : e nel libro de Virg, dice cbe la violenia, la strage e la guerra distribuirono le cose agli ebrei carnali, non però ai leviti, cbe figuravano il cristiane- simo e il clero. S. Clemente poi afferma che ciò fu per r iniquità dei gentili. E lo stesso S. Ambrogio nel lib. 1 degli Uffizi, cap. 28, prova colla scrittura e coir auto- rità degli storici tutte le cose essere comuni , ma per usurpazione essere state divise, e lo stesso negli Hexam, Y, insegna coir esempio della repubblica civile delle api la vita in comune^ tanto dei beni che della generazione, e coir esempio delle grue sviluppa la vita comune in una repubblica militare. E Gesù Cristo coiresempio de- gli uccelli che non hanno nulla di proprio , che non seminano né mietono, uè dividono la pastura ; eppure, come dice il giurisperito : jus naturale est id quod natura omnia animaìia docuit. Per cui egli è certissimo essere per diritto naturale tutte le cose comuni. Scoto nel 4 delle sentenze i5« risponde che la co- Moro. li 162 ~ QUESTIONI munauza è di diritto naturale nello stato di natura, ma Adamo avendo peccato fu derogato a tal diritto. Ma vana è questa risposta poiché, come dice S. Tommaso, il peccato non distrugge i beni di natura, ma solo quelli di grazia. Esso offese la natura e la ragione , ma non introdusse un nuovo diritto ; quindi se la co- munanza fu di diritto, la sola ingiustizia potè intro- durre la divisione. Perciò anche la glossa sul testo di S. Clemente dice che essa fu ìntroàotìdk: per iniquitatem, idest per jus gentium conlrarium juri naiurali. Ma come vi può essere diritto se è contrario alla natura, che è l'arte divina? Cosi il diritto sarebbe un peccato. Scoto risponde che ciò avviene per V iniquità , cioè pel pec- cato originale , ma questo commento è vano , poiché come spiegherà le parole di S. Ambrogio , che dice la divisione introdotta dall'avarizia e dalla violenza? Di più S. Clemente dice che gli Apostoli ci hanno ri- messi nello stato di jus naturale ; adunque questa che fu iniquità lo è pur ora. Gaetano insegna che fu una co- munanza naturale negativa, cioè che. la natura non in- segnò la divisione: ma non affermativaf come se avesse detto di vivere in comune e non altrimenti. E Scoto vi aderisce come al solito, ma aggiunge, come mai allora la divisione verrebbe dair iniquità e dall'avarizia, come insegnano i santi, se la comunanza nello stato di na- tura non fu che negativa? Quindi con più ragione S. Tom- maso insegna l'uso comune essere di diritto naturale; la distribuzione poi e l' acquisto della proprietà essere di diritto positivo. E questa divisione non può essere contraria alla natura, poiché questa proprietà è nel caso di necessità , e in tutto ciò che succede , il ne*- cessarlo divien comunità, come insegna parlando del- l' elemosine ; poiché tutto ciò che eccede i bisogni della persona e della natura, si deve donare, altrimenti non sarebbero condannati nel giorno del giudizio quelli che non sollevarono i bisognosi. E sebbene questa dottrina dì S. Tommaso sembri giustificare in qualche parte la divisione, non le accorda però che il diritto di distri- SULL'OTtlMA REPUBBLICA. 163 buire e di sollevare^ e resta, giusta la dottrina di S. Crisostomo , Basilio , Ambrogio e Leone papa (ser, V, de CoUectis), che i ricebi sono dispensatori non pa- droni delle cose; che se poi sono padroni, non lo sono che di distribuire e di donare, come i vescovi della parte della Chiesa ; la parte poi di cui sono padroni si limita al puro vitto e vestito. E questa parte la hanno pure i monaci , come loro la attribuisce e prova Giovanni papa XXII nelle Extrav, Poiché di diritto e non ingiu- stamente mangia il monaco e r apostolo, quindi ha V uso di diritto, non di solo fatto, giacché questo ultimo di- ritto lo ha il ladro quando mangia le cose altrui. Scoto pensa 'che questo papa errasse, ed abbia deciso ciò per odio contro i Francescani, poiché Clemente Y e Nicola III, pontefici, accordano ai Francescani soltanto l'uso di fatto, non di diritto, come un invitato a cena mangia solo di fatto non di diritto. Ma Scoto s' inganna , e in- giustamente condanna un papa, poiché quei pontefici da lui citati non distruggono il diritto di giu$ naturale, ma solo il diritto positivo, quindi S. Tommaso pensa che nelle cose che si distruggono coir uso non si può distinguere Tuso dal dominio, come si vede nel trat- tato deir usufrutto delle cose che sì consumano coU'uso (lib. 2). Perciò questi pontefici non si contraddicono tra di loro, come insegna Giovanni XXII, ma é bensì eretico chi nega l'uso di diritto agli Apostoli e a Cri- sto ; poiché allora non avrebbero mangiato di diritto, ma ingiustamente come il ladro. Il ladro ha il diritto di fatto ma nella necessità ha anche il diritto naturale. Da tutto questo risulta la solidità della dottrina dei Santi, con- tro gli sciocchi che mettono la bocca in cielo. V invi- tato mangia di diritto, e il suo titolo é la donazione, non minore dei titolo di vendita. Ma, dirai: i ricchi sono dunque obbligati alla restituzione del superfluo, a a chi? ai poveri o alia repubblica? direi alla repubblica e ai poveri, ma perché non vi é luogo a disputa poiché questi non hanno acquistato un diritto positivo, dico a Dio, a cui dovranno render ragione nel giorno finale, come insegnano S. Basilio, Ambrogio e Leone. i64 QUB8TI0M1 Adunque colla nostra repubblica vengono tranquilliz- zate le coscienze, tolta Tavarizia, radice di ogni male , e le frodi commesse nei contratti, e i furti e le rapine e la mollezza e l'oppressione dei poveri, e Tignoranza che invade anche gli ingegni meglio disposti, perchè ri- fuggono dalla fatica mentre pretendono filosofare, e le inutili cure , e le fatiche, e il danaro che mantiene i mercadanti , e la illiberalità, e la superbia^ e gli altri mali prodotti dalla divisione , e l'amor proprio, e le ini- micizie, e le invidie^ e le insidie, come si è mostrato. Di- stribuendosi gli onori secondo It^ attitudini naturali si tolgono i mali che nascono dalia successione, dall'ele- zione e dall'ambizione, come insegna S. Ambrogio par- lando della repubblica delle api , e così seguiamo la natura che è l'ottima maestra, come nelle api. E l'ele- zione di cui noi facciamo uso non è licenziosa, ma na- turale, eleggendo quelli che si distinguono per le virtù naturali e morali. Ora rispondendo in particolare alla prima obbiezione, diciamo che Aristotile commette errore spontaneamente e di mala fede, poiché anche per Platone e i fondi e i frutti e le fattcfcc sono comuni ; e nella nostra repubblica vengono distribuite dai magistrati dell' arti le fatiche secondo la capacità e la forza, ed eseguite dai capi delle arti con tutta la moltitudine , come si vede nel testo ; né da alcuno può usurparsi nulla , nutrendosi tutti a tavola comune e ricevendo le vesti dal magistrato del vestiario, secondo la qualità e le stagioni, e confòrmi alla salute ; e ciò pure si vede fare dai monaci e dagli apostoli. Quindi Aristotile ciarla inutilmente. Non hai che da esaminare nel testo il modo della distribuzione dei vestiti secondo le stagioni, le fatiche e le arti e la esecuzione , ecc. , né alcuno può far dififtcoltà , poiché tutte le cose sono fatte con ragione, anzi ognuno ama di fare ciò che è conforme alla sua disposizione na- turale, ciò che appunto praticasi nella nostra repub- blica, Alla seconda obbiezione si risponde , che ciascuno àULL*OTTIMA REPUBBLICA. idè vien applicato dai Migistrali fin (i.ill'infin^.ia, secondo le disposizioni naturali, alle varie arti, e chiunque per esperienza e per dottrina riesce ottimo , si prepone al- l'arte per cui è idoneo. Sommi magistrati poi non pos- sono divenire se non gli eccellenti , secondo V ordine notato nel testo. Quindi né il soldato vorrebbe divenir capitano , né l' agricoltore sacerdote , dandosi gli inca- richi secondo l'esperienza e la dottrina, non per favore e per parentele : ma adegu iti alle cognizioni. E ciascuno riceve Tufficio nel ramo in cui si distingue. Né i primi magistrati possono onorare gli uni e reprimere gli altri, non governando arbitrariamente , ma seguenio la na- tura, applicano ciascuno airufficio conveniente. E non possedendo nulla in proprio per cui possano violare il diritto altrui per ingraniire i figliuoli , conviene loro agir bene per essere onorati, e considerando tutti come fratelli e figli e parenti si mantiene un egual amore per tutti senza alcuna distinzione. Nessuno combatte per paga , ma per sé , pei figli e pei fratelli , né alcuno ha bisogno di stipendio , avendo ognuno da vivere bene , ma dell'onore che le azioni valorose ottengono dai fra- telli. I Romani fino alla guerra di Terracina combatte- rono senza stipendio e gareggiavano a morir per la pa- tria ; ma quando invase l'amore della proprietà, mancò a poco a poco la virtù. E Sallustio e S. Agostino inse- gnano che essi giunsero a tanto impero per l'amore defla comunità , e Catone in Sallustio dice : puhhlicoB opes et privata paupertas, foris justum imperium, intus indicendo animus Hher, neque formidini neque cupiditati ohnoxius, rem Romanam auxere. Nella nostra repubblica poi queste cose assai migliori si conservano per la co- munanza dei beni utili e onesti sotto la guida della natura. Alla terza obbiezione. Inconsiderajamenle parla Ari- stotile, e anche Scoto, per non dire* empiamente. Forse che i monaci e gli apostoli non sono liberali perchè non posseggono in proprio ? La liberalità non consiste nel dare quello che hai usurpato , ma nel porre lutto t6é OUBSTÌONI in comune , come afferma S. Tommaso. Nel testo poi vedrai come dalia repubblica si onorino gli ospiti, e come si sovvenga ai miseri per natura, poiché presso di noi non vi ha alcun misero per fortuna, essendo tutte le cose comuni, e tutti fratelli, e sono indicati i mutui uiTìci con cui si mostra la liberalità : e se ne insti dirò : che essi hanno mutata la liberalità, in beneflcenza che è alla prima superiore. Alla quarta obbiezione. Scoto argomenta con punica fede, come al solito, poiché lo stesso Agostino al cap. 4 de hcBres ; e S. Tommaso 2, 2 quest. 66, art. 2, insegna essere eretici quelli che dicono non potersi salvare co- loro che possedono in proprio qualche cosa , e pari- mente quelli che sostengono doversi usare, il vago con- cubito delle donne, ma non perchè predicanola comu- nità , che anzi è maggior eresia il negar la comunità, che gli apostoli e i monaci osservano , di quel che la divisione. Concediamo poi che la Chiesa potè accordare la divisione piuttosto tollerantemente che positivamente e direttamente. Ma , come dice S. Agostino , che pur vuole avere piuttosto chierichi zoppi che morti , cioè piuttosto proprietari che ipocriti. E lo stesso Scoto poi sostiene che la divisione fu introdotta per la negligenza con cui son trattate le cose comuni, e la cupidigia del proprio interesse, quindi da cattiva radice, e perciò la divisione non può esser buona cosa, ma solo permessa, non voluta dalla natura. Ora come ardisce poi egli chia- mar eretici quelli che seguitano la natura, e lodare quelli che predicano con Aristotile la permissione in- trodotta dalla corruttela ? Diciamo che la Chiesa può accordare la divisione e permetterla, come tolleransi le meretrici per minor male, come i zoppi piuttosto che i morti , al dire di Agostino. Il modo poi con cui vien dalla Chiesa accordata la proprietà si è spiegato che non è se non una* procura, non Tuso del superfluo, e Alessandro , Alonzo e Tommaso Yalden e Ricardo e il Panormita, pensano essere eretico chi asserisce i chia- rici essere veri padroni dei beni della Chiesa ^ e non sull'ottima repubblica. 167 accordano ai medesimi che Taso. S. Tommaso non dà. loro il dominio che della piccola porzione che consumano poiché non sono che usufruttuari dei fondi, né possono lasciargli ai figli o agli amici. Cosa poi sia dei laici si è detto superiormente. Gli ignoranti sono pronti a chia- mar eretico quello che non possono convincere colle ragioni. La parola di Cristo : Reddite quoB sunt Cwsaris Ccesari, non rende padrone il medesimo se non di di- spensare, di nulla, poiché nulla appartiene a Cesare. Che cosa ha egli che non abbia ricevuto? Tutte le cose adunque sono di Dio e a Cesare solo come ammini- nistratore. Vedi nella Monarchia del Messia , ove si è scritto di ciò. Lo stesso Cristo dice : reges gentium do- minantur eorum , vos autem non sic, sed qui maior est fiat minister: Perciò giustamente predica S. Tommaso la proprietà di amministrazione e procura la comunità dell'uso. E il papa è il servo dei servi di Dio, e l'im- peratore il servo della Chiesa. ARTICOLO TERZO. Se la comunanza delle donne sia più conforme alla natura e più utile alla generazione e quindi a tutta la repùbblica, oppure la proprietà deUe mogli e dei figli. Ad Aristotile sembra più conveniente la proprietà e nociva la comunanza a cui oppone : Prima obbiezione. Socrate pensa che V amore si ac- crescerebbe tra i cittadini da ciò che ognuno conside- rerebbe i vecchi come suoi genitori, e questi i giovani come figli, e gli eguali come fratelU, ma ciò distrugge- rebbe anzi ogni amore. Poiché o si prende quel tutti collettivamente ed è vero che tutti i vecchi sono pa- dri di tutti i giovani, ma allora l'amore di ciascun vec- chio in particolare sarebbe ben piccolo verso quelli , come una goccia di miele in molta acqua , e tosto si estinguerebbe, perché nessuno conoscerebbe i propri figli, né questi il loro padre. i#6 QUSSTIOMI In vero se si riunisce il diviso in modo che ciascuno si consideri padre di ciascuno , ciò accrescerebbe 1' a- more, ma è impossibile cbe alcuno abbia*^ più di una madre e un padre ; di più ognuno conoscerebbe i pro- pri figli dalla flsonomia e quindi avrebbe più affetto per questi. Seconda obbiezione. Nascerebbero discordie tra le donne e spesso tra i padri e i figli incerti. Terza obbiezione. Nel vago concubito non si conosce la prole ed è pur naturale all'uomo il voler conoscere la propria discendenza in cui si perpetua. Quarta obbiezione. Nascerebbero adulterìi, fornica* zione ed incesti, colle sorelle, le madri e le figlie, e le gelosie per le donne, e le contesse per quelle che vor- rebbero abbracciare. Quinta obbiezione. Scoto obbietta le parole : erunt duo in carne una ; adunque non si possono avere più mogli senza una dispensa divina. Sesta obbiezione. Fu l'eresia dei Nlcolaiti il mettere le mogli in comune. Rispondiamo prima in generale coll'autorità di S. Cle- mente nel citato canone : canjuges secundum Apostolo- rum docirinam comunes esse dehere. Ma siccome questo sarebbe contro Tonestà cristiana si deve ammettere la glossa a questo passo apposta : comunes quo ad obsc' quium non qtw ad Ihorum, E a dir vero , come testi- fica Tertulliano, cosi vissero i primi cristiani, che tutto aveano in comune tranne le donne pel talamo , poiché è palese che le donne servivano tutti. Ma i Nlcolaiti introdussero la comunità nel talamo , ed io pure con- danno questa eresia , ma sostengo la comunanza nelle funzioni, non però nel governo politico ; poiché la donna non può essere magistrato né insegnare agli uomini , ma solo tra le donne e nel ministero della generazione. Alle stesse poi son commesse le arti che si eseguiscono con poca fatica o anche la guerra nella difesa delle mura. E noi leggiamo che le donne spartane difesero la patria nell'assenza dei mariti, e le femmine tra gli ani- sull'ottuca ripubblica. 169 mali si battono come i maschi, e le amazzoni un tempo neirAsia ed ora nell'Africa fanno la guerra. Ma Gaetano liei libro de Pulchro, dice che ciò non è conforme alla natura, e perciò esse doveano tagliare la destra mam- mella per poter maneggiare la lancia. Ma io dirò forse con maggior fondamento con Galeno , che lo facevano perchè la forza che serviva a nutrire la destra mam- mella passasse a rinforzare il braccio destro. Né la de- stra mammella impedisce punto di maneggiare la lan- cia, ma solo di appoggiarla al petto. Inoltre vi sono più maniere di combattere che convengono alle donne come si vede negli Africani. Aristotile poi non potè ri- fiatare questo argomento delle amazzoni. E noi pure non le mischiamo a tutte le faccende di guerra ma solo alla difesa delle mura, ai pronti soccorsi, e non voglia- mo di esse formare una repubblica di Amazzoni, e solo le rinforziamo perchè servano alla difesa e alla prole. Aristotile rigetta l'argomento delle femmine che com- battono tra le fiere, perchè queste non hanno cura delle cose famigliari come le nostre che sole vi sono desti- nate dalla natura, ma s'inganna, poiché le fiere hanno cura dei loro piccoli , e procurano ad essi cibo e di- fesa , e viceversa molti uomini si occupano delle cose famigliari, come particolarmente i monaci; adunque non è contro natura come egli insegna. Diremo di più che la comunanza delle donne pel concubito non è contro il naturale diritto particolar- mente come fu stabilita da noi, che anzi vi è gfHHde- mente conforme * quindi non è eresia l'insegnarla in tMio stato diretto dai puri lumi naturali^ ma bensì dopo conosciuto il jm divino ed ecclesiastico positivo : come non è eresia il mangiare carni tutti i giorni e l' inse- gnare nello stato naturale che ciò è utile, ma dopo la promulgazione della legge ecclesiastica«salla proibizione dei cibi in certi giorni per l'astinenza cristiana, è un' eresia il farne uso e Tinseghare ciò esser lecito. Si prova inoltre; ogni peccato contro natura o distrugge l'individuo, o la specie, o è diretto a questa distruzione, coma insegna S. Tommaso; quindi le uccisioni, il furto , 170 QUBSTIONI la rapina, la fornicazione, l'adulterio, la sodomia, ecc., sono contro natura , perchè offendono il prossimo o impediscono la generazione o tendono a queste cose ; ma la società comune delle donne non distrugge né le persone , né impedisce la generazione , dunque non è contro Tordine, ma ai contrario giova grandemente al- l' individuo , alla generazione e alla repubblica , come appare dal testo. Si deve poi notare che vi ha tre specie di vago con- cubito; l'uno, per cui ciascuno può mischiarsi ad ognuno che desidera e come vuole, e questo é contro la natura razionale dell' uomo, quantunque sia proprio di alcune bestie , come dei cavalli , degli asini , delle capre , ecc., e quindi la natura provvide che queste bestie solo in certi tempi sentano gli stimoli alla ge- nerazione ; gli uomini poi , essendo sempre ed essa disposti, se potessero mischiarsi con ciascuna, si inde- bolirebbero di continuo, e tutti andrebbero sempre dalle più belle , e queste per la confusione dei semi e per razione contraria, non concepirebbero, come avviene alle meretrici. Le donne brutte; poi eccitate da gelosia e da dolore, macchinerebbero ogni male contro le belle. Perciò questo vago concubito é un'eresia e un' empietà contro natura, e fu appunto quella dei Gnostici e dei Nicolaiti, e di alcuni moderni eretici e alcuni religiosi della setta di Maometto nell'Africa, che tengon lecito l'unirsi a ciascuna, e anche in pubiico» L'altro geaere di concubito vago, é quello dopo le nozze legali, ragunandosi in certi tempi, e a cui nelle tenebre é lecito unirsi a quello che la sorte gli offre: come si é scoperto di recente nella Gallia e in Germa- nia in certe contrade : onde avvenne che cert' uni , ri- cevuto il segno, riconobbero di essersi uniti alle madri, e questo modo è«pure un'eresia contro natura, e certo contro tal legge divina positiva, poiché non ha per iscopo la generazione, ma la sola libidine : e l'unione vaga dell^ bestie é ancora migliore , poiché esse generano , nd ^. contro natura poiché vien prodotta la prole, ma in qae- ate unioni di eretici è solo per accidente se viene la sull'ottima rspubblica. 171 generazione, non avendo per iscopo cbe la lassuria, poiché per la generazione bastano bene i mariti a casa. Il terzo modo di concubito finalmente è quello da noi descritto in una società quasi di natura, nella quale cioè non generino se non i più robusti e i migliori, e seguendo la direzione dei medici e dei magistrati, nei tempi atti alla generazione , secondo l'astrologia , con timore e ossequio alla divinità^ e solo dopo |li anni 35 sino ai 53; alle donne pure abbiamo prescritto un tempo, quello cioè in cui sono a ciò atte, e abbiamo distrutte le unioni inconvenienti, quelle cioè che si fanno per solo ri- guardo delle ricchezze, per cui o la repubblica non ha prole dalle medesime, o ne ha una vile, deforme e imbecille , come si vede dairesperienza, e fu notato da Pitagora som- mo filosofo. Abbiamo impedita egualmente la debolezza prodotta dal troppo coito o le malattie da sterilità ; poiché se runa non concepisce con questo, può concepire con quello, e la natura ci insegna appunto in questo caso a mutare. Ciò poi che le nostre leggi hanno stabilito : che ciascuno non usi che colla propria moglie ancorché ste- rile, non può essere facilmente coi soli lumi naturali approvato dal filosofo ; perciò io non sostengo se non che gli istitutori di una repubblica colla comunanza delle donne non peccano nello stato dei puri lumi naturaK, avanti che la rivelazione insegni non doversi cosi pra- ticare. Onde Durando ed altri sostengono che nemmeno la fornicazione non è contro la legge naturale, e molti teologi confessano non essere essa proibita che per legge positiva; e la ragione di S. Tommaso che essa è contraria alla generazione e all'educazione, non vale quando si sappia che la donna è sterile. E tuttavia io sono d'accordo in ciò con S. Tommaso che con lunghe deduzioni si può ciò provare colla pura ragione , ma non però conoscere da tutti. Cosi Socrate non peccò bevendo il veleno, costretto dalla legge , quantunque i teologi provino essere peccato, polche nessuno può es- sere obbligato dalla legge ad agire contro sé stesso. Ma queste sottili deduzioni nate dalla luce evangelica non potevano essere conosciute dagli antichi filosofi che 172 QUBSTIOlfl anzi provarono essere lecito Taccidersi da sè« ed es- sere noi padroni della propria vita , come stimarono Catone^ Seneca e Gleomene. In consegaenza io sostengo che la comunità delle donne nel modo da noi posta non è contro il diritto naturale, o se lo è non può esser conosciuto dal filosofo coi soli lumi naturali, poiché ciò non si deduce direttamente dal diritto naturale , come conAusione immediata, ma solo come lontana deduzione, e piuttosto fondata sul diritto positivo, che può variare. Le ragioni poi di Aristotele non nascono dalla natura della cosa, ma da sola invidia contro Pla- . tene ; ed egli stesso ricorda molte nazioni che vissero in questo modo. Viene pure a nostro sostegno S. Tom- maso che nella 2, 2 quest. 154, art. 9 confessa che nes- suna congiunzione è contro natura, tranne quella del figlio colla madre, e del padre colla figlia; poiché gli stessi cavalli, secondo Aristotile, hanno ciò in orrore. Ed io stesso vidi a Montedoro un cavallo che non vo- leva unirsi colla madre. E non perchè non ne venga la generazione, ma per reverenza naturale. E tuttavia, secondo la testimonianza di Tolomeo, fu comune usanza tra i Persiani l'unirsi alle madri. E tra gli animali , i gallinacei e molti altri praticano lo stesso. Io tuttavia nella repubblica ho schivato che le madri si unissero ai figli , i padri alle figlie , quantunque quest'ultimo caso sia meno contro natura. Gaetano pure prova, ap- poggiato allo spirito di S. Tommaso e alia ragione na- turale, che l'unione colla sorella o cogli affini e con- sanguinei, non ò'icontro il diritto naturale, ma solo con- tro il legale ; ed essere un precetto giudiziale, non mo- rale, la proibizione degli altri gradi ; poiché i figli di Adamo si unirono colle sorelle, e Abramo e Giacobbe patriarchi, al primo dei quali Sara era sorella. E S. Tom-, maso adduce due ragioiii di queste proibizioni, cioè pel rispetto ai parenti , perchè potessero vivere insieme senza scrupolo, e perché si moltiplicassero le amicizie per mezzo dei. matrimoni , e la libidine non riescisse più dolce col proprio sangue. Ragioni che secondo Gae- tano decisero pure la legge cristiana. Ma nella repub- 1 sull'ottima rxpubbliga. 173 blica solare non avrebbero luogo, poiché le donne abi- tano separatamente e non avviene Tnnlone se non se- condo la legge, 1 tempi e i luoghi prefissi. Ciò poi che si accorda nella repubblica solare, per fuggire la sodo- mia e un mal maggiore, si accorda pure nella religione cristiana; poiché il marito può usare senza peccato della moglie ancorché gravida , per estinguere la libi- dine, e non per la generazione. Io poi provvidi affin- ché questo seme non vada perduto^ e diedi tutti i miei precetti per la conservazione della repubblica; gli altri poi non sono riprovati dagli stessi filosofi secondo il diritto naturale^ e Aristotile in grazia della salute rac- comanda il coito ai non generanti, come pure Ippocrate ed altri per ischivare mali maggiori. Ora in particolare rispondo alla printa obbiezione. Che quel tutti si può prendere nei due sensi: poi- ché tutti fino ad una certa età, determinata nel testo, sono padri di tutti collettivamente e separatamente: il primo é vero, secondo Tatto naturale, Taitro poi se- condo la carità naturale. Né da ciò vien diminuita la carità, ma solo la cupidità e l'avarizia; poiché l'uomo, regnando la divisione, é disposto ad amare i propri figli più che non conviene, e a disprezzare gli altrui oltre misura. L'u«mo saggio poi ama più i mi- gliori ancorché d'altri, ed ha maggior cura dei cattivi per migliorarli : poiché riesce spiacevole il vedere tante deformità nel genere umano, e quindi abbiamo orrore dei zoppi, dei ciechi , dei miserabili perché ~ sono del nostro genere e rappresentano a ciascuno la propria infelicità. Per la comunanza poi dei figli , dei fratelli , dei padri , delle madri, si provvede in modo da dimi- nuire il troppo amor proprio che é la cupidità, e da aumentare l'amor comune cioè la carità. Quindi S. Ago- stino disse amputano proprietaiis est augmenttim cari- tatis e si deve piuttosto credere a S. Agostino che ad Aristotele, e col primo sta pure S. Paolo che dice : ca* ritas non querit quce sua sunt , cioè antepone le cose comuni alle proprie, non le proprie alle comuni. Nel- l'unione dei monaci si vede lo stesso, poiché il mobaco 174 QUESTIONI non possedendo nulla in proprio, ama la comunità come il piede tatto il corpo; se poi possiede in pro- prio è come un membro reciso , o un piede tagliato ^ non avendo cura che di ciò che è suo. Lo stesso av- venne nella repubblica romana; quando i cittadini erano poveri e la repubblica ricca, tutti volevano morire per la patria ; quando poi i cittadini furono ricchi, ciascuno avrebbe ammazzato la patria pel proprio vantaggio. L'Apostolo adduce l'esempio delle membra e del corpo, e lo stesso insegnano Ambrogio e Crisostomo. L'amore dunque nella comunità non sarebbe come una goccia di miele in molt'acqua, ma come un piccol fuoco in molta stoppa. Poiché l'amore è una delle primalità , e di sua natura diffusivo , come il fuoco , ed esso è fe- lice nella società di molti per la fama^ la diffusione del nome, la memoria e gli ajuti più numerosi che vi riceve. — Separatamente, quantunque ciascuno non sia figlio che di un solo, può esser amato da tutti quando formano un solo nella carità. Onde lo zio ama i ni- poti quantunque da lui non generati^ perchè si considera di una stessa famiglia. E il papa e i cardinali chi non vede quanto amino i nipoti, e i consanguinei, che pure non hanno generati? E noi amiamo gli amici e i figli degli amici, e i vecchi nei monasteri amano i novizi ^ soprattutto i virtuosi; taccia adunque il nemico della carità. — La fisionomia inganna poiché i figli non ras- somigliano sempre al padre, ma sovente agli estranei; e di poco ostacolo sarebbe quella piccola propensione nella nostra repubblica ove tutto è ordinato secondo la legge di natura e del merito. Giacobbe pure amò più Giuseppe, ed altri altri; ciò non pregiudicherebbe alia comunità né alla carità; i figli qui non congiure- ranno tra di loro, vivendo tutti sotto la stessa disci- plina ; le sante donne dei patriarchi , come Rachele e Lia, tenevano come loro propri anche i figli delle an- celle, ma Aristotile non conobbe una tal carità. Alla seconda obbiezione. Si nega la conseguenza quando il tutto è governato secondo le regole e la sciena dei medici, delle matrone e dell'astrologia. Dalla n sull'ottima rbpubbliga. 175 posizione del cielo nascono e si conoscono le inclina- zioni morali , secondo S. Tommaso (PolU. 5, lect. 13). E i nostri Solari crederebbero illecito l'unirsi per puro piacere e per sanità, nei quai casi si è provveduto al- trimenti; quanto alle risse vedi il testo. Alla terza obbiezione. Essendo tutti membri di uno stesso corpo ^ considerano tutti i giovani minori per figli, e sanno di perpetuarsi meglio in quella comunità , che nei figli proprj. Inoltre, come tutti insegnano, la vita della fama procurataci dalle opere buone è da pre- ferirsi a quella che abbiamo nei figli. Cosi i filosofi si procurano figli col seme della loro dottrina, non col seme carnale. Né i pidocchi quantunque nascano da noi son nostri figli. Né i veri figli di Abramo.ora sono i giudei, ma i cristiani. L'eternità poi la cerchiamo in DiOj e per la repubblica una vita beata, come insegna Ambrogio. Né gli animali conoscono i loro figli una volta cresciuti ; né questo viene direttamente^ ma solo indirettamente da natura. Alla quarta obbiezione. Diciamo con Gaetano e S. Tom- maso, non essere incesto contro natura che quello com- messo colla madre, e noi lo schiviamo nella repubblica ; colle sorelle poi e con altre non é che legale, e dove non siavi questa legge non vi ha incesto , né alcun adulterio. Poiché l'adulterio é o naturale o legale : il naturale avviene tra animali di diversa specie , come insegna Sant' Ambrogio nel 5 Hex, cap. 3 , come tra l'asino e la cavalla : il legale è poi quando alcuno pra- tica la donna altrui, proibito dalla legge : ma nella no- stra repubblica non esiste questa legge; ma vi sono generatori pubblici più utili a questa funzione : non vi ha dunque adulterio, come non vi ha prole adulterina^ né unione illegale. Cosi tra i monaci non é un furto ove tutte le cose sono comuni , se alcuno mangia del pane. Poiché l'adulterio non consiste nella libidine, al- trimenti il marito che usa della moglie per piacere sa- rebbe adultero^ ma da ciò che si usa di donna non sua ; ma la legge ora la fa sua , e non farebbe torto alla repubblica se non usandone contro la regola ; come 176 QUBSTIONI il monaco ruba dei beni del monastero^ quando usurpa le cose comuni senza permesso. Ma, si dirà, S. Tom- maso insegna pure cbe tutti i precetti del Decalogo sono precetti naturali. Si risponde, posta la divisione: poicbè il furto non esiste se non stabilita la divisione dei beni. Altri dottori poi sostengono non tutti quei precetti essere di diritto naturale. Nella nostra repub- blica poi non Ti ba divisione di proprietà , ma solo d'uso, e a tempo per mantener l'ingegno e la forza dei cittadini. Non si conosce poi cbe la fornicazione sia peccato dalla sola natura delle cose, né nella repub- blica del Sole vi ba fornicazione, essendovi comunanza. Le altre turpitudini , la gelosia e le contese , qui non possono aver luogo ove si regolano le cose secondo una legge e lina disciplina a tutti gradevole: né ciò cbe é proprio delle bestie e di certi eretici qui non avviene; vedi il testo. Alla quinta obbiezione. Se fosse di diritto naturale l'avere una sol donna. Dio stesso non potrebbe dispen- sarci, secondo S. Tommaso. Ma Giacobbe prese due so- relle, e Davide cinque mogli, e Salomone 700, e quasi tutti i patriarchi ebbero più mogli, né si vede in ciò alcuna dispensa, quantunque comunemente si creda; egli é chiaro cbe la pluralità delle donne non é con- tro natura. E tutti gli animali, tranne forse la tortora e il colombo, cbe si unisce alla sola sorella , si con- giungono con più femmine. E in questa repubblica, cbe si governa colle leggi naturali, non colle rivelate , ciò non poteva essere conosciuto. Anzi la natura insegna a chi non genera con una, di unirsi ad un'altra : e ciò anche Sara chiese ad Abramo, come cosa naturale, se non vi sia rivelazione contraria, e Lia e Rachele die- dero al marito le proprie ancelle. E come questi Solari potrebbero sapere essere ciò contro natura quando né gli uomini né gli animali possono ciò discoprire ? Inol- tre i nostri cittadini non ne hanno né una né molte, ma nel tempo prescritto alla generazione ciascuno si avvicina a quella che la legge gli destina pel bene della repubblica, né generano per loro ma per la repubblica^ SUU[.'aiTI]|A RBPDBBUGA. il'ì ami Remmen noi poiché il padre tra di noi non ha tanto potere sul figlio quanto ia repubblica ; poiché ia parte è pei tutto e non il tutto per la parte. Se dun- que il tutto ha cura della totalità nella repubblica so- lare , né la rimette ai privati , esso opera convenien- temente. Il marito unendosi per libidine alla moglie, quando gli pare, produce una prole imbecille e dege- nere. Noi abbiamo cura di avere un'ottima generazione nei nostri cavalli^ non per la nostra specie. Anche per Aristotile é un miscuglio contro natura se chi é d'animo servile cerca di congiungersi a donjie generose e come gli pare ad esse si unisce. £ S. Crisostomo, nel libro del sacerdozio, figuratamente riprova il vescovo igno- rante che si unisce alla Chiesa generosa. — Il Signore disse : erunt duo in carne. una; ciò é vero, e cosi avviene pure nella nostra repubbUca, poiché Iddio non insegno con ciò che nessuno non debba unirsi se non ad una; altrimenti né Giacobbe avrebbe preso simultaneamente due mogli, né morta una sarebbe iecito prenderne un'al- tra. Dei due si la dunque una carne^ perché dal miscu- glio dei due semi ne nasca una prole : e Sant' Ambro- gio dice con S. Paolo: non avrei conosciuto questo pec- cato se la legge non lo ordinasse. Alla sesta obbiezione. L'eresia dei Nicolaiti stava in ciò che ammettevano esser lecito ad ognuno di unirsi come gli piacesse ad ognuna, e questo ò contrario ai diritto naturale e impedisce la generazione, come si è già detto ; ma nella repubblica solare l'unione avviene sotto le regole della filosofia e dell'astrologia, e sì or- dinatamente che la generazione riesca migliore e più aumierosa ; essa é dunque coofarme alla natura, e quindi non é eresia se non dopo condannata dalla Chiesa. Or- tensio ossia Catone, uomo sapientissimo e dottissimo, concedette in prestito ia propria moglie a Bruto per avere prole da lei, come se quei rigido stoico volesse con ciò insegnare che ciò si faceva secondo l'ordine naturale. Come dunque gli abitanti solari guidati dai puri lumi naturali possono sapere che, tranne la no- Moro, , *2 176 QimSTIOm SÙLL^ÒTTIllA aSMJBBLKiA. stra forma di matrimoaio, tatto le altre siano peccato^ mentre gli stessi Ebrei e i Romani ammisero il divor- zio, e 1 filosofi accordarono la permuta; e Socrate e Platone ciò insegnarono? Aristotile non rimprovera loro di mancare al diritto naturale, ma perchè non gli pare ciò utile; anzi narra cbe alcune nazioni vissero in tal modo. Io poi concedo questa essere ora un'ere- sia nella Chiesa cristiana, ma che colla sola guida della natura non si può conoscere che sia male quando non si faccia in modo bestiale o a quello dei Nicolaiti. S. Tom- maso afferma essere il matrimonio contro natura quando non favorisca la prole e la società, ma nella nostra repub- blica Tunione è anzi sommamente favorevole a tutti due. Gli argomenti addotti da Aristotile contro la comu- nanza : che essa è superflua , come se alcuno volesse far versi di un sol piede, e tirar l'armonia da una sol corda; sono puerili e contrari alla carità e alla repub- blica dei monaci e degli apostoli , che allora conver- rebbe condannare, perchè avevano un sol cuore e una sol anima e non dicevano alcuna cosa esser propria ma tutte le cose aveano tra loro comuni. Poiché questa unità non distrugge la pluralità^ ma la fortifica per l'unione, non già di un sol uomo , ma di tutti gli stati e condizioni; ciò che non ottiene Aristo^ tile nella sua repubblica , e non già da una sol corda ma da più tiriamo l'armonia. Aristotile non stabilisce che la discordia, componendo la sua repubblica di due contrari; noi da più abbiamo l'unione e come un carme» poiché tutte le cose concordano insieme: Aristotile non compone il suo carme che di due piedi contrari, e discordi, OAme si è mostrato nell'esame della sua re* pubblica 4L. nostra fioi è del tutto apostolica, se sta- bilisce la -comunanza non pel piacere , ma per Tosse* quio come si vede nel nostro dialogo. f^-. VINB DBLLB QUB8TI0NI SULLA CtTf A* DBL S0LA« : I STORiÀ DBL REAME DEGLI ORSI SCRITTA ùk GASPARO GOZZI STORIA DEL REAME DEGLI ORSI Non v'ha cosa più vera della storia , più necessaria, più utile. Vera, perchè per lo più chi la scrive, nasce cinque o seicent' anni dappoi che i fatti che si vogliono trattare sono accaduti, o s'è creduto che siano acca- duti; laonde è assai facil cosa rivangare monumenti da un capo all' altro del mondo , spogliare archivi che più non esistono , e saper le cose de' morti con chia- rezza e precisione, quando non sarebbe possibile sapere quelle de' vivi. Poiché a dire la verità altro è il Afondo volgare, altro è il Politico, altro è il Morale, Spieghia- moci a vantaggio degl' ignoranti ed a confusione dei dotti; che non sarebbe gran male se molti rimanessero confusi, che non s* udirebbero qua e là tante castrone- rie che fanno che n'abbia vergogna grande la stessa ragione. Se nasce dunque qualche gran novità sopra la nostra terra , come di un principe morto prigione , di un generale vittori oso in battaglia , di un trattato di commercio stabilito fra varie nazioni ; ecco che odonsì per le con versazioni , per le botteghe di caffè , per le piazze migliaia di politici, che sanno tutto , intendono il perchè di tutto, e vi aggiungono del loro il miracolo, le camiouatQs il calcdO:, la profezia, secondo la diff^ 182 8T0RU renza de' casi. Chi poi ha riceruto lettere da' suoi amici, chi ha parlato con la staffetta, e chi una cosa e chi l'altra; tanto che tutti sono più che arcicertissimi di quanto fanno grazia di dire. Si raccolgano poi quelle infinite opi- nioni^ e saranno appunto infinite quando il fatto è uno solo; ed oh mirabile fondamento per trarre da tutto ciò una vierità che sia storica 1 Questo ardisco chiamare Mondo volgare. Passiamo al PolUico, Quale mezzo può far isco- prire ad occhio mortale le ragioni economiche, per le quali si muovono le corti , i gabinetti , 1 grandi delia terra a stabilire piuttosto un patto di guerra che di pace, piuttosto un negoziato che un altro ? In olire, chi oserà penetrare nel cuore di coloro eh* entrano nel ma- neggio degl'interessi dei re e degl'imperatori con fini propri e particolari? Di maniera che spesso a tutt'al- tro fine riesce un affare ed altre conseguenze ha da quelle in fuori che un parlamento od un principe si sono immaginati di ottenere? Di più: che sappiamo noi quanta influenza possano avere l'orgoglio, l'invidia, la malignità e le altre infinite passioni del cuore umano sugli affari di grande importanza? Questi son tutti fili, dirò cosi, occulti all'occhio dello storico; e ve ne sono degli altri ancora. E qua passiamo alla Morale , per la quale molte cose dirette al bene hanno un esito sfor- tunato senza saperne il perchè. Le imprese e le azioni rilevanti non possono essere eseguite da un solo, men- tre occorrono la buona fede, il capo e le mani di molti uomini. Chi può assicurare lo scrittore di storia che tutti abbiano fatto il loro dovere con rettitudine , con onestà , con buona intenzione , senza che niano abbia da rimproverarsi in coscienza d' un qualche erroruzzo ? Il desiderio del guadagno è grande sul globo terracqueo, e l'oro è una gran tentazione per gì' infelici mortali che hanno tanti onorati e disonorati desideri sotto al peri- cardio. E quando s' ha a dire la verità, chi può giurare che le belle e graziose donne non abbiano in ogni tempo contribuito nelle ore notturne a fare che il giorno man- chino gli uomini al proprio dovere? Se io amasai dav- DEL REAME DEGLI ORSI. fg3 vero un' amabile tiranna non so quello che mi farei per vederla contenta. S'arroge che lo storico scrive tal- volta alla cieca j e dirà che Dario ebbe la peggio con Alessandro, perchè 1 soldati di Alessandro erano vete* rani e bravi^ quando sarà accaduto che Dario perdette a cagione de* suoi generali che Taveano provveduto di seicento soldati in ìscambio di seicento mila , il rima- nente di quel denaro che doveva servire per una ben corredata truppa avendo essi voluto giuocarsdlo ^' dadi. Vedete da che può dipendere l'esito d'una cosai e come può indovinarla uno storico ? V ha di più , eh' io ho scoperto che tutti gli storici miei colleghi, da' quali ho tratto molti lumi per questa maravigliosa storia, hanno usato l'utile artifizio di tacere quelle verità che po- teano essere di qualche pericolo per essi ; ed anche ho rilevato in moltissimi, che senz' accorgersene divengono partigiani piuttosto di un'opinione che dell'altra, e sono mossi dall' amore di patria a sostenere con stra- vaganti ragioni l'onore e la fama del loro pa»)se in quelle cose che non è possibile il farlo. Ecco con quanta chiarezza e certezza si possono asserire gli storici fatti ; ed ecco come la storia diviene la madre della vita, lo specchio della verità e la guida della ragione! Non è stato mio capriccio il voler fare un'immensa fatica di schiena, e studiare tutte le lingue tanto antiche che moderne, e fino la cofta in cui si scrive a forza di code di lodola, e ci vuole grande studio a rilevare la differenza della coda A, dalla coda B, G, ecc., ed in ol- tre il leggere tanti manoscritti e quaderni che forme- rebbono dbdici buone librerie di Tolomeo ; e copiare tanti passi, motti e sentenze quante metafore hanno i popoli dell' Oriente , quanti proverbi hanno gli Spa- gnuoli, e quanti galimatias hanno quelli della Gallia comataf Taccio i sudori di morte che ho sparsi per istabilire l'epoche e i punti di cronologia per non ca- dere in anacronismi. Ho avuto tanto diletto in queste perquisizioni che ho arrischiato di morir etico dieci Tolte; ma or» sono dlTeotato il piacere delle conver- 184 STORIA sazioni, divertendo tutti le due o tre ore, parlando di calcolo astronomico, di rivoluzioni di popoli, di sbagli presi da Tze Tze arabo, e da Isacco Newton. E tatto ciò non fec* io per capriccio , ma per V amore grande che nutro al genere umano. Era necessaria una com- piuta Storia del reame deali Orsi , popoli che domina- rono un tempo quasi tutta la terra, e da' quali sono uscite tante e si varie nazioni. Molti autori ne hanno parlato , ma ninno ha saputo stabilirne V origine, svi- lupparne i progressi , e scoprire le ragioni della loro ampliazione e decadenza. Io solo ho avuto l'ardire di lacerare le nubi dell' antichità , e di scorgere un bar* lume di verità nell'oscura fuliggine de' consumati se- coli, per poi ridurre tutte le mie nobili e singolari no- tìzie a' sistema, e formare piuttosto un trattato politico- morale-filosofico che una storia ; nel quale si scoprirà per mezzo delle azioni orsacchine quanto sia utile la sem- plicità de' costumi, e quella delle leggi che sieno tratte dal fondo della natura, della giustizia e della ragione ; si potrà quindi comprendere quanto sieno dannosi il lusso e la più picciola alterazione de'costumi aborigeni, ed in oltre quan- to possa essere di vantaggio o di danno un genio grande che nasca in un regno di quando in quando , il quale abbia nell'animo o buone o triste inclinazioni. Note- ransi ancora le cerimonie del loro culto e le foggie dei loro vestiti e adornamenti, poiché dalle più leggere no- tìzie si conosce il carattere delle più famose nazioni, come da' convulsionari e dal taglio lungo della giubba gì' Inglesi , dalla derisione e da' hijotix i Francesi , e dall' imitazione or d' una cosa or deli' altra h nostri Ita- liani. Si rifletterà in oltre al genere di studj ch'era alla moda piuttosto in uno che nell' altro secolo, e ciò pure spargerà lume splendidissimo nell'istoria nostra. Ve- drassì, come dimostreremo ad evidenza con un diluvio di riflessioni politiche e metafisiche, che nel tempo che correva il gusto della grammatica tutta la nazione era zotica , rozza e villana ; nel tempo della rettorica era leggera e puerile ; in quello della teologia era sangui- BEL BEAlfS DEGLI OBSI. 181 narìa e crudele , come pure per un' altra ragione era fiera e barbara in quello della giurisprudenza e del gius feudale. Saranno inoltre posti in mostra i vantaggi grandi della filosofia finché ebbe la bontà di stare at- taccata al buon senso, alla semplicità ed alla rettitudine, ma poi scoprirannosi i danni grandissimi ed irrepara» bill dello spirito srccademico, della rilassatezza delle opinioni , e di quello che dicevano i Greci fare d'ogni erba fascio. A dire la verità se non m' avessero pregato gli amici, supplicato principi e gran soggetti , ed esor- tato tutte le accademie di Londra, di Parigi, di Porto- gallo e di Spagna (nelle quali quella di Arcadia non c'entra), io non avrei dato alle stampe questa grand'o- pera; polche per quanto io vaglia a conoscermi, io sono il più vergognoso , prudente e modesto di quanti au- tori m'abbia mai conosciuto e sia per conóscere. Sono discordi d'opinione gli autori di tutte le effe- meridi, se fosse in una valle della Scandinavia, o sulla vetta d'un monte, che viene dal latino Vertes e dal greco cp^pioc, nella Groelandia, oppure se sur un lar- ghissimo scoglio nel mare Magellanico ; sono Incerti , dico, gli uomini dotti in quale di questi tre siti na- scesse e dimorasse la stirpe , il reame ed il governo degli Orsi, io però, sapendo che ogni nazione vuol as- solutamente aver il piacere d i fondare su principi certi la sua origine , non ho voluto defraudare il pubblico di questa importante notizia ; e per quanto ho potuto rilevare da un vecchio e affumicato volume, che sta tra i membranacei della biblioteca del principe Tempo, discendente da madama Oscurità e da quel notissimo filosofo Obblio, sono di parere che sieno scaturiti dalla terra quello stesso giorno che incominciò il zodiaco ad essere calpestato da' pianeti, e l'acqua del mare agi» tata dal nuoto delle balene e de' capi d'oglio. Questi , appena usciti alla luce del giorno dalla parte d'Oriente (poiché la prima cosa a cui badarono fu il Sole) si trovarono robusti, con orribàli denti ed ugne che met- tevau terrore» e con una fame divoratrloe, per la quale 186 STORIA non si facevano carico di coscienza di mangiarsi l'un l'altro. E la faccenda sarebbe ita tant'oltre che sareb- bonsi distratti affatto da li a quindici giorni se non fossero venuti a parlamento tra di loro per vedere di riparare a tanto grave disordine. Ragunati dunque in una larga campagna, dispiacevole a vedersi per bron« cbi e spini e ortiche che vi germogliavano , ivi fu la prima volta che s'intese fra essi il nome dì Società, la quale , benché alcuni filosofi credano non convenirsi agli Orsi, pure in essi era cosa naturalissima , mentre erano forzati o a morire o a porre in qualche sistema gli affari loro se non voleano perire miseramente. Uno di loro , il più debole di fibra , ma quello che avea pen- sato più d'ogni altro sulle loro circostanze , poich' era il più esposto degli altri al pericolo della vita, cosi allora parlò. (E qua noti il benigno lettore che tutti i ragionamenti che troveranno sparsi qua e là sono quelli stessi che facevano i mìei eroi , e eh' io non vi ag- giungo del mio una sillaba, come hanno usato di fare Tito Livio , Tacito , Rollino , e gli altri ch*io non ho mai saputo chi loro li riferisse). Ma sentiamo che sa- pesse dire quell'Orso: Non fa di mestieri, o compagni, di lunghi discorsi: la vita è un gran bene, ognuno il comprende da sé senza eh' io studi a persuaderpene, Per^ che vogliamo togliercela da per noi f possibile che la na- tura ci abbia fatti nascere perchè ci distruggiamo f Non so dirvi il perchè, ma quest'idea mi fa orrore ; pensiamo un poco se v'ha maniera da vivere quanti siamo tran- quillamente , e adoperiamo il cervello ed il cuore ptul- tosto che le zampe e la bestialità nostra. La moltitu- dine applaudi, ed alcuni pochi, che non parevano per- suasi , furono scacciati di quel luogo come irragionevoli e bestiali, e da quelh poi che allora andarono dispersi per la terra discesero certe razze d'Orsi inumani che ancora si trovano per le boscaglie , e si veggono deli- neati sui libri. Fu cosi possente dunque quel discorso, e più l'angustia nella quale si trovavano gli Orsi, che subitamente si diedero delle mani in dosso» e non paa- DEL REÀMB DEGLI ORSI. 187 sarono due settimane che, eretto un altissimo tempio, 11 dedicarono ad una potentissima Dea , eh' essi appel- lavano Necessita'. E poi a poco a poco ebbero un re, che non era infine che l'economo delle volontà e forze comuni, eh' egli andava equilibrando a seconda del bi- sogno di tutti in generale e di ognuno in particolare. Vìdesi ben presto un'orribile e diserta campagna farsi tutta coltivata, e da essa trarre quel felice popolo quanto può essere necessario alla vita. Tutto era bene e con- solazione , ed il nome di legge non conosceasi poiché ninno avea che desiderare d'ingiusto. Ma ben presto piombarono quei miserabili in un mare di calamità in- soffribili. Alcuni de' più vivaci incominciarono a com- binar nuove idee , ed a ragionare : E perchè , diceano , lavoreremo la terra, se avendo alcuni popoli nostri vi- cini , possiamo colla forza ridurli in ischiavitù, e far eh* essi affatichino per noi , ed insieme acquistando le terre loro ampliare il dominio vostro f Cosi va bene. E qua si videro trattati sparsi per la nazione intorno alla giustizia della guerra offensiva che infiammarono gli animi di tutti ; e già si diede all'armi. L'esito fu for- tunato^ e ne venne che fattisi ricchi e potenti alcuni pochi, rimasero poi le migliaja d'Orsi oppressi e deso- lati. Allora entrò nel paese Tadulazione, il rufflanesimo, e l'insidia per tentar di spogliare i magnati de' loro male acquistati averi; l'avarizia si vesti da amore, la ingordigia si copri col manto dell'amicizia, e tutte que- ste maschere unite furono cagione di tradimenti, di« scordie e liti gravissime. Quando tutto era a soqqua- dro, i buoni e zelanti cittadini si ricordarono della Dea Necessita', ed ebbero ricorso ad essa perchè mettesse un qualche riparo alle comuni sventure. Ma ricorrendo alla Dea scoprirono un altro disordine. Videro che i sa- cerdoti di essa aveano da lungo tempo imparato a farsi grassi a spese del popolo : vendeano il chiaro dei sole e l'umido della pioggia, l'odoro del marocchino per iscacciare le tarme da' panni , li cerotti per le rotture di gamba^ le polveri pel buon esito de'partia e tema- Ì8S STORU ledizioni per i sorci. Ben presto fu riparato a queste assurdità. Proseguirono la loro preghiera alla Dea, sup- plicandola eh' eiraresse attenzione a' suoi popoli e che non volesse abbandonarli quando più abbisognavano di lei, e che loro desse tanto lume di ragione da po- ter conoscere da quali princìpi pullulavano tante loro miserie. Tosto udirono rimbombare la vòlta del cielo di soavissima melodia, e raddoppiarsi videro il chiarore del giorno; e quindi scoprirsi ad un tratto il di sopra del tempio , e comparir loro un gran libro di lamine d'argento , formato e scritto in caratteri d'oro , soste- nuto per l'aere da quattro mirabili e non più veduti animali, che appoggiavan le zampe sur una gran nu- vola di diamante. Era il primo di que' misteriosi mostri tutto candido come latte, ed aveva il petto di cristallo tersissìmo, al disotto del quale si vedeano e contavano i colpì del cuore tranquilli e ordinati , e ad ogni colpo che dava quell'organo vitale, sentiasi cantare da voci sconosciute, e volare per il puro etere una lettera dell'alfabeto, che arrivate al numero di cinque differenti , tornavano ad essere replicate sempre le stesse, e venìano a dire: Virtù'. Era poi l'altro d'un colore cangiante, cosicché la sua pelle era un prisma, ed avea certe gambe ora corte, ora lunghe, ora sottili, ora grosse, con un paio d'occhi di fuoco, la pupilla de'quali stringendosi ed al- largandosi formava alcune sillabe in questo modo : In- dustria. Il terzo parea s cuoia to, e gli si vedea la carne viva e fresca come rosa, dalla quale usciva un sudore di sangue che gocciolando prendea consistenza prima di arrivare in terra, e divenia tante monete d'oro, e poi tante verghe dello stesso prezioso metallo, che avvici- nandosi r una air altra formavano e descrivevano per ogni verso questo miracolo : Sensibilità*. E V ultimo avea un collo lungo fino alle nuvole, vestito di squame di bronzo, coi piedi di porfido, e con la coda d'un tronco d'alloro, le cui foglie sibilando parea che dices- sero sotto voce : Et]&r91T4\ Tutti quegli Orsi eraito DSL aBAMB DEGLI OASI. Ì8d linciti di sentimeato per maraviglia ; pure rinvenuti al- cani , e immaginandosi che nel mistico libro stesse quella salvezza che tanto aveano chiesto e desiderato, tentarono di leggerlo, e videro che cosi stava scritto su quelle carte immortali : Orsi, tanto è fatale per voi altri una stupida e fiera salvatichezza , quanto una vi' ziosa scostumata società, senza limiti di giustizia di mo- destia e di buona fede. Pericolosi sono gli effetti della forza del corpo, e micidiali sono se vanno congiunti colle malizie dello spirito, ProfiMate dei beni dell'una e del- l'altro che vedete espressi in questi quattro viventi che mi sostengono , e passeranno i secoli senza che vi esca dagli occhi una lagrima; altrimenti maledirete la terra ch'è madre vostra, e vi si aprirà sotto appiedi come que- sta diamantina nube che mi serve di base , poiché fin il diamante va in polvere sotto a' colpi bestiali. Appena fi- nito il periodo ognuno si guardò in faccia tramortito ; e chi spiegava in un modo e chi nell'altro la sopran- naturale apparizione; ma tardi ne compresero il senso legittimo, poiché la moltitudine, ch'era fuori del tem- pio, non era più in istato d'intendere un tanto mistero. Laonde andò In breve in rovina quella nobile e famosa popolazione. Se a questa StoHa del teame degli Orsi mancano ci* taisioni e note, diasi la colpa agli uomini di lettere che cedono sempre a' tristi consigli de' librai , i quali non pensano che ad ingannare il pubblico con frontespizj magnifici, e con ricercati prolegomeni, contenti di que^ sti per poter prendere alla rete gli uccelli» llNÉ DELLA StOÀlA iàh ìkÉAìià DÉGLÌ Ò^Ì, INDICE Del Parlamento di Raffaello Hlodeo dello siato di un'ottima repubblica, scritto da Tommaso Moro, l^ag. i La Città del Sole di Tommaso Campanella ...» 89 Questioni di Tommaso Campanella sull'ottima re* pubblica ossia suUa Città del Sole .... » i49 A) ^storia del Reame degli Orsi scritta da Gasparo Gozii .... » d79 »- -, BIBLIOTECA RARA PUBBLICATA DA G. DAELLI VOL. XII. ANNIBAL CARO TIP. LOMBARDI. Proprietà letteraria ja. daelli e e. (^ ^^r GLI STRACCIONI COMMEDIA COMENTO LA NASEA LA STATUA «ELLA FOIA DICERIE DI ANNIBAL CARO MILANO DAELLI e COMP. EDITORI ' AVVERTENZA DEGLI STAMPATORI Questa volta non vai nulla al nostro editore r essere stato alla scuola di Pietro Aretino y e aver tirato di scherma a tutt' andare sotto tanto maestro. Come difendere la ristampa della Fi- cheide? Sta bene che quel buon vecchio del Gamba, e quel puritano del Romagnoli, gli abbiano dato l'esempio; ma l'altrui colpa non lava la sua; e a noi vengono i rossori per lui, e ci veliamo volgiamo la faccia come faceva Agamennone in quel famoso quadro del sagrificio d' Ifigenia. Che il Molza, secolare, cantasse i Fichi, quando un monsignor della Gasa cantò poi il Forno, non è da meravigliare, chi ricordi la licenza de' co- stumi al principio del secolo XYI, e precisamente innanzi che pigliassero forza le decisioni del Con- X AVVERTENZA cilio di Trento, che riuscì a mettere la natura sotto lo staio nel forziere, come gli amanti del Boccaccio. Che il Caro, giovine e futuro segre- tario di Pierluigi Farnese; si sbizzarrisse a far un Cemento più sconcio del capitolo del Padre Molza, se non altro perchè è il Rawlinson di questa scrittura cuneiforme, passi; macho nell'anno della fruttifera incarnazione del figliuolo di Dio, 1863, si rimettano in luce queste sozzure, è cosa in- tollerabile , e di noi componendo si potea dire : La man va lenta innanzi e l'occhio indietro. — Pertanto se è corso qualche errore di stampa se ne incolpi la nostra coscienza e non V Edir ditore, che vi mise gli occhi e le reni. Ma la lingua , ma lo stile! Ma quei puri e santi classici di Petronio, Marciale, Boccaccio, e Casti ! Scuse magre, anzi perfide e piii ree della stessa colpa. Né sappiamo ora perchè i frati Dome- nicani abbiano dimenticato l'esempio del loro Sa- vonarola, e si contentino d' un Indice, quando do- vrebbero nelle pubbliche piazze , ardere i libri lascivi; e potendo arricchir il rogo col loro au- tori, tanto meglio. Con noi consente espressamente Fra Tedaldo degli Elisei , convertitore della moglie di Aldo- brandino Palermini, secondo attesta il Boccaccio nel suo Decamerone; e diciamo altrettanto della Diceria di Santa Nafissa. Ma per far almeno , che gli empj sappiano come nacque quest'opera di demonio, accattiamo alcune parole che tro« DEGLI STAMPATORI XI viarao nella vita del Caro scritta da Anton Fe- derigo Seghezzi. Eccole : e: Ma lo studio pia dolce al Caro era quello delle buone lettere, e particolarmente della lingua toscana , sopra la quale avea principiato ad af- faticarsi sin da' primi anni della sua gioventtl : vago oltremodo d' apprenderne lor proprietà , e di saper perfettamente le piti leggiadre e le piii pure forme dello scrivere. Se ciò riuscito gli sia, oltre alle Lettere famigliari, che sono una delle più pregiate scritture di questo rarissimo spirito, ne fanno piena fede le altre sue opere, se non con eguale purità di stile dettate, piene cosi di gentilissimi tratti e d' una felicissima copia di scelte parole, che non solamente e' sembra e nato e allevato in Firenze, ma negli antichi scritti de' soavi parlari interamente consumato^ Ciò ma- nifestamente si pare nel Comento che fece sotto il nome di Ser Agresto al Capitolo de' Fichi di Francesco Maria Molza, suo grande amico, quivi da lui, tolta la denominazione della parola Gre- ca (1), chiamato il Padre Siceo. Uscì questo li- bro (2) alla luce la prima,volta appresso al Bar- (1) £3xov ficas. Di questa derivazione parla anche V Autore nel comento alla Ficheide, (2) La prima impressione ha questo titolo : Comento di Ser Agresto da Ficaruolo sopra la prima ficata del Padre Siceo, In fine: Stampata in Baldacco per Barba • grigia da Bengodi, con grazia e privilegio della bizzarris- sima Accademia de' Virtuosi; e con espresso protesto XII AVVBBTENZA bagrigia (1) , cioè, se non erro, presso ad Antonio Biado d'Asola, stampatore in Soma; siccome io raccolgo dal carattere d* esso libro , che di certo è quello stesso con cui il Biado stampò molte cose, e dagli Straccioni, commedia del GAtto, nella cui prima scena, che è in Boma, si fa menziona della bottega del Barbagrigia (2). Dopo il Comento si legge V argutissima Di- ceria de' Nasi, scritta per Giovan Francesco Leoni anconitano, uomo di buone lettere, se- gretario del cardinale Alessandro Farnese, e Re allora nelV Accademia della Virtù, il quale era fornito d'un segnalatissimo naso\ onde con molta loto, che tutti quelli che la ristamperanno, o ristampata la leggeranno in peggior forma di questa, cosi St9rmpa- tori come Lettori, s*ìntendono infami e in disgrazia delle puttanissime e infoca tissime lingue e penne loro. Uscita fuora co' Fichi alla prima acqua d' agosto 1S39. Eocene un* impressione posteriore in 8. senza Itwgo e senza nome di stampatore, la quale dal carattere mi pare che si possa credere che sia stata fatta in Firenze, Il Castel- vetro nella Correzione al Dialogo delle Lingue del Var- chi, scrive che il Caro vendè la Ficheide a così caro prezzo, e ne trasse gran quantità di danari, che pagò le dote per la sorella che poi maritò. Io non credo nulla di ciò; perchè il libro è assai picciolo, e non può ap- portare così grande utilità ; senzachè trovo che il Caro ne dispensò agli amici gran n'amerò in dono ; come quan- do a questo effetto ne mandò dugento copie a Firenze a Luca Martini. Vedi voi. I, lett. 57. (1) In 4.° (2) Straccioni, Atto L DEGLI STAMPATORI XIII bella grazia viene dileggiato da Annibale anche in parecchi luoghi delle sue Lettere {IJ. Io credo che quel trattato sopra il naso rigoglioso e sper- ticato (2) del Leonia sia quelVopera stessa che egli alcuna volta chiama Nasca (3) , e non un diverso componimento di poesia, siccome dalle parole di lui sembra che piuttosto credersi deggia. Imperciocché egli narra che trovandosi in Napoli con Gandolfo Porrino^ questi lo fece conoscere a tutta la città e per poeta, e per autore della Nasca; il perchè non poteva passare per la strada che non si vedesse additare, o non sentisse dirsi dietro : Qi^gli è il poeta del Naso : soggiugnendo che chi non sapeva il fatto, cioè ch"egli avesse schernito il naso altrui, gli correa innanzi, pen- sandosi che avesse il naso grande : e gli facea una nasata intorno, che avrebbe voluto piuttosto por- far la mi ter a (4). Scrisse anche nella sua gioventìi V Orazione di Santa Nafissa, mentovata dal Doni nella Se- conda Libreria (5) , e da Jacopo Bonfadio in in una lettera al conte Fortunato Martinengo , pubblicata da Venturino Buffinelli in Mantova (1) VoL I, lett 22, 29 e 73. (2) Voi. J, hit 22. (3) E cosi è veramente. Edit (4) Voi. I, leti. 29. (5) Doni, Libreria Seconda, delV impressione del Mar- colini in 12, a carte 24. XIV AVVERTENZA neWanno 1547, fra le lettere di diversi autori (1). dove si dichiara qual fosse il soggetto d' essa. Io la trovo allegata nel Comento al mentovato Capitolo de' Fichi, nel qual luogo vien chiamata Diceria di Santa Nafissa, e si dice che fu scritta dall'autore prima del Comento. Anche il Seghezzi, come si vede, gira nel ma- nico, e si lasciava rintenerire dal bello stile. — Noi facciam punto e non volgiamo più V occhio a questo figlio del peccato, perchè potrebbe forse rammorbidire anche noi. Fra Tedaldo è più benigno agli Straccioni^ una delle commedie vive del cinquecento, — L'au- tore, dice il Ginguené, s' amusa a mettre sur le théatre les balourdises de deux frères pauvres et presque imbecilles, qui s'étaient acquis à Home une sorte de celebrità dans le genre niais. Mais iljoignit à cette peinture grotesque plusieurs au- tres ressorts comiques,... Cette comèdie, aussi li- brement qu' élégamment écrite, est une des mieux conduites.... une de celles oò, les sentiments d'a- mour sont exprimés avec le plus de passion et de naturel, et en méme temps une des plus ga* ics, — Giudizio giustissimo. — È una fotografia, ma ben riuscita, e non dei solili lucidamenti dai latini, che lucidavano dai Greci , onde V arte co- mica italiana era nipote alla greca, e non rifa- (1) Lettere di diversi automi. Libro primo in 8°, a carie 37. DEGLI STAMPATORI XV ceva, ma contraffaceva Tavola. Quel marchegiano ingegnoso del Caro, si abile a dipingere i ca- ratteri, come quello del Capitan Goluzzo, di Leo- netto Castravillani , del baro famoso, riusci na- turalmente a ritrarre a meravìglia que'due pazzi, eh' erano stati il balocco della festiva ed arguta Roma. — Dicon che facesse rivedere all'autor della Suocera gli Straccioni. Eran tanto amici, che può benissimo avergli mandato a ripassar la Commedia, come gli mandò V Apologia ; ma la lima del Varchi non lavorò gran fatto su quella; perchè ha molto ancora del romanesco, il chO; senza che si perda flato d' eleganza, dà maggior picco e come dicono color locale ad una storia romana. 11 Caro veramente convertiva in oro tutto quel che toccava ; e, come il Petrarca, seppe co- gliere la parte immarcescibile della lingua; onde non invecchia mai ; e quando diceva al gran Mae- stro di Rodi che V invitava a combattere contro gì' infedeli che non avea né occhi da vederli , né piedi da inseguirli, né denti da morderli, tra- duceva r Eneide, come Rousseau scrivea la No- vella Eloisa col catarro e coi piedi nelle pan- tófoÌQ di lana. — Lo spirito fu sempre vivace e scintillante nel Caro, e pare così giovane ora, come quando scrivea il commento di ser Agresto alla Ficheide del Molza. XVI AVVERTENZA DEGLI STAMPATORI Ed eccoci dì nuovo alle Fiche. Il nostro Edi- tore pare che dica al lettore : Togli, che a te le squadro. — E noi veliamo senz'altro la statua del pudore,, che sta tra i busti di re e imperatori a insegna e decoro della nostra letteraria oflScina. I Saccessori di Barbagiigia. GLI STRACCIONI COMEDIA. PERSONE DELLA COMEDIA GIULIETTA, figliuola di uno di loro, det^ altramente Agata. TIND ABO , innamorato di Giulietta , ppr altro nome Gisippo. DEMETRIO, Buo amico. SATIRO, suo servo. Madonna ARGENTINA , nipote degli Straccioni. H cavaliero GIORDANO, suo marito. BARBAGRIGIA, suo compare. MARABEO, fattore. PILUCCA, servo. NUTA, fantesca. Messer ROSSELLO, procuratore. MIRANDOLA, pazzo. GIULIO, ) LISPA, [ furbi di Campo di Fiore. FULIGATTO, ) PROLOGO. Spettatori, voi dovete la più parte avere eonomuti gli Straccioni; quel Giovanni e quel Battista^ o piuttosto quel Giovambattista, fratelli ScioUiy che erano due in uno o uno in due: voi m'intendete-^ queW Avino Avolio de'noslri tempii con quei palandrani lunghi^ lavorati di toppe soprn toppe^ e ricamati di refe riccio sopra riccio : quei %azze* rati, con quei naei torti , arcumali e pizzuti : quegli unti bisunti, che andavano per Roma sempre insieme, eh^ erano di una medesima stampa, che facevano, che dicevano le medesime cose ; che parlavano tutti due in una volta , o Vum serviva per eco dell'altro. Non guardate che uno di essi sia morto, che neaneo per morte si possano guasti. Solo dell'amor di costai la teneva accesa, perchè sapevo ch'egli n'era alle- nissimo. Ora questa sùbita mutazione, non so dónde si proceda. PiL. Tant'è ; la cosa è fatta. Mar. Fatta ? alla fé, non sarà. PiL. Come non sarà, che s' è data la fede? Il marito l'ha mandata a presentare, ed io vengo per te , che prepari la cena e l'altre cose ; che voglion far nozze questa sera medesima. Mar. Questa sera : ben, ben ; la mina è condotta al fuoco ; alla contrammina. Pilucca. PiL. Non c'è tempo. Mar. Bisogna supplir con l'ingegno. Attraversiamoci In qualche modo ; commettiamo del male ; diciankone ATTO SECONDO. — Ì5C. HI. S7 • al marito della moglie^ alla moglie del marito;* fin- giamo qualche innamoramento^ qualche adulterio d'uno di loro, qualche malfrancese di tutti due. Impediamo^ allunghiamo la cosa almeno per questa sera ; dipoi qualche diavolo c'entrerà. PiL. Guarda che non entri nel catino, Marabeo. Mar. Non dubitar, Pilucca, ch*io cerco di sparecchiare il letto e non la tavola. Piti. Oh COBI , si : facciasi la cena e disfacciasi . ogni cosa. Mar. Intanto non perdiamo l' occasione. Vedi colà qaelli due che volgono il canto? quel maggi1 Batt. Oh, ecco di qua il nostro Procuratore. Proc. e se non ho procurato oggi per voi, non mi chia- mate più di questo nome. Io andava ora per aspet- tarvi in casa. Batt. Avete pur ottenuto il mandato contro Tindaro? Proc. Oh questo s* ebbe , e fu dato al Bargello che r eseguisse un pezzo fa. Batt. E che altro avete fatto per noi ? Proc Che più potete desiderare , che il fine della vo- stra lite? Giov. Avemo avuto la sentenzia in favore? Proc. In favore. Giov. Oh , lodato sia Dio ! Oh , messer Rossello va- lentuomo 1 Batt. Oh, messer Rossello nostro, e che voleva dir quel sequestro del Mirandola ? Proc. Che Mirandola ! Il Mirandola è un pazzo ; e quello inventario è stato un arzigogolo degli avversaij per intorbidarci il giudicio di questa sera. Ma, con- tuttoché abbiamo la sentenza , que.'ì MlRAN. Uh, Uh! Giov. Ah non istringere, Mirandola tu mordi, ohi, ohi ! Batt. Te l' ha tolto V Giov. Ohimè il dito ! Batt. Ohimè 1* anello. MiRAN. Vi ci cobi pure, castroni ! PROC. Oh, che tradimento é questo, Mirandola ? MiRAN. Andate alle birbe ancora voi.. È ventura da lassarla andar questa ? Batt. Oh Mirandola ! Giov. Mirandola. MiRAN. Si, venitemi dietro. Or che sono invisibile, tutto il mondo è mio. Giov. Di qua, di là. Batt. Di là, di qua. MiRAN. SI cercatemi a vostra posta, Proc. Ah, ah, ah, se ne va via! ah, ah; ah, la lite è finita. Ci avemo levato questo pazzo dattorno, e a lui par d'esser felice. Batt. Felicissimi saremo noi, mercè vostra, se, avendo vicuperata la roba , non avessimo perdute le carni. Proc. Beue^- quanto a vostra figliuola, io non le posso render la vita; ma farò ben che questo Gisippo vi dia conto della sua morte. Andate voi a sollecitare r esecuzione del maudato ; ch'io voglio esser qui da madonna Argentina per un caso d' importanza. B4 GLI STRACCIONI ATTO QUINTO. SCENA PRIMA. Barbacrigi», Arceaiin». Bàub. Io credo che gran tempo fa non sia avvenuto la più strana cosa di questa. La povera comare deb- b* esser disperata. Voglio ire a consolarla e levarla di casa ; che, questa bestia del cavaliero, non le fac- cia dispiacere. — Oh velia in su la porta, che debba aver licenziate le donne. — Comare , a ogni cosa è rimedio. State pure allegra. Arg. AUegi'a , ah ! se non mi getto in fiume , non la- verò mai questa vergogna che m' ha fatto oggi Gi- sippo. Barb. Tutto è stato per lo meglio. Se le cose anda- vano più avanti , era maggior disordine , poiché il compare è tornato. Arg. Chi compare? Barb. Il compare cavaliero. Non lo sapete ancora! Arg. Giordano mìo marito è tornato? Barb. Tornato. Arg. Ohimè ! ohimè ! non è dunque morto ? . • Barb. Morto ah? Un morto che voleva far morir altri. Arg. Oh, che mi dite voi! Barb. Pur desso ha voluto ammazzare Gisippo. Arg. e donde è uscito cosi oggi costui? Barb* Questo non gli ho io domandato, perchè ora è in su le furie ; ma mentre era alle mani con Gisippo, e che Gisippo era per ammazzar lui, è sopraggiunta la guardia del papa, che gli ha spartiti^ e non so poi dove si siano andati. ATTO QUINTO. — 8C. I. 65 Arg. Oh Dio, in che pericolo e in che vergogna sona io! Quanto tempo Tho aspettato, quanto l'ho fatto cercare; quanti riscontri ho avuti della sua morte? nondimeno sempre sono andata a rilento a rimaritar- mL Ed ora, per la certezza che n'ha portata Pilucca, non mi sono prima rimaritata, che il marito eh' io ho preso non mi vuole, e quel eh' era morto è risuscitato. Dianzi era vedova ed ora son maritata a due, e di nessun d'essi son moglie. Che nuova e non più udita disgrazia è questa mia! Babb. Dio v'aiuterà, madonna. Ma, £nchè il Cavaliero è in collera , non voglio che voi stiate quL Venite meco, che starete il meglio che si può, con la vostra Comare. Asa. Questo non farò io, ch*io non ho fatto cosa ck*ìd debba temer di luL £ in questo caso, mi dà noia più la vergogna che la colpa. Babb. Se questo è, non dubitate. Bitomatevene in ca- sa, ch'io voglio stare a veder quel che segue. SCENA SECONDA. Hemelrio, BarlMgrici») Cttoippo, 9atir«* Deh. Siamo stati a rischio d'essere ammazzati; e ora corriamo pericolo d'esser presL Leviamoci di qui^ chà i Canali non ci faccino metter le mani addosso. Oh ecco qui Barbagrigia. Babb. Oh, messer Gisippo, séte voi ferito? Gifi^p. Messer no. Babb. E voi, messer Demetrio? Deh. Manco. Babb. Ringraziato sia Dio! Oh questo è un caso che non s'udì mai più. GisiP. Chi è costui che n'ha voluto ammazzare ? Babb. Un morto. Caro, 5 é^ GLI STRACCIONI I)EÌt,' Guata morti che s'usano in questo paese! Barb. Questi è il marito della vostra moglie. Deh:. Buono! marito della moglie d'un altro. Barb. n marito della vedova, voglio dire. Diari. To' là, vedove maritate! Gisti. Mi fate rider che non n'ho voglia. Bàr:ó'. Avete ragione, ho detto di gran passerotti, che ' ndn' me ne sono avveduto. Lo dirò meglio. Questo è ' il eavaliero Giordano, morto... Dmsif Idest vivo. Barb. Ch'era marito. Deb. Ch'è marito. Barb.' Di madonna Argentina, ch'era vedova... DsM. Ch'era maritata. BaRÌÌ. a voi. Dfi». A lui. BaRB« £ ora di chi è? sua, vostra, di tutti due, di nes- suno... Come va questa cosa? l'nonla so dire, perchè non la intendo; e straparlo, perchè straveggo. Dem. Basta che t'intendemo. Questo è il suo manto che éi teneva per morto, ed è vivo. È tornato, ha trovai che Gisippo gli voleva tòr la moglie, ed ha voluto tòr la vita a lui. Barb. Messer si. In fra tutti V avemo stricata con le . parole; ma come lastricaremo coi fatti? Dem. Ecco Satiro, che viene tutto spaventato. Debhe avere inteso l'assalto che ci ha fatto il Cavaliere. — Non dubitar. Satiro, che non avemo male. Sat. Oh Dio! che cosa è questa?! morti risuscitano. Deh. Che più? Lo faremo morire un'altrfk volta davvero. Sat. Chi volete far morire? DjpsM. Non di'tu del cavalier Giordano, che è risuscitato? Qa±. ^Che cavalier Giordano ! è risuscitata la Giulietta, la Giulietta! GisiP.' Che Griulietta, bestia ! Sat. Oh padrone, che ho io veduto! ATTO QmK«rO. — so. II. 67 GisiP. Che hai, spiritato? Sat. Io ho veduta, io ho veduta la Giulietta , e Tho veduta con questi occhi. GisiP. Qualcuna che le somiglia forse. Sat. Lei stessa! GisiP. La Giulietta? Sat. La Giulietta! GisiP. La mia? Sat. La vostra! GisiP. Viva? Sat. Viva! Gisip. Dove? Sat. In casa di madonna Argentina! GisiP. Stai tu in cervello? Sat. Io non ho bevuto, io non vaneggio, io non dormo; io Thè veduta, io le ho parlato; ella ha parlato a me,, e m'ha data questa lettera e questo anello che io vi porto. Dem. Questo è il giorno delle meraviglie. Barb. Dello strabiliare. Deh. Oh, che disordine aremo noi fatto oggi, se questo fosse! Due mariti d'una moglie, e due mogli d'un ma« rito, in una casa medesima. Gisip. Oh Dio! questo è l'anello con che la sposai; e questa è la sua lettera. Dem. Non m'avete voi detto ch'ella è morta? GisiP. Ohimè, s'ella è morta? ah! Dem. e questo anello? GisiP. É suo. Deh. e questa lettera? GiBiP. È di sua mano. Dem. Oh, come può star questo ? Lasciatemela leggere. • TindarOf padron mio \ cosi eonvien ch'io vi chiami, poiché mi trovo serva dei servitori della vostra moglie; ^li af- fanni che io ho sofferti fino a ora grandissimi e infiniti^ sono stati passati da me tutti con pazienza, eperando di 68 e^LX flTBAOOIONI rUrwami $ eomolarmi d'avervi per mio eontorU» Ma ora, che finalmente v*ko ritrovato, poiché a me tolto vi sete, iconiolata e disperata per sempre desidero di morire, n GisiP. Ohimè, che parole sono queste! Seguitate. Dbm. • Ahi, Tindaro, voi vi maritate t or non sete voi mio marito f Se non mi sete ancor di letto, e non volete essermi per amore, mi sete pur di fede, e mi dovete esser per obbligo. Non sono io quella, che, per esser vostra moglie non mi sono curata di abbandonar la mia madre, né di andar dispersa dalla mia patria, né divenir favola del mondo? Ricordatevif che per voi sono stale tante tem- peste; per voi sono venuta in preda de^ Corsari, per voi si può dire eh* io sia morta, per voi son venduta , per voi carcerata, per voi battuta, e, per non venir donna d'altr^uomo come voi sete fatto altr'uomo di altra donna, in tatUe e si dure fortune sono stata sempre d'animo co- stante', e di corpo sono ancor vergine. E voi non for- zato, non venduto, non battuto a vostro diletto vi rima- ritate. > GisiP. £ Giulietta scrive queste cose? Dem. • Il dolor ch*io ne sento é tale, che ne dovrò tosto morire ; ma solo desidero di non morir serva né vitupe- rata. Per f una di queste cose, io disegno di condurmi col testimonio della mia verginità a mostrare agli miei, che io, per legittimo amore, e non per incontinenza, ho consentito a venir con voi; per V altra io vi prego (se più di momento alcuno sono i miei preghi presso di voi) che procuriate per me, poiché non posso morir donna vostra, che io non muoia almeno schiava di altri, ri- cuperate con la giustizia, o imp^trfitfi (ialla vQstra sposa la mia libertà; che, pft^ener:^ ella cosi gentile, coms intendo, ve la dovrà facilmente concedere; e, bisognando, promettete il prezzo ch'io sono stata comperata, che io prometto a voi di restituirlo, » GisiP. Oh, che dolóre è questo! ATTO QUINTO. — se. Il, 69 Dem. « E quando questo non vogliate fare^ mi basterà so- lamente di morire. Il che desidero cosi per finire la mia miseria, come per non impedir la vostra ventura. E per , segno che io non voglio pregifjkdicare alla libertà vostra^ vi rimando Vanello del nostro maritaggio. Né per questo si scemerà punto delVamor ch'io vi porto. — State sano e godete delle nuove nozze. — Di casa dalla vostra mo* glie» — Giulietta sfortunata. i> GisiP. Vien tu dai morti, Satiro, con queste cose? opput qualcuno ci vuol far qualche beffa? Sat. Io vi dico, che Giulietta è viva, e che da lei vi 80n mandate. GisiP. è sogno questo ch'io odo, o fu sogno quello ch'io vidi. Oh Dio, da quanti diversi accidenti è com» battuta in un tempo V anima mia ! Ardo, tremo, mi maraviglio, non credo, m'allegro, mi contristo, mi ver- gogno. Satiro, noi la vedemmo pur morire; e se mori, come è risuscitata? e se non è morta, chi fu quella che vedemmo morire? Sat. Ella m'ha detto, che a stare in poppa misero lei; ma, nell' atto del morire, fu messa un' altra in suo scambio; e che quelle fusto furono prese poi dalle galere del Papa. Basta che dopo molti accidenti sotto nome di Agatina, si trova qui schiava per forza del Fattore di madonna Argentina. Deh. £ come ha notizia di lui, se si ha mutato il no* me ancor esso? Sat. Il gioiello che avete mandato a madonna Argen- tina ne le ha dato indicio; dipoi ha veduto me, e io l'ho chiarita del tutto. Gisip. Oh Giulietta mia Deh. Dove andate voi? Gisip. A vederla. Deh. Adagio. Voi non pensate la inimicizia che avemo col Cavaliero. Gisip. Pensateci voi, che mi ci avete inesso. 70 GLI STBACCOOHI Dbm. Io tì ci ho messo per bene; e il buon consiglio non si conosce dairavvenimento , e non ha la mede- shna orìgine. A me pare di avervi ben consigliatole che voi abbiate mal proposto. Se mi dite che Giu- lietta è morta, ho io dunque a pensar che risusciti? Gisip. Or questo non importa^ pensate al rimedio; ch*io non posso pensare ad altri che a lei. Deh. Il rimedio ci ha dato la fortuna per sé medesi- ma, per distornare il parentato ; poiché in un medesimo tempo s'è ritrovata la vostra Donna e il marito di madonna Argentina. E in questa parte la cosa cam- minerà co'suoi piedi. Bisogna ora che ci guardiamo dalla inimicizia del Cavaliere: e che mandiamo quiBar- bagrigia a madonna Argentina, e Satiro a Giulietta. £abb. Éche ho io da fare con la comare? Dem. Bifèrire quel che avete sentito e veduto, e non altro per ora, Sat. Ed io con la Giulietta? Dem. Portarle la risposta di questa lettera e consolarla, che lo farai facilmente , essendo informato del tutto. Messer Gisippo, andatevene voi a casa con Satiro: ùkte questa risposta e mandatela. Gisip. SI... volete eh' io stia tanto a vederla? Deh. Ben, ben. GisiP. Che volete che le risponda, ch'io non istò in cer- vello ! Dem. Amor vi detterà la lettera, e Satiro la porterà. Que- sto basti. Andatevi con Dio, che i Canali vengono di qua per farci pigliare. Lasciate la cura a me con loro; e voi, Barbagrigia, fate quel che v'ho detto. ATTO (OTNTO. — se. in. , ZI SCENA TERZA. Slraeeioai, Demeirio, Proeuraiore. Giov. Tindaro debbo esser di qua, eh* io veggo 'il"ijj|b compagno. " ' * ' Batt. e il Bargello potrebbe esser in CampodifiÒ^e; voglio andar per esso. Dem. Fermatevi| messer Battista, che vi renderemo cótì^ della Giulietta senza Bargello. .j Batt. Che conto ne volete rendere se è morta? ' ' ! ' Dem. La Giulietta si teneva ben per morta, ma non era : ed è viva. 'ili*' Giov. Pastura per trattenerci. Dem. É cosi come vi dico. Giov. Dove è ella? t ■ 1 1 » . i i Dem. Lo saprete poi. Batt. Non debb*esser vero. Dem.. Io dico ch'ella è viva e sana; cosi fosse ella' con- tenta! • } Giov. Diche? '"; Dbm. Del* suo Tindaro. Batt. E come la potremo contentar di Tindaro cli^ ha preso un'altra moglie? ' ' . Dem. Sua moglie sarà Giulietta, se voi vorrete. . ' Giov. E come? vuol essere marito di due? Dem. Di lei sola, se ve ne contentate. Batt. Come può esser questo? Dem. Basta che sarà cosi. Giov. Se si può fare ; s' ella non è morta. ' ' Dem. Dite che ve ne contentate. . ', Giov. Ce ne contentiamo. ' , Dem. Ma io vi scopro che son Demetrio, e mi irKlIe^gib con voi di questa commune allegrezza. Giov. Ah, Demetrio! •i 72 eLI BTRAOClOm Batt. Ah, Demetrio, a noi!... Deh. Oh non entriamo ora sulle doglienze. Io ho fatto quello ch'io ho fatto, per bene; e per bene Tavete a ricevere, e ben sarà. Giov. Giulietta è viva? Deh. É viva. Giov. Dove si trova? Deh. In Roma. Giov. In che loco? Deh. In questa casa. Batt. Oh ecco il Procurator che n* esce tutto al- legro. Giov. Che ci è di buono, messer Bossello? Pboc Quel che vi mancava per farvi felice : vostra fi- gliuola. E io vi ho fatto cosi servizio a farvi ricu- perar lei, come la roba. Batt. Oh, messer Bossello, è pur vero che sia viva? Giov. Oh Giulietta mia! Batt. Che sorte è questa , che fu data nelle mani a voi! Pboc. Sorte ^appunto. Mi sono abbattuto, che questo tristo di Marabeo con un altro la trascinava per forza^ per tramandarla e darla (come ho ritratto da lei) in mano del cavalier Giordano. Deh. Del cavalier Giordano!... Guarda scambiamenti di mogli che erano questi! Giov. Oh Dio, che sento io di mia figliuola! Pboc. Basta; io Tho liberata, e Tho depositata in questa casa* Dipoi mi tono informato da lei; ho inteso tutti i casi suoi; ho trovato che è vostra figliuola , ho proso la difensione della sua libertà; e farò che questi ri- baldi siano castigati. Batt. Oh, signor Procuratore,. noi saremo felici per le vostre mani; e voi sarete ricco per le nostre. Giov. Oh, figliuola mia! Signore, è forza ch'io vada a vederla. ATTO QUINTO. — (BC. HI. 73 pROC. Andatevi ^ che io me n* andrò dal Grovema- tote. Dem. Ed io me ne verrò con Vostra Signoria, per qnel che potesse bisognare Topera mia. Pboc. Sarà ben fatto. SCENA QUARTA. Ds^fETBio, Procuratobe, Giordano* Dem. Signor Procuratore , questo è il cavalier Gior- dano, che poco fa volse ammazzar messer Gisippo e me. Se viene alla volta mia, siatemi testimonio ch'io io la tnSÀ difésa. pROC. Coigi^ ammazzare e perchè? Dem. Questo Gisippo e quel Tindaro, che avete inteso, son tutt'uno. La Fortuna ha tramato un giuoco di loro e delle lor mogli, che ci ha condotto a questo. Ma l'intenderete a bell'agio. Ora gli voglio aver rocchio alle mani. GiOR. La rabbia mi divora , finché non mi sfogo nel suo sangue. Ecco qua quel suo compagno. — Cac* eia mano! Proc. Che farete, Cavaliero? GiOR. Tiratevi da parte, voi. Proc. Che inBolen^a è questa vostra! non vedete di essere in cospetto del Principe? GiOR. Come del Principe! Proc. State saldo. — Che avete voi da far con co- stui? GioR. Che ha da far Gisippo con la mia donna? Dem. Pratica solamente di onesto matrimonio. Ma voi, perchè gli tenete e gli sforzate la sua? GioR. Qual sua? Dem. La Giulietta ! GxoB. èltf Giulietta? 74 . GLI 9TRA€0I0HI Dm. L*Agatìna ; intendo che la dimam^ate. GiOB. Io conosco TAgatina per ischiava di Marabeo, e non per donna di Gisippo* Deh. £ Gisippo non conosce voi per marito di madonna Argentina. GiQB. Io sono pure. Deh. Se voi siete, non eravate al creder d'ognuno, nonché nostro. Pboc. Cavaliere, non si vuol esser cosi precipitoso alla morte degli uomini. -GiOR. Dunque volete voi che un gentiluomo mio pari, nella sua patria, nella sua casa, sofferisca di esser offeso nell'onore della donna e della persona sua stessa da uomini vili e forestieri, come sono questi? Deh. Cavalier, parlate onesto. Intendete la cosa a sangue freddo; che noi non vi avemo fatta ninna delle ingiurie che voi dite. E quanto al tenerci per uomini vili, voi ci avete fatta tal superchieria, che, per forestieri che siamo , vi mostreremo presto chi sono i Coresi e i Canali di Scio, due casate ingiuriate da voi. GiOB. Oh, questa sarà bella, che ci vogliate t^e i ca* sati, come ci volevi tòr la moglie e la robai Dem. Perchè? Sete dei Coresi voi? GiOB. Si, se voi volete. Proc. e dei Canali?... ... GiOR. È la donna che noi avevamo tolta. Dem. Di chi sete voi figliuolo? GiOB. Chet mi volete torre anche mio padre? Pboc. Che favola è questa! State a vedere che costoro si faranno parenti. Dove è questo messer Gisippo ? Deh. In casa. Pboo. Di grazia, fatelo venire fin qui. Atto. oim^TO. — se. v. fio SCENA QUINTA. Procuratore, Gisippo, ciordwoo^ SlraeeioBi^ Piluee», M a^aV^^o. Proc. Cavaliero, se voi fate di questi scherzi a tempo di questo Principe, vi sarà tagliato quanto capo avete. Troppo grande ardire è questo vostro, di far privato carcere questa città*, di sforzar le donne, di ammais- zar gli uomini, e di aver si poco rispetto a un Prin- cipe come questo. GiOR. Io cerco giustamente di vendicarmi; e merito piuttosto compassione di non aver potuto, che castigo di averlo tentato. Proc. Voi pensate una cosa, e sarà forse un'altra. GiOR. Ecco qua quel traditor di Gisippo. Proc. Cavaliere, non vi movete, che voglio intender io questo caso. — Messer Gisippo, venite qua. GiOR. Gbippo, Gisippo! GisiP. Giordani Giordano! Proc. Cheti, e senza colora. Rispondete solamente a quel che vi dimando. — Cavaliere , non siete voi Romano? GiOR. Sono nato a Roma. Proc. Vostro padre è vivo? GiOR. Signor no. Proc. £ il vostro? GisiP. Manco. Proc. Donde fu il vostro? GiOR. Genovese. Proc. E il vostro? Gisip. Sciotto. Proc. Infine a ora sete di una giurisdizione. Erano anticamente cU questi lochi? GiOR. Il mio diceva esser venuto da Scio. 76 ^ GLI STBAOCIOHI Pboo. Eccoli di una patria. — Di che casato è il vostro? GiOR. De*Coresi. Peoc. e il vostro ? GisiP. Dei Coresi. Pboc. Saldi! E d'una casa sete. -- Come si chiamava il vostro? GisiP. Messer. Agabito. Proc. e il vostro? GiOR. Messer Franco. GisiP. Voi figliuolo di messer Franco mio zio? GiOB. Voi figliuolo di messer Agabito fratello di mio padre ? Proc. Piano. GiOB. Oh io non intesi mai che avesse figlio che si chiamasse Gisippo. Gisip. E Tindaro? GiOB. Tindaro si. Sete Tindaro voi? GisiP. Si sono- GiOB. Oh, perchè Gisippo? GisiP. Basta ; per buon rispetto. GiOR. Ma chiaritemi prima d'un dubbio. Sapevi voi, * Gisippo Tindaro che voi siate , che vostro padre avesse questo fratello Romano? Gisip. Signor no ; ma si bene a Genova. Proc. Cavaliero, dunque vostro padre venne di Genova a Boma? GiOR* Signor si; aperse qui una ragione con i Centu- rioni, quattro anni avanti al sacco ; e poco dipoi eh' io fui nato^ si mori. Pboc. Questa partita è chiara. Voi sete cugini al si- curo. Ma fermatevi. Dite voi, Cavaliero, che la vo- stra donna è dei Canali ? - GiOR. Signor si. Pboc. Di chi figliuola? GiOB. Di messer Paolo Canali. ATTO QUINTO. — SC. V. 77 ProO. Di. quel che fu protonotarìo ? GiOB. Di quello. GisiP. Oh, che sent'iol Giulietta mia dunque è cugina d' Argentina. Pboc. Come cosi? Gisip. Questo messer Paolo fii fratello di Giovanni Canali, il quale è padre della Giulietta, e ora è qi^i con un altro suo fratello. Pboc. Che sono gli Straccioni? GisiP. Cosi mi par che gli chiamino ; ma sono dei Canali. GiOB. Questi sono dunque i zii di mia moglie. Pboc. Oh, so troppo che è questo. GiOB. Essi son qui, e io andava a trovarli in Levante!- Pboc. A che fare? GiOB. A far partito con loro dei beni di questo mes- ser Paolo, che appartengono alla mia donna. Pboc. Vi è caduto il cacio nei maccheroni , e forse che non avranno ben il modo di darvene qui la va- luta. — Tindaro e Giordano , voi state cosi in ca- gnesco? Come 9on vi riconoscete voi! vi sete pur fratelli. GisiP. Cavaliere, io mi sento tutto non so in che modo intenerito , e 1' animo mi dice , che voi sete del mio sangue, sicché vi perdono la superchieria che mi avete fatta, e vogliovi per fratello. GiOB. E io vi vorrei poter perdonare quella che avete fatta a me; ma le ingiurie delP onore non si pati- scono cosi di leggieri. GisiP. Neir onore avete offeso voi me j a sforzare la mia Giulietta. GiOB. Io non V aveva prima n^ per Giulietta né per vostra. Dipoi, sebben Tho tentato, noni- ho però fatto GiSiP. Ed io non v' ho né fatto né tentato di farvi di<> sonore. E se tra madonna Argentina e me si é trat- tato di parentado, pon ci conoscendo per parenti, ed 78 GLI STRACCIONI essendo voi tenuto per morto , èra lecito all' uno e air altra. Ora voi sete vivo, e il parentado non - è se- guito. In che sete offeso da lei o da me? GiOR. Dubito d' adulterio. Pboc. Ah, Cavaliere ! da madonna Argentina? Gisip. Questo non si troverà mai. Di ciò dovere! so- spettare io, avendo voi avuta la mìa in poter vostro. GiOB. Tindaro, voi vi potete vantar di aver una donna di pudicizia e di costanza inespugnabile ; e nelle mie mani non è stata violata. GisiP. Io lo credo a voi; e voi dovete credere a me, poiché vi son fratello, che la vostra^ sia, per mio conto, incorrottissima. GiOR. Vi voglio credere ; e per vostro detto e per ri- scontro della sua vita passata terrò lei per castbsima, e accetto voi per cordialissimo cugino. Pboc. Vedete, di quanta gran confusione quanta con- cordia è nata! per Dio, che questa mi pare una co- media. — Oh, ecco gli Straccioni che si sono rivestiti. Giov. Straccioni semo noi stati; ma ora semo fuor di stracci. Batt. Semo ricchi. Giov. Semo contenti. Batt. Non saremo più pazzi. Giov. Avemo guadagnati oggi trecentomila ducati. Batt. E ricuperata una figliuola GisiP. E acquistato un figliuolo, che vi sono io. GiOB. E ritrovata una nipote, che vi è mia moglie. Giov. Qual nipote ? Ora che siamo ricchi , i parenti fioccano. Batt. Nipote da canto dei nostri danari. Pboc. Nipote da canto del vostro sangue, figliuola di messer Paolo vostro fratello. Giov. Di messer Paolo nostro fratello? Batt. Di messer Paolo ? Pboc. Oh^ eccola che vien di qua ; ed ecco messer De- ATTO QUINTO. — ' «C. V. . 79 meilio, ed ecco la Griolietta. Oh qui ci sftrebbe dftfer tutta notte, se volessi aspettar che ognuno facesse la sua accoglienza e il suo sermone. Fermatevi tutti. Voglio che facciamo un bel ciabaldone d' ogni cosa. — Cavalier, madonna Argentina è vostra moglie ed è gentildonna Argentina. Le avete a restituire il vo- stro amore e la sua fama. Giulietta e Tindaro si sono d'accordo moglie e marito, e ve ne dovete contentare. Giov. Ce ne semo già contentati; e ora, della lite che avemo vinta, ne diamo a lui per sua dote centomila ducati. pROC. Guata boccone! Giov. E a voi , per le vostre fatiche e per la vostra amorevolezza, duemila. Proc. Per cortesia vostra e gran mercè. — Or notate: madonna Argentina , moglie qui del Cavaliere , è fi- gliuola di messer Paolo Canale vostro fratello. Cosi viene a essere vostra nipote , cugina di Giulietta e cognata di Tindaro. Tindaro è cognato d'Argentina e cugino di 'Giordano. Giordano è cugino di Tindaro e cognato di Giulietta. Giulietta è cognata di Gior- dano e cugina d' Argentina. E voi sete padri , zii e suoceri di Giulietta , d' Argentina, di Giordano e di Tindaro. Ora dove è congiungimento, si stringa ; dove non può essere, l* amore diventi carità. Spartitevi per ora gli abbracciamenti tra voi, e poi più per agio vi farete le belle -parole. PiL. Questa è una grande abbracciata ; Marabeo, esci fuorì^ che le cose si rappattumeranno anche per noi. Mar. Ecci il Bargello ? Pili. Non V è , vien pur via. Mar. Guardaci bene. Proc. Oh, questi son quei ghiotti. — Voi, per far bella questa festa, avete a esser impiccati; e ora vo dal Governatore per farvi questo servizio. GiOR. Signore | per non travagliar me , che sono inte- 80 ÓU STaACOIOKI ressato in questo disordine , e per non interdire una allegreasia eome questa , vi domando , di grazia, che non ne parliate altramente. Proo. Si, ma fate pensiero che le forche ve lì prestina PiL. No , no ! Da qui innanzi volemo esset» uomini dabbene. Proc. Durerete una gran fatica. Mar. Fatevi perdonare ancora a madonna Giulietta. Proc* Orsù, che non si rivegga nisSuna delle cose pas- sate. Su! Mar. Né anco i miei conti s* hanno a rivedere? ne farei un bel guadagno, per dio? PiL Oibò , non hai guadagnato assai che ti Padrone sìa tornato? Mar. Tu di* il vero? £ per questa allegrezza non vo- glio che abbia più briga di conti. Padron, facciamo che siano saldi fra noi; e se m' avete a dar qualche cosa, di bel patto ve ne fo un presente. Proc. Questo si, che mi pare il tempo di CioUo Abate ! GiOR. Voi vedete. Or si, che ne sono* contento an- ch' io. Su ! Proc. Già séte contenti tutti ; e cosi siate sempre. Or dinate le nozze, e datevi buon tempo. — « £ voi, Spet tatori,' fate sO'gno di allegrezza. Fine dbgli Straccioni* j COMMENTO DI SER AGRESTO DA FICARVOLO SOPRA LA PRIMA FIGATA DEL PADRE SICEO Coro. . p- » ■ Il COMMENTO SOPRA LA PRIMA FICATA. AL SIGNOR HOLZA e M. ANNIBAL CARO IL BABBAGRiaiA STAMPATORE. I Capricci ( come disse il Bernia ) vogliono venire agli uomini a lor dispetto. Ed io ho inteso dire al Pazzacone^ che fanno di mali scherzi altrui a tenerli in corpo per forza : che siccome essi nascono prima di Frinfri, e di Ci' tri, e di Griccioli rattenuti; cosi da essiy se non isvapO' rana , si vengono facendo di mano in mano Coccole, Fre* gole. Struggimenti, e colali altre voglie spasimate, le quali, impregnandosi di Ghiribizzi e d' Arzigogoli , partoriscono poi Capogiroli, Castelli in aria. Frenesie, Arcolai, Girelle, Girandole , e simili, e ptò altre spezie di furori, E se queste ancora si trattengono , tutti insieme abbottinandosi per uscire a ogni modo, vanno tanto ruzzolando, disguaz» zando, e sgominando il cervello, la fantasia, la memoria e tutte quelle camerelle, che costoro dicono che noi abbiamo sotto la berretta, che ci guastano tutto il capo ; perciocché rimescolandolo, come udite, lo ritornano in Caos, e lo danno a saccomanno aW umore , il quale poi s* assomiglia con la pazzia, che è quasi la materia prima della nostra zucca, E da questi due nascono quelli tanti, e di tante sorte, slra» volti, furiosi, e sriocchi concetti, che ci fanno correre lutto 84 DEDICA ti ffiofido per nostro. Onde che per non dar nel paxzOf ve- nuti che $ono i capricci y non iolamente Miogna lasciargli svampare , ma perchè ioti certe bestiuole boriosuzze ed t- sventatCj è forza che a nostro dispetto li scriviamo, li re- citiamo f ed ultimamente che li stampiamo. Stampati che sono , e mandati attorno in cima d* una Canna ( che que- sto è quel supremo trionfo, a che essi possono giungere nella cittadinanza degli altri pensieri) pongono termine aW amHzion loro ; e si contentano di tornare cittadini privati, lasciando liberamente il governo del capo al Padre Senno, il quale, stando bene con esso loro, siede poi sen- z* altro contrasto Gonfaloniere a vita. Ora, %. Molza, questi Capricci sono venuti a voi di fare la Ficheìde , e a voi Gompar Caro, di commentarla, come vengono agli altri delle altre cose. E siccome non potevate riparare, che non vi venissero, cosi non potete tenere, che non facciano ora il restante del corso loro. Voi gli avete scritti, e reeiiati, e avete fatto un gran bene per salvezza del vostro capo. Che poi vi siate impuntati a non istamparli, non mandarli a processione, a voler tor loro la preminenza della Canna oltre che non fate sanamente , non vi dovete maravigliare se a vostro dispetto sono sbucati fuora, e se per tutto vanno dicendo d' essere usciti di capo a voi, e d' esser vo- stri figliuoli, come sono. Perciò che gli hanno per male , non tanto che voi gli impediate , quanto che li diserediate, e vi vergognate di loro , e che sendo nati di ^ generosi Padri, gli abbiate voluti battezzare per del Padre Siceo, e di non so chi Ser Agresto. son lascivi , e scorretti ; $ si stano! Basta assai, che non sono sporehi, né vita» perosi. Benché quanto alle scorrezioni ci si é rimediato; che H mio Prete ed io siamo stati lor correttori alla stampa, tanto che ora non manca loro né un punto, né una jota. Quanto alla lascivia , sebbene io non m* intendo d* altra lingua che del Gergo, Messer Lodovico Fabbro da Fano, che m' è Turcimanno di queste lingue, e consiglier dell' o- Ipsré che io stampò, mi dice, che gli hanno pur tanta di DSL BABBAOBIOIA. 85 gentikxza^ $ H mode$tia, che dove queUi degli aUri uft questo genere j tanto de^ Grecia quanto de' Latini , e dei Volgari, vanno la più parte ignudi e senza brache, essi vanno tuiti vestiti, e con le mutande, E quello^ che più importa^ è, che eglino non vi stanno pi:ì in corpo ; che cosi, oltre al pericolo detto di sopra di farvi impazzarci polrebbono al- meno far divenir lascivi e scorretti voi, quali essi sono: tendo quasi forza^ che quello^ che non si dice^ si faccia. La eo$a è qua. Essi svolazzano per tutto; si sa che sono vo- $tri. Mi seno venuti a dire, che io gli stampi; se non che andranno a trovare altri stampatori, con chi hanno di gi^ maneggi a Vinegia ed altrove: % quali mi sono opvedulOf che som quei medesimi Busbacconi, vituperio delVarte no* etra , che a vostro dispetto, Sig, Molza, e a lor perpetua infamia hanno avuto ardire di stampare, anzi di stroppiare l* altre vostre composizioni. Ma che vostre? che sono una cianfrusaglia di più cose di più persone, scorrette da loro, baltezzate a rovescio, masticate, peete, e concie in modo^ che non ne mangerebbero i Cani, Tanto che per compassione di quelli, e per paura che questi poverelli non capitino alle mani dei medesimi ( perche sendo vostri figliuoli, ed io Gri' ma e babbo come da voi son tenuto, H reputo per miei ntpo- tini) ho doluto essere il primo a dar lor ricapito, E gli ho spesati, e vestiti del mio , perchè compariscano orrevoli, E come da voi sono usciti, cosi a voi li rimando, pregane dovi, che per questa volta perdoniate loro^ e non v" adiriate meco, perchè io gli ho stampati per onor vostro, e per amor ch*io porto loro ; ea dirvi il vero, perchè mi guadagnino qualche Cuechio, E chi di voi V ha per male, se lo scinga, E se pure vi volete vendicare, fatemi wi' opera contra, ed io la stamperò di bando. Smaltitevi per ora questa eollerOf e state sani. PROEHIO DEL COMMENTATORE Poiché questi Padri virtuosi mi sforzano , che ancor io dirompa sopra alle madri Fiche, ecco , che mi sono abracato a darvi dentro. Ed alla bella prima verrò eon esse alle strette. Perchè se volessi aspettare le frega^ gioni, e disporre, e spianare, e dividere, e infilzare l'una parte dietro Taltra, secondo la legge, e i colpi maestri degli altri Commentatori più pratici eh* io non sono y terrei troppo a disagio la fantasia, che io ho già dritta a compir presto questo lavoro. Il titolo deiropera è la Ficheidaj o Ficheide, perchè Prisciano non facci ceffo. n soggetto sono i Fichi, o le Fiche; che neirunmodo e nell' altro sono chiamati dall* Autore , con tutto che i Toscani se ne scandalizzano , perchè vorrebbono i Fichi sempre nel genere del maschio. La qual cosa (in questo luogo massimamente) non mi dà briga, né anco presto lor gran fede; sapendo che s'intendono piuttosto dell'altre frutte, che di questa. Oltre che, po- trei io mostrar loro, che si trovano Fichi maschi, e Fi- che femmine ; ed allegherei da un canto le Fiche lesse, le Fiche pazze, dall' altro i Fichi Atteroni, i Fichi delle Tribadi, il Fico di Modena, di che altra volta abbiamo disputato nella Diceria di santa Nafissa t ed addurrei mille altre ragioni, che muovono l'Autore a cosi chia« 88 PROEMIO marie ; le quali mi passerò per non intricarmi fuor di proposito nella questione del Valla, che, per dichiarare i generi e le Tariazioni dei Fichi, fece anch* e^li ana ficata , ed uno scompiglio di grammatica , che non Io intenderebbe Vaquatù. Bastivi per ora di sapere che il Poeta, non senza misterio, li battezza Ermafroditi, e che per tutta l'opera troverete, che hanno confusamente due sessi, e due sensi ; e di questi uno è secondo la lettera, r altro secondo il misterio , come di sotto vedrete. Le lodi dell' Autore andranno insieme col nome , che in battaglia è Padre Siceo, Il rimanente dirà la fama: che se io togliessi a celebrarlo, sarebbe come dire, che Messer Domenedio fosse un uomo dabbene, ed un far fede per me solo di quel che sa tutto il Mondo. Oltre che in presenza di lui non posso lodarlo senza offesa della sua modestia. Ma per mostrare, quanto sia com- petente Griudice in questa causa, come dicono i Legisti, mi par solamente da dirvi, che egli oltre all'esser gran Poeta e grandissimo Filosofo naturale , ha speso più tempo a investigare i segreti della natura Ficaie , che Endimione a speculare i moti della Luna. E se quelli ne fu tenuto dalla Luna per innamorato , questi ne è stato chiamato dal Mondo per padre ; come se ognuno gli fosse figliuolo. E come Alberto fu detto Magno per avere scoperti i segreti delle donne ; esso è cognominato Divino e Perfetto per aver rivelati i segreti de* Fichi. E con tutto che di sotto confessi di non averne tocco ancor fondo, si vede pure che s' è disteso più a dentro, che nessun altro ; ed io non potendogli andar di pari, né passare innanzi , mi dimenerò quanto potrò per an- dar dietro, circoscrivendo destramente di fuora via, o quanto più posso disnocciolando dal canto mio quel che egli andrà dal suo profondamente trattando. E quanto alla lingua io vi protesto, che non voglio esser tenuto d'usare né la Bocaccevole, né la Petrarchevole, ma so- lamente la pura, e pretta toscana d'oggidì, e della co* DEL COMMBKTATOBB 89 mune quella parte, che ancora da essi Toscani è rice- vuta: si perchè tengo, secondo l'antico precetto, che, in queste materie massimamente, si debbano spender sempre quelle monete che corrono (sendò però di buona lega e di buon conio), si ancora, perchè dicendo il Pe- trarca, mal si conosce il Fico, vo pensando se a quel tempo n'avevano poca notìzia, che io in questo caso mi posso ora molto poco valere e dello stile e della dot- trina loro. Ma per non J perder più tempo, veniamo al Testo. Il II ir p^u DELLA FI€HEIDE DEL PADRE SICEO . FI e A T A Di lodare il Meilone area peesato ; Quando Febo sorrise, -e non fia vero, Che U Fieo, disse, resti abbandonato. COMMENTO DI SER AGRESTO. Per dicbiarazione di questo primo terzetto è da sapere che il Poeta si trovava con Apollo, e con le Muse, come è solito; perciocché sono sempre insieme, come le chiavi e *1 materozzolo. Passavano davanti al giardino della Madre Pomona, quando Priapo, sentendoli al suon della Lira e pel cantar che facevano, come quello che si di- lettò sempre di Poesia, li chiamò dentro a spasso. £ sapendo, che il Poeta aveva quella tanta cognizione, che di sopra si è detta, per averlo amico, e perchè gli facesse un Epigramma nella Priapea, o un Capitolo in nome del suo Orto, che allora portava a concorrenza di quello del Padre Binuzio, fece che Pomona gli desse larghissima licenza: ed egli gli concesse una somma potestà di Verga sop^a tutte le frutte, ancora che non si sia mai curato di usarla, se non co* Fichi. Erano a caso nel giardino Ganimede, ed Hila, e certi altri Gar- sonetti, che guardavano le mele per Giove, le cotogne per Ercole^ le pesche, le grisomele, ed altre simili frutta. 92 DELLA FipHBIDB per altri Dei, fra li quali era Giacinto, che foceva in- cetta di melloni per Apollo; perciocché sopra quelli studia ogni mattina Tappamondo, avanti che esca a fsae il suo viaggio. Ora dicono che costui mise innanzi al Poeta un bel Mellone; e certi affermano, che gliene dette una fetta, e che egli, gustata la dolcezza del pomo mise mano alla penna per dirompere sopra al Mellone. Quando Febo sorrUe. Sotto questo riso intendete, che volle dire: Addio, Padre Siceo; ancora a te sa buono il buono. Ma non fia vero che 7 Fico, cioè quella tua frutta ùl- vorita, e sopra che tu hai tanto filosofato, resti abban- donato, cioè, che tu lo lasci per un'altra frutta. E! nota qui, che Apollo dette cartaccia, perchè non voleva, che si manomettessero i Melloni, i quali, secondo il Fanfa- luca, sono l'Ambrosia, che ministravano que'garzonetti alla mensa di Giove, e degli altri Dei. E dice, che an- ticamente non se ne trovavano, perchè, mentre gli Dei gli usarono per cibo, non fa lecito agli Uomini d'averne. Ma poiché quella lor Deità mancò, cominciarono a tro- varsi, e ad essere concessi ammortali. Ma ora, con tutto che Apollo fosse ancor fuoruscito del Cielo, per mantener i Melloni in quella prima riputazione, non voleva che si manomettessero. Onde che per divertire il Poeta dal- l'impresa fece subito comparir le Muse con certi panieri di Fiche fresche, e di quelle feeero tutte insieme una buona corpacciata. Pòscia cantando di concerto: La Vecchia sta in su *l Fico, s' inviarono verso il Ficaio. Cosi distolto il Poeta dal Mellone, Apollo di nuovo messo in corda lo stromento, e preso l'archetto in mano, disse alle Muse che gli facessero contrappuhto, ed al Poeta, che era già con la sua penna in ordine, comandò che copiasse tutta questa lor serenata. Intanto le signore Fiche, a chi la facevano, aperte le finestre, stettero con grandissimo piacere a riceverla. Dice il Grullone in quella parola Sorrise, che Apollo si portò da compagno col Poeta ad ammonirlo solamente col riso ; dove quando DEL PADRE SIOBO. 93 ammoni Virgilio; mostrò d'essergli maestro, perchè gli tirò rorecchio, e trattoUo da fanciullo. Però 86 di segair brami il sentiero Glie '1 Bercia eorse col cantar sno pria» Drizzar quivi l' ingegno or fia mesiiero. Segue Apollo dicendo. Non essendo dunque ragione* vole^ che tu abbandoni il tuo Fico, e volendo poetare secondo la via del Bemia, ti conviene operare il tuo stile a questa materia delle Fiche. Fu il Bemia un certo uomo di messer Domenedio, il quale, con tutto che volesse essere Poeta rabbuffato dalle Muse, che non s' adattasse a scrivere , secondo che gli dettavano, B*abbottinò da loro, e disse tanto male d*esse, e deToeti, e della Poesia, che ebbe bando di Parnaso. Ma tosto che si avvide, che senza questa pratica era tenuto piut- tosto per Giornea che per Bemia, si deliberò di rappat- tumarsi con esso loro. Ed appostando un 'giorno, che stavano nel medesimo giardino, fece tante moine intomo alle Berte, che son fantesche delle Muse, che si fece metter dentro per la siepe, e come quello ch*era il più dolce zugo del mondo, trovandosi dentro, fece tante buffonerie, che le Muse ve lo lasciarono stare. Dipoi s'ingegnò tanto, che rubò la chiave del cancello alla Madre Poesia lor Portinara ; e misevi dentro una schiera d'altri Poeti baioni; che, razzando per l'orto, lo sgomi- narono tutto, e secondo che andarono loro a gusto, cosi colsero, e celebrarono, chi le Pesche, chi le Fave, chi i Citriuoli, chi i Carciofi; e chi d'altre sorti frutte. Fe- cero poi sei altre cose da ridere; tolsero le Calze al vignaiuolo; fecero il Forno, la Ricotta, le Salsiccie; piansero la morte della Civetta; e si belle tresche tro- varono, che le Muse, per ricompensarli di tante piace- volezze, dettero loro la copia di tutto il registro delle Chiacchiera. E perchè di tutte queste cose fu Cagione 94 !>ELXiA FICtIBnOB' il ìStLon Beruia, il Poeta meritevolmente lo nonmia pei 10 primo, che corresse Y aringo della barlesea * poesia. 11 Padre Siceo non entrò egli per questa via del Bemia, perciocché s'era concio prima con Apollo per iscrivano delle faccende del Mastro di casa, e si stava in su la gravità con le Muse, perchè s'arrecavano in contegno Con esso lui. Ma poiché vennero questi buoni compagni, e s'avvide che le Muse ancor elle volevano il giambo, si mise in frotta con loro a fare ancor esso delle baie. E cosi scrisse dell'Insalata; scomunicò le Scomuniche, e voleva dir del Mellone, come avete udito; se nonché Apollo gli disse, che attendesse ad altro, perciocché gli bisognava driaszare V ingegno alle Fiche. E nota, che Apollo disse Driazarej perché secondo lo Sdrucciolino, ogni poco che avesse chinata la fantasia dal Fico per la vicinanza delle frutte, avrebbe potuto dare, verhi grazia, nelle Mele. Ma il Grimaldello vuole, che drizzar r ingegno sia metafora presa dai Chiavari, che quando la toppa non riscontra bene con la chiave, drizzano gli ingegni per aprire; e che sia vero, guardate, dice che appresso segue, Taprirò. Io sarò teco, e t'aprirò la via, Per la qaal veaghi a si lodata impresa, Senxa par mescolarvi una bagia. Dove gli altri, dice Apollo, hanno per iscorta le Berte, ó lodano le cose come sofisti, io che sono lo Dio della verità, sarò tua scorta a dir le vere lodi del Pico, senza fare argomenti a rovescio. Il Forca gli dà un senso più recondito e dice cosi: Perché tu non hai si penetrativo ingegno, come si converrebbe a una si profonda mate- ria, io, che fo le mie cose con fondamento, ti farò la via innanzi, e mostrerotti tutti i colpi maestri senza uscir mai del suo dritto ; e vuole, che in questo loco le Bugie siano, come dire, punte false. Ma il Giuccari, D^L PADIIB StC£Ò. 95 leggendQ (^[iiMta gran liberalità d'Apollo, (xmiinciò A ridere, *e disse: In verità, che gli faceva un gran ser' yigio a volargli aprire la via del Fico, come se non fosse pur troppo larga. Io gli replicai, che aprir la via era metafora. metter fuora, o metter dentro, disse egli, non bisognava che pigliasse questo disagio, perchè il Poeta era tanto pratico, che sapeva andar da sé. Io soggiunsi: Intendi sanamente, Giuccari. Aprir la via vuol dire ÙLt lume. Oh! tu sei un balordo, rispose. Non sai tu, che vi si entra a chius 'occhi? Ora intendetela come voi volete, ch'io non vo'combattere col GiuccarL Io, ehe la penna in mano avea gii presa: Per me^ dissi, non resli; eliè la mente Toita mi sento a darri dentro acoesa. Se il Poeta avesse avuto a trar la penna del penna* iuolo, e temprarla a gittare, sarebbe stata si lunga ma- nifattura, che portava pericolo che Apollo, il quale ha un cervello bl^lzano, non gli avesse volta la schiena, e ehe le Muse, e le Fiche non se Tavessero levato dinanzi; e però egli, che conosceva il furor loro, era stato presto a cacciar mano alla penna, e mostrarsi co' suoi ferri a ordine, e con la melate volonterosa di scrivere. Ed av- vertite che il CaraffuUa grammatico dice sopra questa parola mente ^ che l'Autore per non far contrabbando ai Toscani ha diminuite il suo diminutivo quanto alla lettera, ed ha ing)?andita la cosa quanto al significato cioè che ha scorcio mentola d'una sillaba, ed accresciuto, a quel che vuol dire, misura per ogni verso. Nò fia, che con tal Daca io mi sgomente: Dettami por tn, che i segreti Tedi 9 E qcesto rivo, e qaello, ed ogni gente. Diavol è, dice pure il Giuccari, che egli non aveva a temere ^ non dar dentro; se un giovinastro capitano^ 96 DBtLA FICHEIDE come Apollo con quel suo arco teso, gli m offeriva di investir prima. Perchè doveva ben pensare, che era per fare un aprir di schiere ed una spianata di sorte, che agevolmente avrebbe potato seguitare ancor esso. Perchè dietro a un capitano può bene entrare a largo un fan- taccino. Dettami pur. Questa è Tinvocasdone, come dire, Musa, mihi causcL» memora. Tu che % segreti vedt^ idest, che sai dove può essere V imboscata. E questo rivo , e quello, cioè sei pratico per lo paese; che, avendolo fatto capitano, bisognava dargli di queste, notizie, che son necessarie a'condottierì. E dice il vero, che Apollo vede i segreti; per ciò che è un Forabosco, che entra per tutto. Vedete, che esso fu quello, che scopei*se l'agguato di Marte e di Venere; e che abbia notizia del paese, si sa che ogni giorno fo una scorribanda per tutto il Mondo. Con le man sforierommi, e con li piedi Di porvi dentro tolto il aatnraie» E farò forse più, che la noa credi* Il Giuccari pur rìde, e dice: in fatti questo cristiano avea una gran paura di non ppter entrare in questa materia ; vuol menar le mani, vuol .appuntar i piedi al muro; par che vi si voglia mettere, come si dicCi con Tarco dell'osso. Io credo che si dia ad intendere, che ci bisognino le forze d'Ercole a questa fEiccenda: che Dio gliene perdoni. non sa egli, che dalla natura al naturale non è proporzione, e che v'entrerebbe con un capo grosso quanto un appamondo, non che con quel suo ingegno sottile, e dilicato? Ma il Giuccari, a dire il v^o, non la intende; perchè la forza, che vuol fare il Poeta, non è perchè dubiti non potervi entrare, ma perchè desidera, entrato che vi sarà, di penetrare nel midollo della casa. Che se guarda bene, egli si ram- marica più tosto dell'ampiezza del soggetto, che della DBL FADKR fllCEO. 9T strettezza. Dunque il vero senso è questo. Ancorché la matexja sìa profondissima, e il mio naturai sia poco, mi sforzerò con quel poco andare assai dentro. £ che sia vero, che avesse animo di entrare, vedi, ohe brava di sentirsi cosi ben disposto, che farebbe più che Apollo non credeva: che questo vuol dire, che si stenderebbe assai dentro. Benché trovo una chiosa, che vuole, che quel più sia quantità discreta, non quantità continuata ; cioè che significhi più volte, e non più oltre. ^Perchè non ho di qaello nn pezio Ula, Che far bastasse ad ogni 6ca onore, A me pregio divino, ed immortale ? Notate in questa affettuosa esclamazione tre cose. La modestia del Poeta; la sua affezione verso i Fichi; e il frutto, che si spera da loro. La modestia nel primo verso, dove par che diffidi del suo naturale, ancorché sia' grande ; 1' affezione nel secondo, dove parendogli di non averne abbastanza, ne desidera un maggior pezzo, per aver lo stile eguale al soggetto ; il frutto d' essi nel terzo, dove dice, che spererebbe da loro pregio di- vino, ed immortale. Vedete ricompense, che danno i Fi- chi ai loro benefattori ! E qui bisogna, eh' io vi dichiari, perchè pregio divino» Perchè salire in un fico, e gustar di quello è un andar verso il Paradiso. E che sia vero domandatene il Sonagli on da Ferrara che conta la sto- ria di Tognino dall'oche, la quale è questa. Che To- gnino pigliando moglie , ebbe per dote un campicello con un bel pièf di fico, e la prima volta che vi sali su per gustarne , senti tanta dolcezza , che parendogli di veder la gloria de' Santi , avanti che sbasisse , chiamò il suo barba , e con gli occhi stralunati , e con certi mugoli spasimosi, gli disse : — Mi barba, vi raccomand li oche , cha mi vo a vit etema — Ma lasciamo star Tognino, che era un sempliciotto^di qiielli^che v#npo (Wro, * 7 \ 9è DELLA FXCREXDA in Pftradiao per non poter fare altro. Il Petrarca per lo suo Lauro, qual dice, che e*gli era scala al fattore, d* un ramo in un altro, e d' una iu altra sembianza , non si levava all' alta cagion prima ? Or che avrebbe egli detto y se fosse salito per un Fico, che è da più che il Lauro, come si dirà appresso ? £d imfnorlaU puossi intendere, quanto alla vita naturale, e quanto alla fama, che è la vita seconda. Perciocchò molti uo- mini , e molti luoghi hanno avuto da* Fichi nome im- mortale : come Sicilia , che trovo nella Ficologia esser detta da' Fichi; e cosi le Sicelide verrebboiio a esser le Muse Ficarole ; la qual cosa non credo, che sapesse il padre Virgilio, perchè le avrebbe invocate piuttosto nella Priapea, che nella Bucolica. Siceo, Sicarba, Sici- nio, tatti quelli hanno fama dì grand' uomini , perchè hanno avuto nome da' Fichi. In Toscana Fighine, Monte Ficaie ; nel Pesarese Monte Sicardo ; nella Marca Ca- stel Figardo ; nel Ferrarese Figaruolo : in su le Chiane Fienile; in Fiorenza la Taverna del Fico , tutti questi sono nominati, ed immortalati dalle Fiche; e in questo senso pare che voglia dire il Poeta .che se avesse mag- gior Naturale , che non ha , spererebbe , che le madri Fiche, per li suoi buoni portamenti , gli dessero quel nome di Siceo , che gli hanno poi dato , e cosi lo fa- cessero immortale. Ma se la vogliamo intendere quanto alla vita naturale, dice Fra Stoppino, che il ^Poeta ha preso un granchio; perchè non vede, come si possa sperare dal Fico immortalità, se per la disubbicUenza dè'primi Parenti fu cagione dì farne mortali. Ma l'Abate Bruocolo risponde a questo, che il Poeta "dice benissimo, perchè sebbene il Fico ne fece mortali, quanto all'eter- nità dell'individuo, ne fa immortali quanto all' eternità della specie. A questa risposta Fra Stoppino alzò le ciglia ed andò più là. Ma perchè in questo testo è qualche punto degno d'avvertenza, farò ancora un poco d'Asoentio. Perchè dunque non ho ili quello^ di quella O09a» 4i quella faccenda, del cotale, che per qa^^inQpf4 assoluti 8* int^pde per eccellenza sempre il Naturale, come a dire il Filosofo, ir Poeta, s'intendono aei^pre Aristotele, e Omero, o Virgilio. Un pezso; un fusto, un catello, una quantità, che non intendessi pezzo per una parte, e credessi, che *1 Poeta non volesse tutto il Na- turale intero. Tah^ sfta qui pe^ tale e per tanto, perchè significa tanto lungo e tanto grande, in vece di tani^p: e per sé stesso vuol dire si animoso, si elevato^ i^\hen disposto. Che baatasse, idest, fosse tanto grande, pljie soddisfacesse in parte; perchè esser maggiore oegu^l^ è impossibile. Ad ogni fica, vuol dire per grande ch^ si fosse. OnarCy alzandole col suo stile in altg^. Benché Messer Biagio Ceremoniere dice, che il modo d'onorar le Fiche è il medesimo che onorar le persone; salvo che non si deve inchinare, ma del resto si sta lor dritto innanzi, si scappella, si va in q^a e in là, in su e in giù, secondo che lor grandezza comanda. Por dirò, scorto ornai dal tao favore, Che d'assai tìdco il Pico oga'altra froDde* PerdoDÌmi il tao Laaro, mio Signore. Con tutto ch'io diffidi dei mio Naturale, dice il Padre Siceo, poiché Apollo mi favorisce col suo Naturalone, non dubiterò di entrare in questo Ficaio. Notate, che quest'opera del Fico non si poteva compire $enza la fava; il qual Mìsterio vien dichiarato di 8otto|, e però dice: Scorto dal Favor d'Apollo; perchè favore, seconda il Dabudà, vien da fava. £ immaginatevi in qiieata luogo, che Apollo fosse come uno di quei Signori nei loro consigli, che per favorir questa impresa qiett^^ la sua fava nel bossolo ; perchè quando una oosa va a partito, quanto ha più &ve, più è favQrita. Q^e^ti ca« poccbi vanno cercando, che voglia ^ donna ^ palliti' 100 Z>SLIiA FICEEIDB Vuol dire una, alla quale ognuno, per farle favore, mette la fava nel bossolo. Il Capa&sone è di parere, che quel Favore avesse a dir Favone, ma che il Poeta fosse forzato dalla rima. Questi Grammatici sono troppo spi- golistri ; a me basta che il favore gli venisse dalla fava, ed isgrammatichi poi chi vuole. Che d* aasaù Qui co- mincia la narrazione. Ogn^ altra fronde. Figura della parte per lo tutto, che mette le foglie per le piante ; ed avvertite che il Poeta, nella prima mossa, Taccoccaad Apollo, ed al suo Lauro, e per riverenza gliene chiede perdono, non già che gli paia d' errare, perchè dice il vero, e dicelo a un proposito, che bisogna che Apollo, «vendo stomaco, se la passi, perchè Dafne si converte in quell'arbore per suo dispetto; e solamente per non dargli un fico. CiDto di Fichi il cria già sa le spoado Del Gaoge trioafb par tao Fratello : Ta '1 saiy al cai veder nulla s'asconde. Poteva Apollo a confusion del Poeta dar nella lira, e cantar del suo Lauro Arbor vittorìoaa trionfale Onor dlmperadori, e di Poeti E però innanzi si mette a dire, che il Fieo anch'egli fu trionfale, e prima che il Lauro ; e che Bacco trionfò neir India Pastinaca coronato di fichi. £ forse ch'egli allega uno strano? Dice, che'l trionfale fu suo Fra» Ulto , e che 7 sa egli stesso, che vede ogni cosa. Qui potrei io mostrare d' esser dotto in quatroque , a dir dove, quando e per chi, e qual Bacco trionfò ; a dir del Gange j dell' India, di questa lor fratellanza, e sei altre eose^ ina perchè son cruscate, di che ogni cova è piena, DBL PADBB 0XOBO; fOl ve ne rìmettjBrò agli scartafacci del Dottrinalo. 'Basta solo, che voi sappiate, che il Fico non solamente è trion- fale, ma il nome del Trionfo è venuto da lui se cercate la sua etimologia. E solo notate questo, che io trovo nelle Cronache di Sileno suo maestro, che il più bello trionfar di Fichi che facesse Bacco , fu nell* isola di Nasse, dove fu menato dalle Menadi al Fico, sopra che Teseo avea trionfato del Minotauro, quando ruppe le cento camerelle del suo Labirinto. Ohe per questo Fico se n'andarono in cielo, egli inficato da Arianna, e Arianna infavata da lui ; che di fave e di ghiande vuole che fosse prima ornata quella sua corona, che ora è di stelle ; e però dice, che in queir Isola s' adora Bacco Sìcite, che vuol dir Ficaio; e che in memoria gli si fanno statue di Viti, e di Fico. Altro fregio fa questo, e Tfe più bello Di quel che '1 Doge di Vioegia adorna AHor, ch'ai Buceotoro apre il portello. Forse che loda il Poeta questa corona di Fichi so- pra quella di Gramigne, o di Quercia, o di Mirto, o del> 1' altre, che usarono quei poveracci Romani? Dice, che era più bella che la berretta del Doge di Vinegia , e non di quella della notte, ma del Berrettone, con .che siede in BucentorOf* cioè nel primo trono delle sue Mae- stà, dove è suso un pieno Oriente di gioie le più pre- ziose, che si trovino. Bucentoro è un barcone in sul mare , che secondo certi fu copiato dall* Arca di Noè e secondo certi altri è V Arca medesima. A questi non cred'io, perchè l'Arca dopo il Diluvio rimase in secco. Alcuni vogliono , che sia Argo nave di Giasone ; né manco a questi presto fede, perchè quella fu riposta in Cielo. Altri sono di parere , che sia la barca , che condusse Antenore in quel paese ; e questa opinione ha del verisimile^ e qaasi V affermerei ; se non ch« il nomt '|09 t^iAAA 9*lt!lISÌI>É di ^ùcentoro mi fa credere, che sia queUa.nave d'Enei che era ctipitanata da Sergesto, della quale fa men- zione Virgilio, quìando dice : Centauro inyehitur magna. Perchè trovo, che B U in composizione significa grande; come Bulimia gran fame, Buthisia gran sacrificj ; e cosi mezzo alla greca e mezzo air Italiana ( secondo che essi Viniziani sono ancora mescolati), Bucentoro vuol dire il medesimo, che il gran Centauro di Serge- sto. £ cercando come possa essere capitato nel Golfo di yinegia , trovo in una Storia smarrita , che quando fu r incendio dell' altre navi troiane, questa era stata mandata da Enea a Padova ad Antenore per sussidj , e munizioni contro i Latini, e cosi scampata dall' ar- sione, dopo finita la guerra fu rimandata con le mede- sime genti che condusse, e quivi si rimase. A questa guisa si trova oggi nell' Arsenale ; e serve per residenza de* Magnifici solamente per quando sposano il mare, o rare altre volte, quando fanno qualche gran pompa. Ed al- lora il Serenissimo a uso di Nettuno con quei suoi vecchi marini intorno si reca quivi dentro tutto dritto, Ci9me nella maggior sua gloria, con quel Berrettone in testa, che si dice Corno, come quello del Papa Regno. Talli Brogiolli far, che fra le corna Del vinciior degli Indi fiaromeg(*iaro • A guisa di piropi in vista adorna. Dice, che se nel corno del Doge sono tutte gioie fi- nissime, fra le corna di Bacco erano tutti Fichi Bro- giotti, che sono Fichi preziosissimi. Qui cred *io che il Padre Siceo fosse rapito da una bella meditazion poetica, e dalla bellezza di Bacco a far si bei versi, Come Boù questi E mi par vlsdere, che b' itiimaginasse D£L PADRE SIOEO. 108 quelle belle foglione di Fichi, come smeraldi; con qnei Brogiotti fini, come piropi, con le loro lagrimette rilu- centi, come cristalli, fiammoggiare fra quelle cornicine di Bacco, come d' agata ; tra que' cerroni lucignolati, come d* oro ■, in quella testona bella, come di Dio, al- legra, come di vincitore, colorita, come di beritore; con quelle guance di rose, con quelle labbra di sciamitini, con quegli occhi pieni di spirito di buon vino; e che con questar immaginazione in capo partorisse questo terzetto. Oh ! e cosi lo vedesse una volta il Padre Ronta- non credete voi , che spirasse altramente che deli* An, tinoo, o deir Apollo di Belvedere ? Il Padre Gaio vor- rebbe sapere perchè il Poeta non adornò la corona di Bacco d'altri Fichi, che Brogiotti, invece di piropi; avvegnaché vi sarebbon campeggiati bene i Fichi albi, per diamanti ; i Bitontoni, per smeraldi ; ì Castagnuoli per giacinti ; i Piattoli per zaffiri; e i Lardelli per topazj ; e cosi altri Fichi d* altre sorta , per altre sorta di gioie ; che cosi 1' avrebbe fatta di più prezzo per la valuta delle pietra, e di più vaghezza per la diversità dei colori. Gli rispondo secondo il Mirabao, che il dotto Poeta sapeva bene, che in quel paese dell' India tutte le Fiche sono nere, e che tra le nere non ci poteva mettere le più preziose, che i Brogiotti: perchè, come le gioie sono più sthnate, che sono più dure, più unite, e di meglio colore ; cosi sono i Fichi più cari, che sono più sodi, più lisci, e più coloriti ; e di questa sorte sono i Brogiotti, ancora che siano mat uri ; dove gli altri appena cominciano a maturare che sono vizzi e grinzi, e sbiàncidi. E quanto al colore somigliano i Brogiotti ai Piropi, perchè sono di una nerezza mischiata di rosso con un cangiante, che dà nella fiamma. E però dice Fiammeggiar toccando destramente quel Flammaa imi: tante Pyropo. Io so in questa terra un pie di Fico d* quelli d' India, che di già vi ho fatto un nesto e tro - volo una saporita cosa. Ma perchè se certi leccone KM DELLA FJCHEIDS Ben' avvedessero, non ne resterebbe per me, non mi cur< che si sappia per altri. * Non so corno qncst* uso poi lasciare Quei che veoner di dietro ; ed in lor vece II Lanro assai più, che le Fiche amaro. Io mi* sono ingegnato d' intendere questa cagione, che fece dismetter V usanza di trionfar col fico,, e doman- dandone a questo Ser Mirandola, come quello, che trionfo già in Banchi degli spiriti folletti ; mi rispose, che Li- bicocco gli aveva detto, che per questo le Fiche non si usavan più ne' trionfi, perchè già avanti al Diluvio dì Deucalione, parendo a Q-iove che gli uomini fossero mali- gni ed ambiziosi troppo^ disegnò di soffocarli tutti, e riem- pire il mondo dì nuove genti, che vìvessero come usavano prima al tempo del Padre , comunemente , liberamente, e senza conoscimento d'onore, e di vergogna: Venti contrari alla vita serena, E per questo fare^ serbando solamente in sul monte Parnaso due sempliciacci, che furono Deucalione e Pìrra, mandò il Diluvio, che sof- focasse tutto il rimanente della generazione umana, in- sieme con tutte le altre cose del mondo, acciocché quelli che venissero poi , non avendo occasione di desiderj né di riìspettì, non curassero d' altro , che delle cose ne- cessarie. Cessate l'acque, per mezzo dell'oracolo di Temi ammoni quelli due , che si gettassero sassi dietro alle spalle, e cosi riempirebbono il mondo, l'uno d'uomini e l'altra di femmine. E volle sassi, perché quelli che nascevano fossero rozzi, e puri ; volle che se li gettas- sero dietro le spalle, volendo dire, che non li guardas- sero, e non insegnassero loro le usanze, né i costumi davanti al Diluvio. Nati che furono^ Giove gì pensava, che non trovando né vesti, né brache, né delicatezze, né maggioranze, dovessero da quindi innanzi andare sbra- cati, • vivere alla liberalona , senza curare né d' onori, DEL PADRE 0XCEO. 106 né d' ornamenti: ma essi salendo il monte, tosto che videro un pie di Fico, che solo dal diluvio era scam- pato, subito (come la natura dettò loro) gli si dettero intorno, e delle sue foglie, che a quel tempo erano sem- pre verdi, si fecero chi ghirlande, e chi brache, secondo che naturalmente o rispettosi o ambiziosi si trovarono; e di qui si tiae, che di Fico furono*le prime corone, e le prime brache che si usassero ; benché delle brache, per un' altra via si tocca con mano, che le prime fu- rono di Fichi; ma non istà bene a dirlo in questo luogo. Giove, che questo vide, fu chiaro della natura umana e da indi innanzi lasciò che gli uomini si governassero ad arbitrio degli appetiti loro, . e solamente s* adirò col Fico, parendogli, eh' esso solo fosse stato cagione, che il suo pensiero restasse vano. £ dove i Fichi prima non invecchiavano , e stavano sempre verdi, volle che a tempo imbiancassero, e cadessero loro le foglie ; e questa è 1' una cagione, perchè non si trionfa più con essi. Ma perchè s'è detto, che col Fico trionfò poi il Padre Bacco, per accordar questa contraddizione è da sapere che le Fiche dell' India sono d' un' altra fatta, che queste dell' Europa. £ leggendo Turpino trovo , che fa menzione come Astolfo d' Inghilterra tornando dal Paradiso terrestre, gli aveva fatto fede d' aver veduto il Fico d' Eva, il quale era ancor verde. E che Enoch gli aveva detto d' averne dato gran tempo innanzi un rampollo a certi Ginnosofisti suoi amici, che abitavano alle radici de'Monti di Luna, e che da loro n'erano stati trasportati degli altri per tutta Tludia ; sicché di^questi fu quello, di che trionfò Bacco. E Libicocco dovette dire solamente de' nostri Fichi di qua, che perdono le foglie. L'altra cagione, perchè non si trionfa co' Fichi, è che quel lor latte è arsivo e appiccaticcio, e dove tocca, o incrosta, o scortica, o p^la; e per questo di- cono, che Apollo non ne trionfasse. Perciocché morto Pitone, volendo trionfar del Fico di Dafne^ ella, che conosceva d*es8er nel tempo, che il latte gli avrebbe pelata quella bella zazzera d'oro, gli voltò le spalle, ed egli le corse dietro; ma poi riconosciuta la sua discre- zione, volle, che H suo Fico diventasse Lauro, e che sempre fosse verde, perchè altri non portasse pericolo a trionfarne d' ogni tempo. Da indi innanzi e gli Im- peradori, ed i Poeti, per amor d'Apollo e per paura della pelatina, abbandonati i Fichi, si dettero dietro al Lauro. Quei che venner di dietro, cioè che si son dilet- tati delle frutte moderne, come delle Pesche, delle Gri- somele, delle Melangolo, e simili, che sono stati i Pre- lati, e i Poeti. Ma perchè l'autore non è di que9ti, però soggiunge : A me Bacco nel ver pur loddisfeee ; E 86 l'amata figlia di Peaeo Iq Lauro Giote irasformar già fece; Porfirio, Efialte, e 'I bnon Siceo Trasformò io Fiche, e talli gli altri insieme Orgogliosi fratei di Briareo. Comunque si venisse questo costume di trionfar col Lauro, e comechè si piaccia altrui, a me, dice il Poeta, soddisfece molto l'usanza di Bacco, -di trionfar coi Fi- ' chi. Nel vero. Qaasì volendo dire, che sondo Poeta non \ si do\Tebbe credere; oppure è cosi. E se l'amata Fi- glia ec, se la cagione, perchè si trionfa col Lauro, fosse per avventura, perchè ebbe l'origine da una bella Donna, del Dico si dovrebbe trionfare, perchè ebbe orìgine da grandi uomini, per ciò che venne da Giganti; e Siceo fu quello, che trasformato da Giove in questo albero, gli dette il nome: ancorché poeticamente faccia, che vi si trasformassero degli altri Giganti. Il Buspa Vigna- ruolo dice, che il Poeta, per questi quattro principali nomi di Giganti, volle significare quattro principali sorti di Fichi; e crede, che PorfiHo «ccenni il Fico Bossello, 1 DCL PADRE flICEO» iOT perchè egli, secondo il nome, fu di pél rosso: Efialte^ il Fico di San Piero, perchè, come quello crescendo si smisuratamente, si faceva di persona per due volte Gì* gante ; cosi questo sendo maggior degli altri, e facendo due volte Tanno, serve per due volte Fico:/Stcco, an- cora che desse il nome a tutti i Fichi, tiene, che par- ticolarmente sia il FicalbOy il quale è grandone, e hian- cone, come fu egli; e che gli desse 1* epiteto di huono^ perchè si converti nel miglior Fico di tutti, con rive- renza del Padre Brogiotto. E che miglior sia, dice, che si guardi, che tutti i Ficalbi son beccati dagli uccelli* Briareo, vuol che significhi esso Brogiotto, perciocché è rigoglioso, e duro a guisa di lui ; e che prima si di- cesse dal s]io nome Briarotto, e poi per corrotto voca- bolo Brogiotto, Degli altri Giganti, e degli altri Ficami di bassa mano non si fa menzione. Il Pintasso mi ha detto, che si trovò a queste sere a un trebbio, dove si ragionala di questa trasfigurazione di Giganti in Fiche; e che cadendo il ragionamento fra le donne, la Pippa disse: Non è dunque meraviglia, se le Fiche sono grandi, poiché furono prima Giganti. Rispose la Ciampottina: Uh! quei Giganti, io ho inteso dire, ch'erano molto grandi; e le Fiche, se sono come il mio FtcolJno, sono molto piccole. Imperò mi meraviglio, come vi si potes- sero rimpiattare si sperticati fusti, com'erano quelli; e disseto con una boccuccia piccina piccina. E tu Móna Ficalessa, rispose la Fanfalona, perchè non ti meravigU tu piuttosto, che i Giganti vi stiano dentro, e che siano ancor vuote? Certamente, disse TArgaliffa, che va, e va la cosa, e le Fiche non potevano esser meglio em- piute, che da Giganti, né i Giganti potevano capire al* trove, che nelle Fiche. Soggiunse la ParagrafFa. Questi Giganti non vid'io mai che empissero le Fiche, e vorrei pure, che a questi tempi se ne trovasse uno per riem- pire il mio Fico di bel nuovo ; ma per molto ch'io n'abbi eercO) non n*ho mai trovato veruno. E quando ben ne 108 DELLA FIOHEtDB ne trovasse^ disse la 6 èva, io non credo, ehe fosse à gi'an Gigante in sul mio Fico, che non paresse un Zac- cheo in sul Sicomoro. In somma, conchiuse I' Ardelia, questa conversione de' Giganti in Fiche è uno di quei latini falsi, che fece Giove in quel tempo, che dispensò e cose, che mise le polpe delle gambe dietro^ che do- vevano star dinanzi per piumacciunli degli stinchL Cosi i Giganti si dovevano trasformare in Baccelli : si amano grossi, e lunghi, e paffuti; e non in Fiche, che ai desi- derano smilze, e nane, e raccolte. E tal ?i pose di dolcezza seme» Che sarà sempre il gaudio d*ogDÌ meosa# Per compensare il dnol, oad^ancor freme. E siccome airallare altri IMoceosa, Cosi QQ tempo vi volse ancora il Fico* In teslimon della vittoria immensa. Erano prima i Giganti certi animalacci superbi, come sapete ; e quando vollero pigliare il Cielo, misero tanta cacsif retta a tutti gli Dei, che convertiti per paura in certe bestiole di varie sorte, Xìosl scamuffati se ne fuggirono in Egitto per non capitare alle mani loro. Questa guerra fece tanto sudare le tempie a Giove, che quando gli ebbe fulmi- nati, perchè mai più non s'avesse a temer de'casi loro, non volle trasformarli in cosa che tenesse punto della loro fero- cità. Di Sìceo dunque furono fatti i Fichi, che sono tutto il rovescio di quegli animali ; perciocché, dove i Giganti erano alteri, violenti, spaventevoli, imperiosi, questi sono una cosa mansueta, trattabile, soave, che ognuno la de- sidera, e da ognuno è facilmente sottomessa. E per ri- compensar l'affanno della guerra col piacer della vitto- ria, ordinò che per memoria di quel fatto ogni giorno gli fosse* presentato il Fico a mensa, come lo incenso all'altare ; la quale usanza trovo, che fu nel tempo, che Ebe era scudiera, % fu dismessa, perchè una mattina la .EDL PADRE 0IOEO. 10^ scimunita, portandogliene innanzi coperto, cadette, e ro** vesciò il piatto, e mostrò il Fico; di che Giove irato tolse l'ufficio a lei, e sostituì Ganimede, che in quello scambio gli mettesse innanzi le Mele. Dette dunque Giove al Fico il «eme, il principio, 1' origine, il fonte della dolcezza. Tale, idest, talmente composto, e di tante maniere e cose, che sarà sempre il Gaudio agogni mevsa. Perchè tutti gli nomini, di tutti i gusti, d' ogni etade, e d'ogni stagione n'ayranno sempre dilettazione, ed ab- bondanza. E qui dice il Ghiribizzatore nell'Aquila vo- lante, che il Fico, è quel medesimo che era la Manna nel Deserto, la quale, a tutti c}ie ne mangiavano, ren- deva sapore di quel cibo, che più desideravano. Per- ciocché nel Fico si trovano tutti i più importanti ali- menti alla vita degli uomini, come Grano, Vino, Carne, Olio e Latte ; e lion solamente il vitto , ma il vestito. Guardate, dice, che quei granelli dùretti dentro al Fico, non sono altro che grano; quelle uvette succose; che facciano i granelli, fanno vino; la polpa, a che stanno appiccate, è carne; il liquore, che stilla dal fiore è olio; e quello che esce per lo picciuolo, è latte. Il vestito è quella buccia di sopra alla carne, che si chiama la ca- micia; e sopra la camicia, la gonnella, che è quell'ul- timo cuoio di fuora. E per questo, che vi son tante cose dentro, non per la cagione, che racconta V Arsiccio, dice lo Squitti, che il Fico è stato chiamato Natura: ed hammi insegnato quel secreto; che forse toccherà il Poeta in altra Flcata, cioè, che quelli abbigliamenti che pendono dalla gorgiera della dea Natura, che costor pensavano, che fossero poppe, sono tutti Fichi : che con questi, dove son tante cose dentro, vollero gli antichi significare la fertilità della Natura, non con le poppet dove non è che latte solo. In somma Fico, e Natura sono una cosa medesima. Benché vi sono di quelli che vogliono, che Fico e Poppa sieno pur tuttuno ; come il Ciacco Compoppista, e Leccardo GrufoU^ni, che non no PEIXA F^CH^tD^ silimo. mangiar fidbi, che non li poppino. Ma questi bric- coni , se io potessi, gì* impiccherei tutti per lo naso ad un fico fradicio, pieno di formicoui, e vorrei, che la Fi- cardi^ desse loro tante fìcate nel ceffo che gli agro. gnasse tutti. Ora lasciamo andar questi gaglioffacci, e torniamo a dire, che il Fico si dice Natura, perchè vi si trova dentro ogni cosa da fare, e da mantenere gli uomini ; a che non erano bastanti le ghiande sole, Tuso delle quali fu dismesso, perchè cominciandosi a gustar delle Fiche, e trovandovisi dentro una tanta abbondanza e larghezza di Natura, quei capocchi, che usavano so- lamente le ghiande, come furono gli Arcadi, non si po- terono contenere a quelle sole; ma prima le mescola- rono, verbigrazia, una ghianda con un mezzo fico ; di- poi dando, nelle Fiche a tutto pasto, riposero in tutto le ghiande, sicché le Fiche furono quelle, che dettero lor la pinta, ed introdussero i baccelli, co -quali fecero una lega perpetua, che ancor dura, e durerà sempre. Potrei ancor dire, oltre allo sbandimento delle ghiande, come tolsero ai Tirinzii le Achirade, agli Indiani i Ca- lami, ai Carmani i Palmizj , ai Meoti il Miglio, ai Sau- romati ed ai Persiani il Cardamo e il Terminto, delle quali cose si cibavano questi popoli, prima che le ma- dri Fiche fossero in uso; ma perchè noq mi toma a proposito del loco, passerò via. Il Bisunto filòsofo dice, che lo Squitti, per dar al Fico' la fertilità degli alimenti sopraddetti, prova solamente, che il Fico sia la Tenra, e che per provare che sia la Natura, bisognava dargli tutti quattro gli Elementi. Onde, che della Terra ri- mettendosi alla ragione detta da lui, per provar che tì sia l'Acqua, allega i guazzi, le pioggie, e i gocciola- menti, che vi sono, ed in somma, che v*è da pescar per ognuno. Deir Aria dice, che basta a sapere, ohe è va- cuo. Del Fuoco, che dentro ve n'è sempre, e che faora svapora, una volta il mese, perciocché ancor egli ha le sue caverne, e i suoi 9olfi, e in somma vuole, che sia DEL BAI>KB SlCSa 111 nn altro Pozznolo, e che di <)ui àia nato (fàeX prpver« bio, che si dice dar fuoco al cencio. E di più dice che sì avvertisca, che nutrisce animali di più fatte, de' quali il Poeta farà menzione altrove. Ora torniamo a dire, che Giove pose nelle Fiche tutta quella dolcezza che si può gustare, per compensare il duolo, il dispiacere, che n' avea avuto , quando erano Giganti. Onde ancor freme. Dante disse questo concetto in questi versi: Gli orribili Giganti, cai miaaccia Giove dal cielo ancora quando tuona. Che '1 folgor non lo tocchi, noo vi dico, Perchè mi penso» che lo sappia ognuno, Che voglia pare nn poco essergli amico. Segue di far parallelo del Fico col Lauro. fS già si è detto, che se '1 Lam*o è trionfale, il Fico fu trionfale, e dette nome al trionfo. Se 1 Lauro ehbe origine da bella Donna, il Fico Tebbe da grand*uomo. Se *1 Lauro sta sempre verde, ci son Fichi, che hanno sempre le foglie. Ora dice, che se il Lauro non è fulminato, il Fico non è manco tocco dal folgore, e perchè è scritto da altri, se ne passa di leggieri, presupponendola per cosa nota agli affezionati del Fico. Dicono questi Fisici, che la cagione, che il folgore non tocca il Fico , è V ama- rezza del legno; perchè tutti i legni amari sono cosi privilegiati. Ma io vi dirò il vero. Questi Plinj , e que- sti Teofrasti, non mi par che entrino per la via a dispu- tare sopra i Fichi, come sopra Taltre cose; imperò non mi fido molto di quel che si dicano, e credo al mio Tan- fura in questo luogo, il quale fondando la sua opi- nione sopra quel verso PtotooD ille vocai, qaod dos PiOloenta Geraanon 118 DELLA FIOHBIDB dice, ohe il folgore è quel cotale terrìbile di Griove, con che fracassò ogni cosa a quella poveretta di Semele, perchè gli domandò, che andasse a lei a non so che mal modo. E vuole che il senso del Poeta sia tale. Quando Giove drizza questo folgore cosi bestiale alla volta del Fico, non lo tocca, cioè non aggiunge con esso a percuoterlo in modo che lo dirami , o lo sco- scenda, come a Semele, ma passa via da largo. Dice poi sopra quel verbo. Toccare, mille belle cosette, e conchiude, che sebben toccare è proprio delle frutte dure, come di mele e simili, che il Poeta in questo luogo, se si considera bene, ha usato questo verbo improprio molto propriamente. Ma quanto qui di ler scriTo ed adnno, È Dalla a paragoa di qael suo latte , Che noi) sarò di lodar mai digiano. Tutte quelle lodi, dice il Poeta, che io scrivo, cioè ora, e tutte quelle che io aduna per iscrivere poi delle Fiche, son nulla a petto alle lodi, e alle virtù, che si posson dire del lattificio di esse, delle quali, perchè sa- rebbe un barbaglio a raccontarle, leggete quello scio- perone di Plinio , che non dovette aver da far altro, quando le raccolse, e vedretevi dentro tutte le opera- zioni d'una spezieria. Ma perchè di sopra s'è detto di questo latte, come pela, e facesse altri cattivi effetti, per li quali non pare che meriti quelle lodi, di che il Poeta lo giudica degno; mi par di dirvi, che dovete avvertire, che quantunque sia vero, che faccia di quei nocumenti, e de* maggiori, per infìno a metter la rabbia ne' cani ; nondimeno questo avviene d' un certo tempoi che i fichi, per esser guazzosi, non s' hanno a toccare, E per questo , che allora aveva la guazza , Dafne non volle, come s'è detto, che Febo toccasse il suo Fico; ma p^ l'ordinario (Questo latte è^la ffigliorcosa del DEL FÀDBE SICBO* 118 mondo. £ oliare alle virtù racconto da altri , trovo, che serve a far le donne belle ; a rappigliar V altro latte, che si ^ mischia seco, d* onde viene la generazione del cacio. E buono a rimarginar ferite; a far. tempra per Pittori perfetta, tanto che, temperando questo con sugo di baccelli, e' è trovato che si fanno le figure vive. In somma è salutifero, generativo, e molto necessario alla vita umana. Il Pilucca insegna* di che tempo il latte è migliore nel fico, ancora quando non è guazza. E cruc- ciasi, bestialmente, con quelli indiscreti, che guastano le Ficoline novelle, avanti che il latte abbi la sua per- fezione; e con quegli ingordi, che lo spremono dalle Fiche secche, dove il latte ha già fatto gromma. E dà per regola, che la Fica vuol essere, né mongara, né seccaticcia, ma in quel mezzo, che é campereccia ; che secondo mC; vuol dire, che sia matura, ma non acerba, né passa ; che mi par difiicile appostarle tutte cosi sta- gionate ; se già non si facesse a uso del corbe, che mi contò a queste sere a vegghia quel favolalo d' Ovidio, E per raccontare questa favola ancora a voi ; dice, che 8*era un tratto un certo Corbacchione, che stava in quel tempo alle spese di Messer Febo. Fu mandato da lui per dell'acqua alla fontana per sagrificare. Era pressa alla fontana un bel pie di Fico, che si riserbava per la sua poetaggine. Il goloso, veggendolo, vi fece sa disegno , e non essendo maturo , non curandosi di piantar Febo, stette quivi tanto, che si maturasse» e beccatolo se ne tornò con una sua scusa magra d' un certo serpente tutto infaccendato. Febo , che era forche bene, s'avvide del tratto, e perché mai più ne beccasse, che buon gli sapesse, gli forò la gola con una freccia, il qual foro apparisce ancora ogni anno a tutti i cerbi, e dura loro tanto, che i Fichi siano scorci. E di qui vuole il LenciOy che venisse il prover- bio, d'aspettare il corbe, ma non dall'Arca di Noè. Non voglio mancar di dirvi di mente d'Aristotele, che il- Caro* $ 114 DELLA FICHBIDE latte ulivigno è di miglior sostanza, che il troppo bianco. E che per questo le Fiche biancastre sono sottosopn più scipite, che l'altre. Il Girigoro dice, che nei suo paese s'usa d'ingrossar le fave, -con questo lattificio, e voievami insegnar la ricetta. Ma perchè si dice, che chi non sa fare guasta 1' arte , voglio seminar la mia fava piuttosto cosi piccina, che metterla a rischio, che mi diventi qualche sti>ana cosa. Non too le Fiche, come molli matte , Che fondili sopra i fior le lor sperarne» Che possono in nn punto esser disfatte. E perchè il pregio lor sempre s' avanzo Grescon col latte, che M pedal comparte Sensa mandarsi altri trombetti innanie. Morali, ed artifiziosi terzetti son questi, dove il Poeta dà un cavallo a Plinio ed agli altri letterati , che vo- gliono, che il Moro sia il più prudente arboro di tutti, perchè dubitando del freddo è i' ultimo a fiorire. Se fio- risce, dunque è pazzo come gli altri; sectmdo il Poeta; Bendo che tutti che fondano le speranze ne' fiori son pazzi. £ cosi si trae di qui , che il Moro , non sola- ixiente è pazzo, ma poltrone, e che il Fico è savio, ed animoso. Savio, perchè dove V altre frutte si fondano in su i fiori, che per minimo temporale, che gli incon- trino, non tengono ; esso fa il suo fondamento in sé stesso, ed in su i grossi, che sono in grammatica quelle cose, che in vece di fiori le Fiche mettono innanzi ; e pone la sua speranza nel latte del suo pedale. Ani- moso , perchè non si tiene a dietro , ma quando è il tempo che le frutte sono in succhio, si spingono avanti tanto arditamente, che bisogna bene intoppo d' un gran temporale a farlo ritirare. Pedale è quel tronco , per onde va nelle Fiche quel latte | che le fa generare. Z>EL PADRE SICEO. 115 Senza mandarsi altri trombetti innante, Sono t fiori alle frutte, come i trombetti alle genti d* arme. E 8Ìc« come un valente capitano preparando una fazione im« portante non manda trombetti, che sono gente debole, cosi il Fico a rincontro de* temporali non mette i fiorì, ma si presenta esso medesimow Volete vedere, dice Ser Adatta, se il Fico è savio, e animoso? Guardate alla . sua figura , e vedrete che è tutto capo e tutto core. Dair altro canto ponete mente a quel capolino bitor* zoluto del Moro, e quel solo vi dirà che è un civettino. Fra i pronostici de' villani è un motto , che mi fa cre- dere, che il Fico non solamente sia savio, ma profeta , e che antivegga le cose avvenire ; perciocché predice la carestia , e con restare in su V albero ancora dopo cadute le foglie , apre la bocca , e grida a ciascuno , che si fornisca , perchè il caro ne viene. Donde s* è fatto il motto, che dice. Quando il Fico serba il FicOf Buon Villan serba il Panico, Trovo in oltre, che il Fico, è astrologo , e potetelo veder manifestamente da questo , che fa tutte le sue operazioni a punto di Luna; ed è stato di tanta autorità nelle cose del tempo, che gli [si ponno dare tra noi quelle lodi, che hanno dato gli Egi« zj , gli Ebrei^ i G-reci , i Latini , i Cristiani e gli altri a Eudosso , a Ipparco, a Talete, a Metone , a Noè , a Romolo, ed agli altri, che hanno dato ordine agli Anni, a'Jabilei, ali* Olimpiadi, ai Secoli, ai Lustri, ai Calen- dari , e simili distinzioni di tempi. Conciossiachè ancor egli ha dato il nome a certi anni della vita nostra. Per ciò che quando uno è giunto alli xxxvi, si dice esser giunto alle Ver dee chic, che sono Ficìie, che hanno dato il nome a questo numero d* anni , perchè tante di loro si danno per un quattrino. Ma il Tentenna muove un dabbio^ perchè se la Fica è si savia zucca, la scrittura la chiama fatua , cioè pazza. A questo trovo un espo- sitore, che vuole Ficus faiua sia traduzione in latino di «Sicomoru^ greco ^ che una medesima cosa signifi- 116 DELLA TICHÈlllE * cano ; e così, che la scrittura intendesse del Sieomoro, e non del nostro Fico savio. Se il Sicomoro è Fico, per- chè dunque pazzo ? Perchè , secondo il Grirellaio , un giorno che Apollo e Branco vennero dove egli era prima Fico savio a sfrondar Mori per far V arte della Seta , (perciocché Apollo un tempo fu setaiuolo) egli desiderò d' esser Moro , per esser parte dell* arte con esso loro. E di più volle da Branco il Mellone, che portava sotto per Apollo , e dare in quel cambio Fichi a lui. Onde Apollo considerata T invidia, e la presunzion sua^ volle, che avesse il nome di Moro, acciocché da ognuno fosse chiamato per pazzo. E fece che quel desiderio, che aveva del Mellone, gli si indurò in corpo. E vedete che i suoi frutti hanno una buccia fuora di Fico, e dentro certi Melloncini d' osso, di che i Frati, e le Monache fanno corone da Paternostri. E cosi il povero Sicomoro per voler esser savio contro tempo è tenuto per pazzo, e credendo d* infilzare è infilzato. Ma il Tentenna mi strinare L panni addosso per un altro verso, e dice. Son con- tento che la Scrittura intenda , che Ficus fatua sia il Sicomoro ; ma nel mio paese dove son certe Fiche, che si chiamano pazze, e non sono Sicomori, ma di queste, che tu di che son savie , per qual cagione si dicono elleno pazze? Gli rispondo, o che son pazzi quelli del suo paese f o sì veramente le chiamano cosi per vezzi , come quando diciamo a uno, pazzerello, ghiotterello. £ lo Sciarra mi dice , che Fiche pazze son quelle , con che si fa delle piacevolezze. Perciocché egli ne fa palla, ne fa trottola , ne fa il gioco di dentro , e fuora , e le più belle pazziuole del mondo. Onesto basta a mostrar in ogni parte ' La vera sua legillima natura • Senza virtù di privilegi, o carte. Sogliono talvolta lo donne per gabbar certi scempi, > DEL PADJtE SICSO. %l% che hanno una gran voglia di far razza, finger di par-. torire , e mettendo un bambino posticcio , lo danno a credere per fatto da loro ; come io so , che fece una buona femmina, che s' andò di mano in mano impre- gnando di cenci, e di fasciatoi, e in capo di nove mesi i cenci diventarono un Signorino. Donde io credo, che sia venuto quel proverbio, che si dice , far gli uomini di pezze. Platone, che stette col capo a bottega , sola- mente B* avvide dell* inganno , ma insegnò di scoprirlo in questo modo: che se in quel tempo si trova che la madre abbia latte, il bambino è suo ; se non si trova^ è posticcio. Ora dice il dotto Poeta questa cosa , che il Fico venga col latte della madi*e, basta a provare, che non è posticcio, né bastardo , ma vero e legittimo figliuolo , senza bisognar scritture a provare che sia legittimo , primlegj a mostrare che sia bastardo le- gittimato. Donde pare che voglia inferire , che le mele, le pesche, e simili non siano fratte legittime , perchè non vengono col latte. Ma il dottor Pataracchia mi inette il cervello a partito con certi suoi schiarimenti di leggi, e dice, che le Fiche hanno il legittimo (come afferma V autore) dal canto della madre ; ma che da canto del padre hanno il naturale, e che il padre del Fico è marito, e padre della madre di esso Fico : e di qui vuole, che si dica che la madre vuole il padre. L' altre frutte dice, che tutte hanno padre, ma non ma- dre come le Fiche, e che da esso padre hanno tutte il naturale ; e quel legittimo, che non hanno , per non aver madre, è legittimato dal padre. Perciocché dice, che il padre ha latte ancor egli , che mi pare strana cosa. In somma egli fa di latte , di padre , di madre , di le- gittimo e di naturale un certo suo miscuglio , che mi par bene a non volerlo intendere. Perchè questi Dot- tori trovano il pelo49u V uovo ; e metterebbonci in com- promesso questa sentenza, che abbiamo già avuta dal Poeta. Poi bisognerebbe assottigliar y ingegno , e pas* 118 DELLA FICHEIDB Bar per Filerà a voler entrare in quelle cose, che dice. Ed io vorrei piuttosto aver l'ingegno più grosso , che non ho^ e poter pescare nelle materie u largo. Qainci (rli Antichi ebber mirabil cara D'intagliare i Priapi sol nel legno Del Fico, e fecer lor ^iasta misara. Ogn' altro a tanto onor era men degno, Per la ragion, ch'infine a qui v'ho detto, E che dirri di quoto ancor m* ingegno. Per esser dunque il Fico trionfale privilegiato da Giove, savio, lattoso, legittimo con tutte V altre virtù , che son dette, e si diranno poi ; e in somma per essere essa natura, per questo gli antichi ebber mirabil curay prudentissimamente s' avvisarono, e misteriosamente tro- varono à' intagliare i Priapi sol nel Fico. Avvertite, che io trovo, che alcuni degli antichi hanno intagliato, e oggi de* moderni, che intagliano il pesco , il melo, e simili ; ma questi sono stati, e sono certi Noddi scar- pellinacci ignoranti, o «trascurati della vera arte di far figureJ Che i veri scultori e studiosi di scolpir di vivo, o antichi, o ali* antica, che si lavorino, hanno usato ed usano sempre il Fico; e la ragione è in pronto. Perchè il pesco, il melo , e cotai legnami sono tutti materia stiantativa, noderosa, e fastidiosa, dove quella del Fico è pastosa , liscia , e facilissima a lavorare. L' Aringa grammatico dice, che quello intagliare Priapi nel Fico è una figura, che vai tanto come intagliar il Fico coi Priapi. E veramente, che V Aringa ancorché nell' altre sue cose sia troppo secco , in questa ha qualche sugo. E fecer lor giusta misura ; cioè li fecero assai grandi ; ed è ragionevole che i Priapi del Fico sieno maggiori che degli altri ; perchè nel Fico è materia da aliar- Iparsi, 6 farli grandi^ ó tutto, o parte, che se ne metta DEL PADRE 8ICE0- 119 in opra* Ogn^ altro a tanto onofe ecc. Per le ragioni dette, e per quelle che ho da dire , tatti gli altri le* gnami erano meno atti e men degni a tanto onore, di ricevere la figura di un tanto Dio, Perciocché tanto mistero non poteva stare, se non dentro al suo profon- dissimo segreto. Ora se volete intendere che inisterio sia questo, aprite bocca, cornacchioni , che questa non è imbeccata da passerotti. Dico a voi, filosofi, che v^ an- date lambiccando il cervello per trovare , che cosa sia materia prima ; e vi sognate certi vostri atomi , certe entelechie , certe idee, certi numeri , che non si veg« gono , non s* intendono , e peggio , che non sono ; e quelle , che sono , che si veggono , e si palpano , vi sono oscure, e lontane, e come nonnulla. La materia prima, capocchi, non è altro che il Fico, e la Fava, di che è piena ogni cosa ; e Fico e Natura , come si è detto, è una cosa medesima ; e la Fava, e '1 Naturale, e Dio Priapo son pur tuttuno. Che il Fico e la Fava, o la Natura e il Naturale insieme facciano poi ogni cosa, non è dubbio. Quelli che vogliono , che il mede* simo facciano la Fava e le Mele, s' ingannano per una certa similitudine d' operazione , che vi trovano dalla parte della Fava. Ma le Mele non con«o]rrono già alla fomposizione della materia prima con la medesima ope- razionC; che il Fico; perciocché delle due cose chev*im travvengono, che sono la generazione e la corruzione t il Fico con la Fava le ha tutte due ; dove la Fava con le Mele non ha che la corruzione sola. Chi sia poi il maestro d'accozzar queste due cose insieme, lo di* chiara il Burchiello, quando dice Amore è un trastullo Che metto in campo fesso fava rossa , E cava il dolce mei delle dar* ossa. Questo filosofico misterio volle scrìvere un altro Poeta 120 DELLA FICHEIDB naturale mio amico , sotto il medesimo yelame , di- cendo: Se tn vuoi, Cencia mia , questa mia Fava, Dammi il tuo Fico fiore; Ha fa che sia maturo, e che di faore Gocci di pianto, e scoppi delle risa , E eh' abbi la gonnella alla divisa. Ed io della mia Fava Ti farò gran derrata. Vuoi del Baccello, o vuoi della Sfavata Asciutta, e molle, e 'n concia : E se la vuoi menata , Meneiemo ; io la Rilla, e tu la Cioncia. Ha quando il Fico tuo non sia maturo , Ti darò fava soda. Hettiam duro con duro , E chi ha buon denti roda. Facciamo un tratto questa merenduola , Fave in Corazza, e Fiche in Gamiciuola. Qnesto è quel gran punto, che comprende tutta la filosofia ; e questo è quello, che V altìssimo nostro Poeta ha voluto dire sotto il velame di questo antico miste- rio ; cioè che i Priapi s' intagliavano nel legname di Fico. Perciocché fatta una cosa della Natura e del Na- turale, si componeva la materia prima. E non guardate, che dica componeva , che par centra la Filosofia, che vuole, che la materia prima sia semplicissima, e senza composizione ; perchè avete veduto ,' che i Filosofi in queste materie s* avvolpacchiano. Basta solo, che voi aiferriate il punto, che le Fave e le Fiche sono il prin- cipio della generazione. £ che sia vero notate, che do- vunque troverete il Fico e la Fava insieme, o tal volta spartiti (perchè ciascuno comprende il compagno, come a dir Castore vi s* intende sempre Polluce) , quivi DEL PADRE SICEO. 194 Sèmpre sarà il principio di qualche cosa. Vedete, che il Priapo, e il Fico sì metteva dagli antichi negli or- ti, dove nascono tutte le erbe, e tutti i frutti. Il Fico, e il serpe fu posto da Moisè nella generazione del Mondo. Il Fico ruminale , significa il principio della città di Boma. Il Fico, e *1 Baccello fu operato da Prometeo nella creazione del suo primo Uomo. Per- ciocché la ferola accesa al Carro del Sole non era altro, secondo l'Alcorano, che 'i Baccello appressato al caldo del Fico. £ Ficcare, che viene da Picare, ag- giuntavi una lettera, che vuol dir altro, che attendere alla generazione ? Ma che più ? Guardate il Fico alla sua figura, la quale (benché dica Ser Adatta di sopra che sia capo e core) il Bientina dice, che piuttosto Capo e Culo insieme; e che non vuol significare altro, se non che egli é principio, e fine d* ogni cosa. Cortese ò di Datura ; e dà ricetto Ad ogni fratto : e chi Del Fico iooetta^ Non perde tempo, e redesi Tefifetto. Qual miglior lode potea dare il poeta al Fico di que- sta ? £ quale é maggior virtù, che più giovi altrui, che più soddisfaccia a sé medesimo, che sia più simile a essa Natura della «Cortesia ? £ qual cosa é più cortese, più larga, più amorevole del Fico ? Qual uomo é quello per grande, per minimo, per mezzano, o di stato, o di persona, o d*etatc, che sia, che non restì (non voglio dir soddisfatto) ma ripieno, sazio, ristucco della sua li- beralità? Egli non pur chiedendo ti si dà, ma per sé stesso t'invita, ti si offerisce, ti si porge, ti si apre, ti mette dentro in corpo. £ non tanto, che ti mandi poi via volentieri, si cruccia, che tu te ne vada, e che non ti stii seco in perpetuo. £ forse, che fa questo qualche volta, con qualcheduno, o che dà qualche parte di sé ? Egli 8i dà tatto a ognuno , e d' ogni tempo. Or IM < BELLA FICBEIDE pensate, se Natan fosse, non che altri, fosse buon fat- torino al nostro Fico ? E perchè chi lo volesse biasi- mare, potrebbe dire, che questa tanta larghezza è fuora della definizìon« della liberalità, ed e prodigalità strS' bocchevole ; rispondo, che questo sarebbe , quando 1& roba sua avesse fine, o fondo, e che scemasse, o man- casse a£btto. Ma ella è infinita, o quanto più. dà, piò ha : e per dirlo in grammatica. Del licei assidae , nil tamen lode perit. £ per questo, avvegnaché sia più che liberale, non può essere mai prodigo. Ed è cosi di Nattira, dice il Poeta, cioè che non lo fa per boria, o per altro effetto , per- chè gode per sé medesimo a darsi, e nel dar riceve sempre^ perchè chi riceve da lui, si dà ancor egli vo- lonticri. E questo piacere dell'uno, e dell'altro con tanta liberalità, e con tanta amorevolezza fu, secondo il Pan- chera, quella bella virtù, che fece già gran tempo il mondo d'oro. E dà ricetto ad ogni frutto. E non è me* raviglia, che s'innestino facilmente col Fico certe frutte proporzionate a lui ; né manco, che ci faccino bene le Ghiande, i Maroni, le Fave, i Citriuoli, i Porri, le Ba- dici, le Carote, o che in corpo li s'innestino, o che ap- presso li si piantino : ma mi meraviglio bene, che vi si appiglino certe altre cose stravaganti, come la Zucca che v'innestò Mona Concoccia, il Pestello che v'insitò la Bettaccia, il Passatempo di vetro che vi mise su la Bia; che tutti intendo v'hanno fatta buona pruova: ma la ragione è questa, che il Fico è d'ogni tempo in succhio, e sempre, ed ogni cosa, che vi si metta, vi si appicca. Tuttavolta innesti per questo non si debbono fare a caso, perchè certi frutti a certe stagioni, e messi a certi modi, e da certi più pratici fanno miglior pruova. E quando la Puga^ o la Marza è più giovine, più li- DEL PADBE 8ICE0. 123 scia, più dritta, più rigogliosa, e più grossa, meglio si fa. Pur nondimeno dice, che non vi si perde tempo; perchè alla fin») ogni insitatore con ogni marza, e quando che sia, o bene, o male, che si faccia, fa pur i fatti suoi, e non s'affatica indarno, perchè a capo di nove mesi in dieci e tal volta di più, e tal volta di meno se ne vede il frutto. QaesU piaota a raceorre ò sempre presta; E perch' è di materia ao po' fungosa Ciò che Ti pooij prestamente arresta. Èssi detto, che il Fico si dà per sé stesso volentieri, ed assegnatosi per ragione la sua natura. Essi detto ancora, che riceve volentieri ogni frutto. Ora il poeta, che non vuol parlare a caso, rende ragione di questo ricevere; dicendo, che il Fico è di materia fungosa, cioè porosa, soffice, spugnosa, cavernosa, rimbrencio- losa, con molte camerelle, e con molti magazzini den- tro, perciocché sendovi del grano, del vino, della carne, deirolio, e del latte in abbondanza, come avete udito, è necessario, che vi siano granai, cantine, carnai, fat- toi , e precuoi , li quali votandosi tutti per la sua. im- mensa liberalità, è chiaro, che vi resterebbono molti luoghi vani, se non si riempiessero. La qual cosa sa- rebbe contro la legge d'essa natura, che non patisce in sé vacuo. E questa è la cagione, perché ella è tanto capace a tenere, e tanto presta a ricevere. ATanza di dolcezza ogn* altra cosa, Znccbero, Marsapan, Goofetti, e Miele, Ed alile è più assai che oon pomposa. Perché mi pareva, che questa si gran lode del Fico, che sia dolce sopra ogni dolcesaa, avesse un poco d'as« 114 DELIBA FICHBIDB sentazione, o di tròppa affezione del Poeta verso di lai; oggi, standomi fra certi Lombardozzi manuali alla Fab- brica, cominciai a domandare , che cosa paresse loro più dolce del Zucchero; risposemi subito Petrazzo ; la Bava maidè. E del Marzapane, diss* io ? Rispose lo Sciacchilò, il Pan unto. E più del Miele ? Il Bituro, disse Giannin. E più della Rapa, del Pan unto , del Bituro, e d'ogni cosa ? Risposero tutti insieme : la Figa maidè ! La qual risposta mi fece cominciar a credere al Poeta. Poi discorrendo da me medesimo sopra tutte r altre dolcezze , mi risolvei affatto che cosi fosse. Perciocché le Zuccherose, e le Melaccbine sono tutte sdilinquite, stucchevoli, senza grazia, e senza ca- pestreria veruna, e fanno un cotale smalto appiastric- ciato per bocca, che non si stende più, che per lo pa- lato : dove quella del Fico è mischiata di più sorti soavità naturali, che quando t'ungono, quando ti pun- gono, quando ti baciano^ quando ti mordono; percioc- ché quando morbide, quando frizzanti, or ti riempono d'una soverchia dilettazione, or ti danno certi lacchez- zini appetitosi , che di nuovo t'eccitano. E con questo variare ti vanno ricercando tutta la vita, per infino al- l'ultime midolle con tanto piacere, che ti rapiscono a te stesso, e ti faimo spasimare, e morire d'una com- pita dolcitudine. Ed utile più assai, che non pomposa. Sono i Fichi una cosa rimessa, ed umile; e senza pompa badano a'casi loro: e non mostrano fuora quello, che son dentro ; ma stuzzicandoli, e gustandone , vi si trova dentro quelito, dolcezza, che s'è detta, la quale, di che utilità sia, sallo il mondo, che senza essi sa- rebbe nulla. Ser Pizzicata dice, che sebbene il Poeta vuole, che il Fico sia più utile, che pomposo, non è però, che non abbia anch'egli la sua pompa. E non guardate, dice, che il Fico vada con la camiciuola rotta, che quella spezzatura è un'arte di mostrar la disposi- zione. £ soggiunge, non è dlla una pomposa mostra un DTBL PADSB SICBO. 125 apparecchio di Fichi freschi, rugiadosi, con certi fioretti suoi, con quei labbrettini verniigli un poco rovesciati, non aperti affatto, con quel lor guarnelletto in certi luoghi sdruscito, non già troppo stracciato, perchè quelli, che non vogliono, che mostrino le carni, e quelli che le amano troppo cenciose, non se n'intendono ! Lo Sguazza è di parere, che il Poeta di cendo, che sono più utili che pompose, voglia inferire, che vi si spende poco, e se ne gode assai ; perchè dovunque vai col tuo grossetto, ne fai una corpacciata, che ne stai bene una settimana. £ però la intese quei de'Martini *a Firenze , il quale sentendo, che un suo fratello liberale aveva speso una sera cinquecento scudi in un banchetto, disse al servi- tore ; tien qui due Bianchi ; vattene in Mercato* Vecchio, e comprami una stiacciatina, e parecchi Fichi Brogiotti, che voglio sguazzare ancor io. Vedete come uno per sordido che fosse, mercè deirabbondanza de*Fichi, fece con due Bianchi quel medesimo scialacquio , che quel- l'altro con cinquecento scudi. Non trovo con ragion chi si querela Di lei, se non qaalcnn c*ha torto il gasto Dietro alle pesche, ovver dietro alle mele. Non è cosini di ciò giudice giusto, Perchè Paffezion troppo Tingaona» E calzar troppo si diletta angusto. Cosi come un uomo non può mai esser tanto dabbene che non si trovi talvolta chi lo riprenda ; cosi una cosa noq può esser tanto perfetta, che non abbia alcuna volta chi gli apponga qualche difetto. E però il Poeta, poi- ché gli ha gran pezzo lodati i Fichi, dà contra a chi li biasima, che sarà qualche sofista di quelli , che si dilettano di fare argomenti sempre in contrario alla v'era via della natura. Dice dunque, ch'egli non trova 1^ DELLA PICHEmS chi ragionevolmente si quereli del Fico ; volendo dire, che chi se ne querela, non ha ragione; e secondo lui s'inganna per tre cagioni. Perchè non ha buon gusto; perchè ha troppa affezione ali^altre frutte ; e perchè si diletta di calzare stretto. Buon gusto non ha , perchè non rha diritto, dondechè assaporandolo non ne può sentir pienamente tutta quella dolcezza, che Y*è dentro ; perchè i gusti voglion essere proporzionati al cibo , e sopra tutto dritti, e vogliosi. E questo filosofastro, per- chè non rha di questa sorte, non potendo comparir con onor suo dinanzi al Fico , lo mette cosi torto , e cosi svogliato dietro alle pesche, o dietro alle mele. £ nota che dice propriamente dietroy perchè queste fratte non hanno il buco dinanzi , come il Fico. L' altra ca- gione perchè si gabba, è la troppo affezione. Sopra que- sta parola, oltre al suo senso piano, ne trovo uno dell'Imbroglia molto stiracchiato, il qual vuole, che af- fezione venga da affettare, e che sia il medesimo, che far la fetta ; e dice, che per questo le mele e le pesche sanno meglio a questo tale, perchè si mangiano a fette, ed a spicchi, la qual cosa torna bene a chi ha il gn- sto piccino, e sdilinquito. Dove i Fichi, perchè sono un boccon solo) e grande, e sdrucciolativo, bisognando in- goiarlo tutto in una volta, non fa per quelli, che man- giano a miccino. L'ultima è perchè si diletta di calzar troppo angusto. E per intender questa parte , immagi- natevi cosi grossamente, che il Fico sia come uno sti- vai largo, la mela e la pesca un borzacchinetto atti- lato, e SI gusto di questo tale sia un cotal piede pic- cino. Dice dunque, che perciò non piace il Fico a co- stui, perchè è troppo gran stivale al suo pedino. Ed a questo parrebbe, che il filosofastro avesse qualche ra- gione, se il Poeta- non dicesse troppo ^ quasi volendo inferire, che non desidera la strettezza per ragionevole comodità, ma per soverchia attillatura; di modo che per la troppa strettezza gli stivaletti il più delle volte si sdruciono, o si stiantano. DEL PADBE SICBO. ttl Qualche Fieaeeia forte d'ana spanna, Allorché dalla pioggia è sgaogherata, L'avrà STOgUato, oad*ei tanto s'affanna. Dette le cagioni , che possono muovere quei tali a seguire le mele, e le pesche, s'immagina ora quella, che lo può avere indotto a fuggire i Fichi , che è questa* I Fichi, o che sia pioggia ^ o che sia guazza, sono non solamente, come s' è detto, nocivi; ma troppo grandi, e troppo stomacosi. Dice adunque, che costui ne avrà per avventura gustato di quel tempo , e che non è maraviglia, se V hanno svogliato , perchè non sono allora più Fiche, ma Ficaccie, Et omnia in accioy secondo Maestro Guazzalletto , sunt mala praetet 'pri- mitiva, come Laccia , Vernaccia ecc. D'una spanna, cioè per lunghezza; che se non fosse più per gli altri versi, non se n' avrebbe a dolere , perchè sono quasi tutte cosi , dico per V ordinario. Ma il male è, che quella sgangheritudine della pioggia, che dice il Poeta, serve almeno per un sommesso di più per la medesima lunghezza ; perchè scialacquandola, li fa ciondolar giù le bucciacchere , li rimbrencioli, e ciò che v* è dentro. Poi per larghezza si spalanca più d* altrettanto ; perchè la furia della piena rompe tutti gli argini, e quella, che trova intoppo, raggirandosi in dentro, fa certi pro- fondi, e certi catrafossi, che la matematica vi si smar- risce dentro con tutte le misure. Sicché per questi Bgangheramenti , e per li nocumenti , che si son detti, che fanno i Fichi in questo tempo , non si hanno a toccare; e chi ne tocca, come pare, che voglia dire il Poeta, non si dee lamentare de' Fichi , che per loro stessi sono buoni , ma della sua , o sciocchezza , o in* gordigia , che non gli lascia conoscere , o aspettare il tempo; che sono migliori. A tutte una misura non è data, Ma come de* Baccelli ancora atTiene, Qaal è rnoXìA, • (piai poe* atoant. fiata. 12S 0BUiA nCBEIDZ Pdr UDa che ti spiaccia, non sta beiia Biasimar l'altre cosi latte affatto; Qaol che a te naoce, ad altri si cooTÌene. Le Fiche, poteva dir questo tale, sono sempre grandi ancorché non abbiano né pioggia , né guazza. £d a questo risponde il Poeta, che tutte non sono d'ans misura , e che ancora i Baccelli sono quando grandi quando piccioli ; e che se tu ne trovi una, che ti paia troppo grande, non per questo si debbono biasimar tutte r altre, perché quella, che non piace, o non istà bene a te, piacerà, o sarà buona a un altro. Volendo dir per questo, che si deve fare, come quando si va al calzolaio ; che se un paio di scarpette sono troppo larghe, te ne provi un altro , ed un altro , tanto che trovi la scarpa secondo il piede. Ma questi Tattamel- lini, che sputano in tondo , le vogliono tanto strette, che se non sentono nicchiare i punti, quando menano la calzatoia, non par loro di calzare attillato. £ qnesto é assai peggio , che calzar troppo largo. Perché a questo modo e* è sempre V agio del piede, e la salvezza della scarpa, dove a quello le più volte si guasta la scarpa , ed ammaccasi il piede. Lo Scaccafava, che è uno di quelli, che credono, che le Fiche sieno sempre troppo grandi, si cruccia in questo luogo col Poeta, che dica, che siano talvolta grandi, e talvolta piccole. E dice, che o veramente egli abbaca , .o veramente si trova si sconcio naturale, che qualche Fica per grande che sia gli par piccina : e giura , eh' egli, che si trova gur un buon naturatone, non s' abbatte mai a veruna, che non gli paresse troppo grande. Né manco crede, che se ne possa trovar per altri, da che fu quella ter- ribile sconfitta, che racconta V Arsiccio, dove le Fiche piccine, e i Baccelli gi'Ossi furono tanto malmenati dai Baccelli piccoli, e dalle Fiche grandi, che tntti furono DEL PADRS SXCEO. 129 o morti,- a mandati in perpetuo esilio. E da quello innanzi non si è veduto mai più nò Fica piccola , uè Saccello gran(^, salro a questi giorni , clie e' è com- parso un certo Giannino con un si sterminato Bac- oello, che si crede, che sia uno di quelli, che furon con- , finatL £ non so come si sia arrischiato a portar lo contrabbando in questi paesi. E Dio voglia non ci capiti male , ancoraché vi ' stii sotto salvocondotto del Commissario dell* Abbondanza, e sopra a certe vedove, cbe gli hanno dato franchigia. In somma questo Scac- cafava tiene, che tutte le Fiche siano sempre troppo grandi. Ma quando ben questo sia, il Poeta se lo iieva dinanzi insieme col Filosofastro cosi dicendPi Chi danna Tabbondanca a me par malto; Il bnoDO a mio parer fa sempre poco, Potessi io sailarmi per nn tratto. Costoro scoppiavano , se il Poeta non dava loro del matto per il capo. che domine di brigate sono que- ste, che desiderano la carestia , e massimamente delle cose buone, che a quelli che hanno stocco, non paiono mai tante, che bastino? Non V intendeva già cosi Fa- lalbacchio, che era savio, il quale diceva, che per di- ventar Filosofo avrebbe voluto , che una Fica fosse statai maggior d' un Palazzo per entrarvi tutto dentro, ed andarvi a spasso, veggendo, e contemplando le eosu della natura; perchè gli ci parevano altre meraviglie, che non vide Luciano dentro al suo pesce. Se stesse a me, io farei Gonfaloniere a vita un cittadino Fio- rentino, che sentendo certi disputar sopra le Fiche , e dir certe lor opinioni sciocche di volerle , chi picciole, chi strette, chi nocchiose, e cotali, disse loro : bestie, che voi siete, che non sapete che cosa siano Fiche. Io ne vorrei una, che vi potessi entrar dentro in mantello, e 'n cappuccio. Che benedetto sia egli, che ben è degno Caio. 9 IdO dIblla fichside di quel cappuccio, e bene ha il capo fatto a ciò, secondo il bisticcio del CarafuUa. Questi sono i cervelli da go- vernar le Repubbliche, che hanno si grand^animo, e vo- gliono mantenere il grado della civiltà dovunque vanno; e non certi cacastecchi, che s'avviliscono nelle grandezze, e non le sanno usare. Poieau'io eco. Vedete il poeta, che è di questi magnìfìci ancor egli, nemici della gret- titudine. E vuol dir qui, che non tanto gli pare il Fico troppo grande, ma gli pare di non potersene pure isfa- mare una volta. E nota in queste parole un Pathos mag- giore di quei del Burchiano, quando disse : fosslo Papa per un mese appunto Per saaiarmi un tratto del Pan unto. Non posso far, trifoo, che in qaei.to loeo Non ti scriva di ciò, che pur i' altr' ieri Sa le scale m' aTTenne di San Roco. Una Femina v'era, che panieri Vendea di Fiche latte elette, e baone, Ond* io là corsi pien d' altri pensieri. Il vedervi d' intorno assai persone Fece che, ratto quivi mi traesse, Per mirar, che di ciò fosse cagione. Visto eh' anch'io y'avea qualche interesse. Ne scelsi di mia man, siccome io soglio^ Parecchie^ e d' una stampa lutle impresse. Appéna il Poeta s'è distrigato dal Filosofìistro , che gli viene addosso un Pedante maledetto, che gli darà tanto da fare sopra al Fico, che bisognerà bene, che meni a levarlosi d'intorno. E perchè egli si risente cen- tra lui non solamente come filosofo, ma come bravo, vi dirò in un tempo il tema, che si disputa, e la querela che si combatte. Una femmina vende Fichi, il padre Si- ceo mercatando le dimanda: qual è la più dolce cosa, che si trovi; pensando che gli rispondesse il Fico, e DSL fkÙtOi BICÈÒ. . 131 cbe per provarlo*fossero venuti insieme agli argomenti; che questo era l'intento delPAutore; quando il pedante gli sfodera dalla Bibbia, Nil dulcius Melle, e con questo detto dal canto di dietro gli dà una stoccata. Ora , e colubri e con Tarmi in mano bisogna provare A questo Castrone, che ne mente, ed è un, traditore, ed un igno- rante. Scrive questo caso a Trifone, perchè volendo con- siglio, ed aiuto non poteva trovare né il maggior Filo- sofo naturale, né il più valente Padrino a condursi in campo con questo pedante. E Trifone un uomo perfetto, amico del nòstro Poeta, e parente di S. Francesco da Scesi; e però pizzica tanto, e nelTandare, e nel vestire di quella sua filosofia apostolica, e con tuttoché egli non sia Frate , porta sempre sotto il Cordone dell' On- dine Maggiore. À tempo di Marziale fu Bibliopola, e benché allora guadagnasse assai, secondo che si ritrae da quel medesimo, che disse: Et faeiet Incram Bibliopola Triphon ; ora non si trova però il piìi agiato uomo del mondo. Ma ^er la molta pratica, che ebbe in quel tempo dei libri, s' é fatto Poeta, ed ha scritto la processione dei Magnifici, quando vanno in Bucentoro. Tenne Una volta la chiave dei segreti del mondo, quando fu «agristano Scr Cecco , quel battezzato da Papa Clemente dottore in cifare , e grande arcifanfano de' segretarj , del quale io ho paura solamente a ricordarlo; perché mi dette una volta certe staffilate, per cagione che non avevo servato il decoro in un soprascritto a dire a un Pre- lato Monsignor Messere; e con tutto che io allegassi Tubo, e Tautorità del Padre Bembo, non potei mai far tanto, che non mi mandasse giù le calze. Acquistossi Trifone quel nome delizioso, perché solamente a vederlo direste, che fosse il passerotto delle Dame, il colombino di Veneie, e l'attillatura delie Mase. Della grandezza 18S DELLA FICHBIDE del suo stile leggerete le gran pai^)le, che 1 Poeta ne dirà forse in altra Ficata; e vedrete, che non fu. mai poeta, che avesse la più onnipotente vena di lui. E questo basti a mostrare, ch^ egli è sufficiente Padrino in quanto alla parte delle lettere. Quanto a quella del- Tarme si sa, che la sua lancia è la più j&anca, che portasse mai Cavalier Ficaio. Pensate, che avendo letto, che i Francesi vennero a combattere di qaa per le no- stre Fiche, egli ha voluto passar di là a combattere per le Fiche di Francia; dove intendo, che ha fatto prove stupende, benché ultimamente ci abbi lasciato del pelo. Per questo dunque, ch'egli è gran Filosofo naturale, e perchè è gran Cavaliere Errante, il Poeta se ne vuole servir per Padrino a rimpetto di Salomone, che è Pa- drino dell'avversario. Il restante del testo, perchè tutto piano, lascio che Ascensio, bisognando in qualche luogo, ve lo ripassi; e solamente avvertite a quello. D'una stampa impresse^ che il Grimo delle Breviose dice^che la stampa de' Fichi sono le Fave, e che si maraviglia come il Poeta tanto intelligente de' Fichi scegliesse di quelli, che erano stampati, sendo li non stampati mi- gliori. Ma lasciatelo pure abbacare, che d'una Mtampa non vuol dire, che avessero tutti il suggello della Fava, ma che erano tutti simili l'un l'altro. Perciocché questa Mona Smerla aveva parecchie piante novelle di Fiche giovani, che erano tutte figliuole del suo Fico, e per questo erano tutte d'una medesima sorta. E perchè spesso pur la baia voglio, Donna, dissMo, che mi parete esperta, E sMo discerno ben, vota d*orgoglio; Vorrei saper, che cosa è che più merla D*ogni altra il vanto di dolcezza avere, E che mi deste nna sentenza certa. Ella, che meco forse d'nn parere Sarebbe stata, tosto fa interrotta Da nn GapoechiOf a cai par molto sapere. DBL PADRE StCBO. 183 Lo qual, senz'esser chiesU)» disse al lolla. mi Melkt nella. Bibbia trovo sorilto; ' SI 'o quella, rispos'lo^ ch'ò nella botla. Io non mi posso tenere, che con due pennellate non vi faccia qui un pò* di ritratto del nostro Poeta. Quanto al corpo voi vedete quella grazia, quella gravità, quella maestà di quel suo viso, e di quel suo abito^ di quel suo andare, che vi rappresenta un Marone, un Platone, un di quelli omaccioni da Testamento Vecchio. Quanto all' animo immaginatevi , che il suo pensiero sia tutto prudenza e sapere, le sue opere tutta cortesia e bontà, le sue parole tutti precetti e piacevolezze. Pensate poi che quando non è in conserto con le Muse, in astratto con le intelligenze , in consiglio col Signore, in ufficio con gli amici, che tutto il restante del tempo voglia stare in su le Jberte e in sui gioliti, e che dovunque si trova, si dia bando alla melanconia; e secondo i tempi, e secondo le persone, o esso dia spasso altrui, o altri lo diano a lui. Non vi maravigliate dunque, se vuole ora la htì,m di questa Mona Smerla dalle Fiche. Donna, Disopra ha detto, che era una Femmina, ed ora parlandole la chiama Donna, per cattar benevo- lenza. Esperta, per facilitar la domanda ; perchè se non avesse avuto notizia di quel eh* egli chiedea, la richie- sta era vana , e la disdetta scusata. VoUi (T orgoglio ; buona compagna ; chò se non fosse stata piacevole, non sarebbe stato a proposito richiederla di dolcitudine. Vor- rei sapere eoe. Forse, che le domanda la quadratura del circolo, o il modo di salvar le apparenze, o di que- ste cose rematichd? Vuol sapere da lei, che cosa è la più dolce, che sia. E che mi desse una sentenza certa. Questo le disse, perchè non s' andasse aggirando con Zucchero, e con queste novelle, e venisse a prima col Fico innanzi, perchè sendo pratica dovea sapere, che quella era la vera dolcezza, e sarebbe stata meco : D^un parere \ idcbt saremmo stati d* accordo, dice il Poeta; IM DELLA FIOHBIDX perciocché se ne yemva a dirittura ddla mia fantasia: se non che si mise in mezzo, quasi un muro tra la spigs e la mano , Un Capocchio , un capo grosso, una tesU d' asino. A ctd par di saper molto. Non poteva meglio esprimere un compito ignorante, che facendolo appunto il rovescio d' un gran savio. Socrate sapeva ogni cosa e gli pareva di non saper nulla. Costui non sapea nulla, e parevagli di saper ogni cosa. £ questa è k propria natura d' un pedante, che oom* è giunto a , Si Deus tèi animue, et Beetis as, e«, a; e che può &r latinare il Discepolo per li passivi, entrerebbe come A- ristotile in circolo. Bispose dunque, Senza esser chiesto per richiesto. Vedete come questa sua ignoranza ora ben confettata da una fina presunzione. Allottay senza metter tempo in mezzo a considerar la risposta, perchè chi poco considera, presto parla. Nil Melle, diaselo in grammatica per parer letterato, e citò la Bibbia ^ per mostrar d' aver studiato in libris. Mi par di vedere questa pecora margolla, che quando vide il Padre Siceo cominciasse a rugumar cuiussi, e che dicesse, qui bi- sogna, che io mostri quanto vaglio. E vennegH ben fatto, che lo scorse nella prima giunta per ubbriaco. E però gli rispoee che credeva, 'che 1' avesse trovato nella Bibbia, non già quella di Mosè, ma in quello della Botta, perciocché Bibbia significa ancora il fon* diifiQ del vino. M' aveva costai già Unto trafitto GoD qnesta ana risposta maledetta , Ch*io pensai fargli vento d'un mandritto. Ma poi veggendo ch'era ana civetta In parole , ed in atti an gran pedante, Di pigliar men guardai altra vendetta. Non pareva al Poeta d' essersi riscòsso interamente dair ingiuria ricevuta dal Pedante solamente eon le parole , che disegnava valersene coi fatti. Ma poi av- vedutosi, che avendo a fare con una beatiuola, vi metr leva dell' onore, come generoso se ne rattenne. Trafitto. IDa qui si cava, che il colpo del Pedante ( o stoccata o imbroccata, che si fosse ) fu di punta, la qual ribat- tuta dal valente Poeta (perciocché la medesima per- cossa della Bibbia rivolse subito contro di lui^ s' ap< parecchia va nel medesimo tempo andar sopra di esso con un mandritto. Chi s'intende dell'arte della spada, conoscerà qui quanto maestrevolmente, e da buon scher* mitore con un medesimo colpo procurasse il riparo della stoccata, e V offesa del mandritto. Ma poi considerato, eh' era una civetta, un gufo, un allocco, un bavbagiani, idest un soggetto uccellabile. In Parole avendolo sen- tito a parlare per bua, e per haa. Ed in atti, gli atti d' un Pedante sono, parlando prosar le parole, dispu- tando alzar le dita, andando dimenarsi, spurgarsi tondo guardar se è mirato, compiacersi di quel che dice ; e quando gli viene allegato un' autorità di Cantalizio , coUeppolarsi tutto d'allegrezza. A questi atti scorse il Po»ta la pedantaggine sua , e 1' abito lo dovette poi chiarire affatto. Per ciò che me l' ha poi mostro in Ponte, che a vederlo solamente avresti detto, che fosse r.idea della Pedagogheria. Lasciamo stare, eh' egli sia più secco, che quella sua grammatica: porta in testa un cappelletto con una banda intorno di velluto di trippa: quale intendo, che esso chiama Pétaso. Veste una gabbanella di raso cotonato, con un batolo di castrone intorno al collo, che per esseve un poco gretta dinanzi mostra un paio di cosciali di cuoio, con una brachetta in modo sgonfia e sfardellata , che da una banda gli ciondola un pellicin di camicia ricamata, come di zafferano , e dall' altra un pezzo di brachiere» Dal ginocchio in giù ha in gamba un paio di usatti ricotti a due suola con buone fibbie, ed in piedi so- pr' essi un paio di pantofole a scaccafava. La cioppa disopra è di paonazzo sbiadato, con certe belle mostre Id6 DELLA FICHEIDB dinanzi di raso cbermesl smaltate di sopra di sudieiame tanè. Avea allora una mano scalza e V altra con m guanto a mezze dita, a uso di potatore, e con questo abito andava oltre in contegno dichiarando la lanua a un suo Pacchierotto; il quale gli domandò poi, chi fosse in Boma che sapesse della lettera assai. £Sd egià gli rispose, che dopo lui non conosceva il più yalen- tuomo del Probo. Or vedete se il Poeta avea ragione a sdegnarsi di pigliarne vendetta. Altra f idest altra- mente che con parole, come avea fatto. Fargli veni» è parola da bravi, perchè un colpo, quando esce di mano d' un bravazzo, con l'impeto travaglia l'aria, e fi vento e rumore. Qaal Tristan, qnal Galasso, od altro erraoto Fa mai si pronto colla spada in mano A far gran prore alla sna Donna innante; Gom* io in qael punto a dir di qaello iosano Che si pensò vituperar le Fiche E far V Idolo mio dispetto, e vano? Deliberatosi di non procedere contro il Pedante coi fatti, pensò di sopraffarlo di parole, e portossi, dice, tanto valorosamente, che né Tristano, né Galasso, né verun altro Cavalier errante si mostrò mai tanto pronto a far con la spada in favor delle lor Donne, quanto esso a dir con la lingua contro il Pedante. Fu Tristano gran Ca vallerò errante ; ed ancor che fosse nella Ta- vola rotonda, fece gran cose per le Fiche, e' n sul Fico d' Isotta si mori. Galasso, dicon che fu Cavalier santo, e che non s' impacciò mai né di Fichi, né di Donne. E però maravigliandomi , che il Poeta lo metta per Cavalier Ficaio, ho riveduto questo luogo meglio, e trovo, che il testo antico a penna non dice Galasso, ma Grra- dasso. Quello che si facesse poi per le Fiche, cercatelo da voi, che io non ho ora il capo a' romanzi. E dice innante alle lor Donne, perché se si fossero messi lor DEL PADRE 8ICE0. tòl dietro, non avrebbon elle potuto vedere i fatti loro; e poi quel recarsi dietro non è da valentuomo. A dire a infuriare, e bravare, perchè è verbo di mezzo, e si può intendere in buona ed in mala parte. Di quello insano E bene era egli pazzo a voler vituperar le cose buone , e lodate da ognuno, e massimamente le Fiche bisogna pronunciarle con meraviglia, e con riverenza ; come dire quel frutto tanto dolce, tanto abbondante , tanto pre- zioso, tanto necessario, tanto lodato, tanto desiderato da ognuno; e V Idol mio, cioè tanto adorato da me; in mia presenza /ar despetto y cioè disprezzare, e met- tere in dispregio altrui. E perchè, quando non è prez- zato non è custodito, né coltivato, però dice Vano , cioè sterile, perchè se imboschisce diventa Caprifico, e non fa più frutto, che venga a perfezione. Sempre a* Pedanti faroo poco amiche, Glie vanno In'zoccol per t* asciutto sposso^ EM frutto perdon delle lor fatiche. Non solamente nons' ha da stare al Pedante di questa sentenza, perchè è ubbriaco, perchè è ignorante, perchè è pazzo, come ha detto di sopra, ma perchè è sospetto per la nimieizia, che hanno tutti i Pedanti con le Fi- che ; e la cagione è questa, che hanno letto in Plinio di quella pioggia, che si dice di sopra, che immollando ì piedi fa si gran male, e le fuggono sempre, ancorché non piova. £ se pur s'arrischiano d'appressarsi loro, con tutto che sia rasciutto , vi vanno in zoccoli, e ne colgono dalla banda del sole, dove sanno che non è guazza. E per questo più volentieri innestano le mele, e le pesche, le quali per non esser cosi in succhio co- me le Fiche, non possono avviar V umor naturale della marza. E però dice, che i lor nesti sono vani, perdono il frutto delle lor fatiche. Dicono ancora un'altra ca- gione di questa inimicizia de' Pedanti co' Fichi : perchè un pedante fu quello, che toccò di quelle tante Fiche 199 pKfLA FIOBBIDB affiri^teU^te «el viso dai Palafrenieri di un co^l Papa, per e&ser venuto imbasciadore della sua Comanità a presentare a Sua Santità un pien sacco di Fiche ac- concio con la pula galantemente, perchè non s* am- maccassero. Il resto dovete sapere/ che disse:, lodato Dio, che non furon pesche, come volevan i Massari; e che avendogli detto il Papa del presente, mille grates, riferì, che il Papa voleva mille graticci per spaccarle; ma la vera cagione è la prima, e seguitiamo più oltre. E sa da Salomone ii Mei fa messo iDDaDzi al FìcOi ooo si dee per questo Aver ciò per decreto cosi espresso. Ma bisogna redere in fonie il Testo, E ritroTare il ver Ano a un pnniino, E non dar la sentODxa cosi presto. Fermo e sbattuto questo Cuium pecua del pedante , col sopravvento delle parole, ndn può con suo onore non rispondere con la ragione al detto di Salomone, che gli era Padrino, non potendolo rifiutare coii dir che non fosse suo pari. E risponde cosi: che sebben Salomone fu tanto savio, non è per questo, che non si possa appellar dalla sua sentenza, avendo proceduto per via di contraddette in contumacia della parte. £ in verità credo, cbe gli sia fatto torto, la qual cosa mi fa credere un certo lambografo Greco, il quale sa- pendo, che io era sollecitatore del Poeta in questa causa, sondo lui valente Procuratore, mi venne a tro- vare, e la prima cosa mi sfoderò addosso: Sica tu Chrisu Chresto. Io gli risposi di no, pensando che vo- lesse dire, se Cato crese in Cristo, idest credette: ma poi svolgarezzandomelo disse, che voleva dire^ che le Fiche erano migliori che Toro, non tanto che fossero più dolci che il mele : ,e che egli voleva pigliar sopra di sé questa lite centra Salomone, e fare il piato a sue spese. Sentendosi dunque il Poeta gravato, offerisce di DBL PADBfi Steso. 18D< rifar le spese, e domanda d' esser restituito in integro, perchè intende provare il contrario, ed esaminar due testimoni iu favor suo, che V uno è Omero , e V altro Mastro Simone ; tanto più che egli ha un altro giudice, che sente tutto il contrario di Salomone, e questo è Aristofane. £ se V uno dice : Nil duldus Melle ; Y altro dice: Nil duldus Ficubue. £ l'uno si tiene per Baldo, e l'altro si reputa per Bartolo: sicché qui bisogna cac- ciar mano a paragrafi; e poiché le autorità sono di pari, attendere alle ragioni. £ venendo ai meriti della causa dice, che bisogna vedere il Teato in fonte, cioè ricominciare il registro da capo. Benché il Yerzelli dice, che sarebbe stato meglio a procedere in questa causa per via di Notomia, che di Legge, per venire alla prova della vera dolcezza del Fico; e vuole, che il Poeta in- tenda, che il Testo di esso Fico sia quel vaso, e quel suo cassero, dove son dentro tante cose, e tanti bugi- gattoli, come si é detto , che bisognerebbe mettervi dentro un buono anotomista , che ricercasse tutti quei luoghi, che vi sono per ritrovare tutta quella dolcezza, che v'é riposta. Ma il Verrazzano la intende per via di geografia, e tiene che'l Poeta dicendo, vedere in fonte, voglia inferire, che il Fic^ sia come il Nilo, dei quale non s' è maf trovato il Fonte , ancorché per al- cuni si creda, che sia ne' Monti di Luna. Interpreta dunque,' che bisogna andare al fonte del Fico, cioè dentro via, per fin donde comincia, se tant' oltre si può arrivar^. £ ritrovare il vero, la vera dolcezza sua Fino a un puntino. Perciocché bisogna ricercar per ogni banda tutti quei ridotti, e tutte quelle grotte, d'onde sorgono gli zampilli, e le polle della dolcitudine ficaie. £ qui pare, che voglia conchiudere, che se Salomone non andò tanto a dentro, che arrivasse al fonte, come non e' è arrivato mai veruno, non ha potuto aver per- fetto giudizio della compita dolcezza del Fico. £ però non aveva a dar la sentenza così pre$to, perché in una 140 DBLLA FICHStDÌS cosa tanto profonda non si dee procedere per via som- maria, ma in puncto juris, e metter tempo in mezzo , provando e riprovando, voltando e rivoltando pia volte le carte di sotto e di sopra, avanti che si scocchi k sentenza diffinitiva. Che ti che qaesto non dirà *l divino Ornerò^ che cantò di Troia 1* armi Con chiara voce più che Orfeo^ e Lino. Il Fico dolce chiama ne* suoi Carmi ; li Mei non mai, ma fresco e verde sempre : E saper la cagion di ciò ancor parmi. Magnis testibtM ista rea agetur. Perciocché Omero, che produce prima, è uno di quei testimoni , che a Vinegia si chiamano di Velluo ; e domandalo Divino per mo- strar, che è degno di fede; domandalo scrittor del- l' armi di Troia per mostrar, che era informato; avendo scritto le cose seguite per la dolcezza del Pico d' fi- lena, di quel di Briseide, e di quel di Nausica. Oltre che egli n* aveva gustate' pur assai, che non basterehhe , che deponesse d* udita, se non deponesse ancora di gusto, e di tatto, perchè di vista, non era egli legittima prova. Che se chi ha «un occhio solo, non può esser testimonio, tanto meno poteva esser esso, che era cieco affatto secondo quelli, che vogliono, che la sua cecità stesse negli occhi, e non nel nome. Piò, che Orfeo, e Lino: fallo più autentico testimone di loro, perchè non venga voglia al giudice di esaminarli ; dubitando non gli deponessero centra per la nimicizia, che ebbero coi Fichi. Perchè Orfeo fu lapidato, e bastonato a colpì di Fichi, e Lino fu mangiato da cani, perchè per natura poetica gli aveva a noia. E Fico dolce chiama ne^sitoi Carmi, La deposizione d'Omero è, che il Fico sia dolce, e '1 Mele sia clorido, cioè , come V Autore inter- preta, fresco, e verde, che questi epiteti dà loro sempre nelle sue opere per propri a ciascuno d'essi. Ora, che I II 1 1 - 1 DEL PADRE 8ICB0* 141 il Mele noQ sia dolce, oltre air autorità d'Omero, lo vuol mostrare con la testimonianza, e con la ragione di Mastro Simone, il quale è il secondo testimone, ch'egli produce; e T esamina sua è questa. Il mei, par che maDgiato altrai distempre^ E *a collera si volti, a cai V amaro. Danno costor, che san tntle le tempre. Questo segreto cosi degno e raro, Mastro Simon stndiaodo il Porco' grasso Scoperse a Brano, che gli fa si caro. • Or fa tu l' argomento, Babboasso, E di' , se U mei in collera si volta, Sega' ò che d' amareixa non ò casso. II Mele si volta in collera; la collera è amara; dun> que il Mele non è più dolce del Fico, che non parter cipa in parte alcuna d'amarezza. La maggiore, e la minore si provano insieme per la testimonianza di Ma- stro Simone da Villa dottor di medicine; del quale Paté motto col Boccaccio, che vi raggttaglierà, quanto fosse più savio di Salomone. La conseguenza non si 3UÒ negare, che di sopra s'è provato, che il Fico è :utta dolcezza; oltreché non solamente è dolce per sé, na addolcisce V amarezza delle altre cose, come si dice iella rata, che standogli appresso diventa più dolce , i di miglior nutrimento. E perchè non crediate, che ilastro Simone si movesse senza fondamento, dice, che" ' aveva studiato in sul Porco grasso ; e Porco grasso, ; Vino a cena sono quei due gran satrapi, che fanno enire il canchero alle medicine : e perchè è un segreto !* importanza, perciò dice, che lo scoperse a Bruno di- intore, suo grande amico; che altramente non l' a- rebbe detto. £ trovo, che gliele disse, pur ricompensa cir orinale, che gli dipinse sopra la porta; e perchè brascinasse le parole con Buffalmacco del mogliazzo ella Contessa di Civillari, e di farlo Cavalier bagnato. 142 DELtiA ^ICkBII^ Conchittso dunque, é provato, che questa proposizioDe di Salomoue è una vanità delle vanità stke ; si rivolge al Pedante, e chiamalo Babbuasso, cioè Scimioiìe : p&- che Babbuino è4;anto come Sci tniotio : e cosi lo chiama perchè come le Scimie fauno quel che veggono fare, cosi il Pedante dicea quello, che sentia dirò. E quasi volendo inferire, che allegando il detto Salomone, semi considerare, che facesse a proposito, parlava per bocca d' altri, come gli spiritati ; e per questo gli ordina no argomento secondo la ricetta di Mastro Simone; e v(v leva, che se lo facesse da sé medesimo: se non che Trifone come Padrino ne volle Toner esso, e caceio- gliene su di sua mano. L' argomento è stemperato in Barocco, e la ricetta è questa, u Recipe il mele è colle- rico ; la collera è amara ; ergo tu es àsinus; n A questa ultima schizzata, cominciando V argomento a ^e ope- razione, il Pedante a brache calate se ne va a gesto: e il Poeta corre il campo Ficaie per vincitore. • Ma ora è di sonar tempo a raccolta,' E lasciare il Pedante io saa malora Iq questa opioion si vana, e stolta. Gbè U QUOTO giorno recherà l' Aurora, Anzi che al mezzo delle lodi arrivi Di lor, che tanto la mia penna onora. Avendo conteso col Pedante sO^ra al Fico, e conw soldato, e come dottore, dà a ciascuna impresa la sua fine. Onde sonare a raccolta, dice quanto al duello ; e lasciar 1* avversario nella sua opinione, quanto aUa di- sputa. £ recando la metafora campale al nostro pro- posito, sonar a raccolta vuol dir tacere ; perchè secondo il nostro Vico, chi parla semina e chi tace raccoglie. Ma seeoìido il Burla, sonare a raccolta, vuol dire riti- rarsi a salvamento. Perchè è ito avvertendo, che il Poeta si mise a questa impresa, prima come cavaliere^ cioè ai^ditamente , e con orgoglio; dipoi come dottore ? DBIi ^ADRB ÀICEO. 1^ coi libri itt ToAìko a guisa di Messer Ricciardo dà Chin- zica col Calendario, cioè posatamente, e piuttosto con ragione, ohe con appetito. Ora perchè il Poeta al tehso affironto portava pericolo di non mettervisi da erbolaro, cioè a colpi fitti in terra ; dice^ che non volendosi più cimentare, per aver già per due riprese compito all' o- nor SUO; si delibera di ritirarsi; e che il Pedante Jpoi, che ha quell' argomento in corpo, facci della sua fan- tasia a suo modo. Che 7 nuovo giorno recherà V Aurora ; idest si farà prima giorno^ perciocché egli era a veg- ghia, quando dava in su quésto Fiche. £ sentendosi avere assai combattuto sopra di esse, dubitava, che al terzo affironto ce 1' avrebbe prima colto il giorno , che avesse (compito a mezzo di fare 9 dovere alle Fiche. Che tanto la 'ihia penna onora. Il Petrarca avrebbe detto, che col vàio stile incarno. Infelici color^ che oe son privi ; Perocchò dove Fica non si trova , Non vi posson dorar gli nomini vivi. Comechè il Poeta abbia detto di volersi ritirar dalle Fiche, non si sentendo ancor la vena sgonfia, né la fantasia sborrata affatto, vi dà su di nuovo. E parmi, che abbi fatto come quello spagnuolo, che quando si fu confessato di tutti i suoi peccati, ritornò al confes- sore a dire, che s* era dimenticato d* uno peccadiglio , e questo era di non credere in Dio. Perciocché dopo un tanto catalogo delle lodi del Fico, quando pensa- vamo, che non avesse più che dire, e che egli dice di volersi ritrarre, ce ne scocca in un terzetto due, che a petto loro tutte V altre son nulla ; cioè, che le Fiche sono la felicità degli uomini, e la vita di essi. Egli dice, che quelli, che ne sono privi, sono infelicL Dun- que quelli, che non ne son privi, son feliqi. Le Fiche dunque sono la nostra felicità. Or vadansi a riporre tutti i beni del corpo, dell* animo, della fortuna, quelle 144 BKLLA FICHEIDE indoleniey e quelle tante cacherie, che questi nebbioni Filosofi si vanno sognando, poiché il eommo bene è tutto dentro nelle Fiche. Che siano la nostra vita, pro- valo per questo, che dove non son Fiche, non sono uomini, e non vi durano vivi, cioè che si muoiono , e non vi rinascono degli altri. E per questo il Padre Erodoto volendo mostrare, che un paese era molto de- serto, disse, che non v' eran Fiche; come quello, che voleva dire, che dove non son Fiche , non vi possono esser uomini, e che dove sono uomini, è necessario che sianvi Fiche. Il medesimo dice il Fatappio delle Fave; e vuole, che di necessità, dove sono uomini, vi siano Fiche, e Fave. E cosi per lo contrario. Aggiungendo, che quelle hestie delle Amazzoni furon tutte per ca- pitar male una volta, che sbandiron le Fave, se non s' avvedevano presto di metter a sacco quelle de' vi< cini. Fa poi una questione, quali siano più necessarie, e quali fossero prima, o le Fiche, o le Fave, la quale è stata poi risoluta dal Babbione con quella dell' uovo e della gallina, e dell' incudine, e del martello. L' udir Ti parrà forse cosa nuova, Una sna corta qualità stupenda Ma pare è vera^ e vedesi p^r prova. Qaaodo la carne è dura sì ehe renda Fastidio altroi^ acciocchò intenerisca, FalCi ehe al Fico iosto altri V appenda. Però se 'i tao padron (nota Licisca) Mena talor qualcuno air improvviso A cenar seco, fa che ta avverlisca. Un pollo, che sia allora allora ucciso^ Perchè Infrollisca, correr ti bisogna Airarbor, che ne toUe il Paradiso. Qui tocca un segreto del Fico con un punto della gola, che quel balordo d'Apicio non fu da tanto a trovarlo. Che 6e la carne dura, o alida s' appende al DSL PADRE SÌCBO. . 145 Fico, diventa sabito frolla, o. trita, come dicono i To- scani ; poiché ci hanno messa la muserola in bocca, e che non possiamo parlare, se non a lor modo. Il Coda- ritta leggendo questo luogo disse ridendo: alla mia carne non avvien già cosi; che solamente che vegga il Fico, mi s'intirizza, e mi si rassoda più che mai. Avverti, gli risposi io , che il Poeta non dice , quando si mostra la carne al Fico^ ma quando vi eC appicca suso. Io per me , soggiunse, ho provato d' appiccarvela tre volte, una dietro V altra, e alla fine me Tho tro* vata pur dura. Seccaggine Codaritta, questa tua carne, dissidio, debb* esser qualche nervo di miccio; che se la fosse ordinaria, almeno alla seconda volta si dovrebbe un poco rammorbidare. In somma io potei ben dire , eh' egli alzò sempre il capo, e stette con la sua fan- tasia più sodo che mai. Io per intender il colato di questa cosa n* ho poi domandata la Palomba ostessa , la quale, come pratica, m'ha fatto un bel discorso di tutte le sorte carni, e di tutte le sorte gusti^ dicendomi, che eravl differenza dalla carne del capretto a quella del bue; dal pelato alla selvaticina; da quella con osso a quella senz'osso; dalla magra alla grassa; e dall' alida alla trita; e secondo queste distinzioni dichiarò, qual carne si macerasse piuttosto e quante volte bisognava appiccare al Fico ciascuna d' esse. come, diss' io , che il Codaritta n'ha fytta 1' esperienza , e non trova , che il Fico possa domare la durezza della sua! Se il Codaritta, rìspos'ella, l'avesse appiccata al Fico mio, l'avrebbe macera pur troppo; che pur ieri sera mica* pitò un forestiero a casa, che si portò sotto un lombo sodo, riquadrato» costoluto, nervoso, tanto zotico , che fu un fastidio a rammorbidarlo ; e con tutto ciò alla quinta appiccatura si rawincidi pur un poco, ed alla sesta fu frollo affatto. Ma questi, diss'. ella, sono certi bocconi strangolati da ingordi, che bisogna appuntare i piedi al muro, e biasciare un gran pezzo per ingoiarli. Caro, 10 146 • DVLLA FIOBBO» La buona carne vuol essere d* mi buon poUasfrone gio- vine, pelato, bianco, liscio, grosso, che abbia più tene- rume, cbe osso; e questo sebben per esser fresco e duro, in sul Fico diventa pastoso, ed arrenderole, e se ne può fare non solamente arrosto, ma lesso, tocchetti, guazzetti, intingoli, pastingoli, nanzi pasto, dietro a pasto, e tutto pasto ; e cosi concbinse, secondo lei, che questo &• il miglior boccone, che si mangL Avrei a dire del modo o de' modi, con che s'appende la Carne al Fico, che sono assai, e la più bella taccola del mondo: ma bisognerebbe mettergli in atto ; a che non ho tem- po, né comodità. Imperò ve ne rimetto a quel libro d' altro che Sonetti ; e quando pur volete , menatemi ad un Fico giovine, e lasciate far a me. lAcisca in- tendete che sia la Gigia di Messere. Il Padrone Mes- ser suo. Un Pollo. Di qui si trae, che vuol esser gio- vine, che altramente direbbe un Gallo. Allora ucciso. Credo che '1 dica, perchè se fosse stantio, sarebbe por troppo frollo da sé, e non bisognerebbe appiccarlo al Fico. All' arbor che ne lolle il Partidtso. Or qui bi- sogna spogliarsi in giubberello a difendere il Poeta, perchè lo Schizzinoso dice, eh' egli ha fatto come una volta il Celatone, quando volle lodare un soldato^ che dopo racconto molte sue prodezze disse, che era stato il primo a entrare in una ten*a assediata, ma che s' era resa a patti. Il Poeta, dice egli, s' ha stillato il cer vello a trovar le lodi del Fico, e poi in un ^ tempo gli £a uno sberleffo nel viso, dicendo, che n' ha tolto il Paradiso. fichemi qua di dietro dunque con tutte le tante lor preminenze, poiché ci tolgono il Paradiso. Ma l'autore, che s'avvide, che qualcuno sarebbe stato di questa fantasia dello Schizzinoso, soggiunse subito: Non 80 se fatto gli averò vergogna A rimembrar il nostro antico Intto; £ fa por Tero, e.'l gran Serittor non 80gna« DEL PADRE 8I0B0. 147 Ben erado, che da qaal si roglia frollo Meglio guardato si sarebbe Adamo, Allor che dal D'iavol fa sedotto. Sono le Ficbei a dir il Teroyiin amo. Per torci il Nalaral tropp3 gagliardo, S ilio il Mondo, che nn tempo ne fa gramo. ■ Appresso di me, e della verità, dice egli, quel che io ho detto non pregiudica all' onor del Fico ; ma npn so se gli avrò fatto vergogna appresso qualche plebeo , come questa bestia dello Schizzinoso. A rimembrare il nostro antico lutto'^ idest a ricordare i morti a tavola. Di che pare, che si voglia scusare con dire, che non poteva far di meno, sendo vero, quasi dicaè, sapendosi per ognuno, e sondo scritto da si grande Scrittore, co- me fu Mosè che non sogna, che non iscrisse dormendo, perchè non se gli potesse dire — Quandoque bonus dormitat Homerus — donde si cava, che Mosè sta sem- pre in cervello, e Omero qualche volta arrocchia: e questo basta scusar lui d' averlo ricordato. Per iscusa poi del Fico, che fosse cagione della prevaricazione d'A- damo, io ho trovato nel Breviario ex Guccio Imbratta, cosi un palmo intomo all' Avvento, che se Adamo peccò il peccato venne dall' incontinenza, e dalla disubbidienza sua, e dalla tentazione del Diavolaccio, non dal Fico. Che se le cose buone s' intendessero non buone, per esser male usate, la più parte delle buone, e dello belle cose, che Dio ha fatte, si potrebono dire , che fossero cattive, e mal fatte, perchè gli uomini le con- vertono in mal uso. Segue poi di molta ciarpa sopra questa materia; ma tutte le lettere non si ponno leg- gere, perchè l'untume le ha ricoverte. La somma di tutto è questa, che il Fico non ha colpa di questo pec- cato per esser buono, e bello ; come neanche il vino ha colpa dell' ubbriachezza, per esser buona bevanda ; ed io per me non tanto che ne voglia imputare il Fico , ma ne scuso quel poveretto d' Adamo, se vi si lasciò 193 DKiIiA FIOHBIDB affifUtelLite nel yìbo dai Palafrenieri di un cotal Papa, per e&ser venuto imbasciadore della sua Comunità a presentare a Sua Santità un pien sacco di Fiche ac- concio con la pula galantemente, perchè non s' am- maccassero. Il resto dovete sapere,- che disse:. lodato Dio, che non furon pesche, come volevan i Massari; e che avendogli detto il Papa del presente, mille grates, riferì, che il Papa voleva mille graticci per seccarle; ma la vera cagione è la prima, e seguitiamo più oltre. E se da Salomone il Mei fa messo iDoanzi al Fico, non si dee per questo Aver ciò per decreto cosi espresso. Ma bisogna federe in fonie il Testo, E ritrovare il ver Ano a un pnniino, E non dar la tentenxa cosi presto. Fermo e sbattuto questo Cuium pecua del pedante , col sopravvento delle parole, ndn può con suo onore non rispondere con la ragione al detto di Salomone, che gli era Padrino, non potendolo rifiutare con dir che non fosse suo pad. £ risponde cosi: che sebben Salomone fu tanto savio, non è per questo, che non si possa appellar dalla sua sentenza, avendo proceduto per via di contraddette in contumacia della parte. E in verità credo, che gli sia fatto torto, la qual cosa mi fa credere un certo lambografo Greco, il quale sa- pendo, che io era sollecitatore del Poeta in questa causa, sondo lui valente Procuratore, mi venne a tro- vare, e la prima cosa mi sfoderò addosso: Sica tu Chrisu Chresto. Io gli risposi di no, pensando che vo- lesse dire, se Cato crese in Cristo, idest credette: ma poi svolgarezzandomelo disse, che voleva dire^ che le Fiche erano migliori che Toro, non tanto che fossero più dolci che il mele : ,e che egli voleva pigliar sopra di sé questa lite centra Salomone, e fare il piato a sue spese. Sentendosi dunque il Poeta gravato, ofibrisce di DBL PADBfi Steso. 18D: icìiar le spese, e domanda d* esser restituito in integro, perchè intende provare il contrario, ed esaminar due testimoni iu favor suo, che V uno è Omero , e T altro Mastro Simone ; tanto più che egli ha un altro giudice, che sente tutto il contrario di Salomone, e questo è Aristofane. £ se V uno dice : Nil dulcius Melle ; V altro dice: Nil dulcius FieubiM, £ l'uno si tiene per Baldo, e l'altro si reputa per Bartolo: sicché qui bisogna cac- ciar mano a paragrafi; e poiché le autorità sono di pari, attendere alle ragioni. £ venendo ai meriti della causa dice, che bisogna vedere il Testo in fonte, cioè ricominciare il registro da capo. Benché il Yerzelli dice, che sarebbe stato meglio a procedere in questa causa per via di Notomia, che di Legge, per venire alla prova della vera dolcezza del Fico; e vuole, che il Poeta in- tenda, che il Testo di esso Fico sia quel vaso, e quel suo cassero, dove son dentro tante cose, e tanti bugi- gattoli, come si é detto , che bisognerebbe mettervi dentro un buono anotomista , che ricercasse tutti quei luoghi, che vi sono per ritrovare tutta quella dolcezza, che v'è riposta. Ma il Verrazzano la intende per via di geografia, e tiene che'l Poeta dicendo, vedere in fonte, voglia inferire, che il Fìcq sia come il Nilo, dei quale non s' é mai trovato il Fonte , ancorché per al- cuni si creda, che sia ne' Monti di Luna. Interpreta dunque ,' che bisogna andare al fonte del Fico, cioè dentro via, per fin donde comincia, se tant' oltre si può arrivar^. £ ritrovare il vero, la vera dolcezza sua Fino a un puntino. Perciocché bisogna ricercar per ogni banda tutti quei ridotti, e tutte quelle grotte, d' onde sorgono gli zampilli, e le polle della dolcitudine ficaie. £ qui pare, che voglia conchiudere, che se Salomone non andò tanto a dentro, che arrivasse al fonte, come non e' é arrivato mai veruno, non ha potuto aver per- fetto giudizio della compita dolcezza del Fico. £ però non aveva a dar la sentenza cobì presto, perché in una ISO DELLA rtCHEIDB ignudo : asEÌ importa pure asaaì , dìcé il Bfiru£Fk ^ cfaè quando si combatte con la targa ignudo, sì copre me- glio', vi BÌ mnniccliia sotto più facilmente , e lo scudo BÌ maneggia con più destrezza. Bencliè vi si pa6 et battere anche vestito. Io trovo nella Tavola di Cebete, che le AwaiEOni fecero già con queste Targhe di Fichi molte gran cose , perchè non era si bestiale incontro d'un uomo, o di più insieme, che non riceressero con esse. Queste dal Padre Vii^ilio son chiamate Pelte lu- nate, perciocchÈ erano in garbo d'una mezza luna : donde vuole il Pastricciano , che nel sno paese le Fiche si chiamassero Lnne, siccome le Mele si dicono Soli. Di sopra erano coverte d' una pelle con di peli suoi. E per mostrarvi appunto , come le stavano , vi metterò la fi- gura d'eaaa, che il Prete dell' Àsino afferma averla ri- tratta da qnella, con che Pentasilea fece si gran prove nel Campo Troiano ; che si trova oggi in potere d'aoa Paladina, che a Orvieto, a tempo del Sacco , fece con essa pcodezie incredibili, sino a sostenere in una volta l'incontro di xsxu. £ che di Pentasilea fosse, dà per segno quel fesso che è nel mezzo, che trova, che fii ^ della lancia d' Achille; e sta in questo moda. Dm PADBB 8ICE0. 151 Avvertendovi, che quel colpo non è già rottura, né stianftatara (che non credeste, eh' io non istessi in cer- vello) ma è una commessura del legname, che quando riceve il colpo, s' apre per acconsentire alla furia di ehi mena, ed aprendosi non si rompe mai. Il medesimo diee, ehe il Gorgone di Minerva fu una rotella di Fico e che per esser Vergioe la portava coperta. Il Frasta- glia m' ha poi detto di molti belli significati di quel viso di Medusa; della* trasfigurazione delle genti in mavmo; e che voglian dire quelli suoi capelli di sor» penti, e quel sangue venenoso, che fece i coralli ; e qaell' occhio, che si prestavano V una e 1^ altra, e certi altri bellissimi misteri: ma ha voluto, che gli giuri di non dirli,, se non a imo per volta. Il Regno per aa Fico fa disperso Di Cartagine altera^ che tant' anni Il Capo fa' tremar doli' Universo. Sicelides Masse, paalo malora canamas ; Non omnes arbasta jaraat, hamilesqae Myric». Avendo il Poeta tanto innalzato lo stile a questi Fi- chi, e tanto rigonfio, come vedete ; la mia bassa , e smunta fantasia non può arrivar dove egli si stende « né supplire alla capacità di quella materia, se le Muse non me la drizzano, e non la spirano. £ però con quel furor poetico, che m* hanno messo addosso la bravura di questi versi, mi ristringo con le Muse sopraddetta, e già sento, che si portano bene, perchè V adopero a quello, che son buone, e d#ve son pratiche; la qual cosa non fece Virgilio, come s'è detto. Da queste Muse Ficaruole dunque aiutato a sborrar la fantasia, che mi sento piena, ed .elevata a spianare questo altissimo ed ampbsimo soggetto, dico, che voi y' immaginate, che il Poeta vedesse qui la superbissima, e potentissima città di Cartagine, piena di tutti quelli suoi Amilcari, Anni- 15t DSLLÀ FICHBIDB bali, Àsdrabali; Ann'oni, tutti vaìofosi, ingoJesti, S8gsc^ fì-odolentì, con quelle armate, e con quelli issercitT già tante volte vittoriosi, e tanto al Romano Impero natu- ralmente nimici. E dirimpetto a Cartagine gli si rap- presentasse la gran città di Roma sua concorrente, aa- corcbè vincitrice, tutta pensosa della potenza di queUa città ; sospesa della sua fede, guardinga dalle sa^ frodi, gelosa del proprio impero^ e quasi attonita della ricor- danza di tante fatiche, di tante paure,. di tante stragi, che già per due lunghissime , e mortalissime guerre , con tanto sangue, con tanto danno, con -tanto spa- vento, avea per quella sofferto ; e che stando, in dub- bio di romper la terza guerra coli essa, comparisse nel Senato il Padre Catone , e con quella sua toga lunga, con quel viso santo, con quel capo sodo, con qaeU* an- dar grave, con quel suo parlar Ubero, salisse in bi- goncia a mostrare a quelli omaccioni la necessità di quella guerra; la potenza e la infedeltà de* Cartaginesi e il pericolo della Repubblica Romana: la quale sua opinione avendo qualche controversia. (Però che Scipiava Gonaiglione Che si dovesse cariar Gonservagina. ) Immaginatevi, che subito, eh' egli scoperse il Pico ve- nuto da quelle parti in poche ore, per mostrar loro la vicinità de' nemici, per la bontà, e per la dignità di quel frutto, si accendessero quegli Scipioni, quei Fabì, quei Marcelli, e tutti quei Barbassori al conquisto delle Fiche Affricane, come già 1 Francesi delle Fiche d'I- talia, e che unitamente acconsentissero al parere del vecchio Catone ; la qual deliberazione fu la sicurezza , la gloria, e la grandezza della Città di Roma: e -se fa lo sterminio di Cartagine, dovete sapere, ch'io trovo nelle Storie di Juba, che fra le Fiche, e i Cartaginesi erano occulte inimicizie, e che il Fico di Catone era I . VEL PADRE ftlCEO. 15S venuto per mare in poste Ambasciadore degli altri Fi* chi a far lega eoi Romani. La qual lega trovo, che durò poi fino al tempo di Scatinio, il quale fece la legge contra a quelli, che cominciavano a tener pra- tica con le mele ; e però il Fico in questo caso s* ha da scusare, se fu cagione della rovina di Cartagine , la quale gli era piuttosto nimica^ che patria ; e dal- l'* altro canto si dee lodare, che facesse quell'opra , e fosse collegato alla Monarchia dell'impero Romano. Troppa faeeenda avrei, a troppi affasai A. narrar ei6» eh' io n^lio trovato altrove: NessQB di qael eh' io passo ai eondanni. Gh' io saprei dirvi mille cose nuove ; Ma pereliè penso, ehe sia detto assai, Sarà ben che al parlar modo ritrove. Io non credetti, quando dentro entrai, Che dovesse V istoria esser si laoga. Onde senza biscotto m' imbarcai. Di nuovo gli si rappresenta T ampiezza, e la profon- lità di questo soggetto, ed immaginasi; che il Fico sia, rerbigrazia, come il Mondo nuovo, che ognuno, che ri va, scopre nuovamente qualche cosa; né per que- ito s' è ricerco ancor tutto. Dice dunque. Io avrei trop- ìa /accenda, idest non compirei mai questo lavoro, se o volessi raccontare quel ehe n' ho trovato altrove , ioè quei paesi, che v'*hanno scoperti, e quelle cose , he n* hanno detto Plinio, Teofrasto, Ateneo, e questi Itri gran Piloti, che vi sono navigati ; e però nessuno [li condanni di quel eh' lo passo, cioè che non iscrivo etto da altri. Che io, cioè per quel che n' ho cerco da le stesso, ne saprei dir mille cose nuove, mille cose on avvertite da altri, che v' ho trovato dentro. Ma erchè mi pare d' aver detto, e cerco assai, e più mi Bsta da dire, e da ricercare, sendo questa una Pro- incia infinita, ed un mare ampissimo da navigare sarà 154 DELLA FIOHBIDB bene che mi ritorni a dietro, e verso quella parte, dove io posso sperare, ch'el mio legno tocchi terra, dove che sia ; che a q«^ta navigazione non veggio d' acco- starmi al lido da ninna -banda, e sono sfornito di cose necessarie. Perchè, quando denaro entrai^ ideai quando presi a fare questa navigazione per^ iscoprire, e dar notizia di questo nuovo mondo, non pensando, cbe il viaggio fosse si lungo, e i paesi tanto grandi, «i»' im- barcai senza biscotto^ cioè non portai provvisione ab- bastanza; quasi volendo dire come quelli, che vanno a Frugnuolo, che gli era mancato Tolio per la strada. L'Arfasatto gli dà un altro senso, e dice, che i Navi- ganti per andar a lungo viaggio hanno a portar del biscotto, cioè del pan duro, che resti sodo per tutta la via; ed egli, pensandosi di non avere a fare tante miglia, avea' portato del pane ordinario,' il quale subito si muffa, e non resiste a lungo viaggio. Chi più ne vuol, Trifoo, più ve n' aggianga. Io lodo assai^ che nascon sema spine, SI eh' altri per toccarle non si punga. Un altro loderà le Damaschine, Perchè non sono dagli nccelii offese ; Chi le Spartane, e chi le Tibartine. A me piaccion le nostre del paese, Che danno a' Beccafichi da beccare; Perchè rendon poi conto delle spese. Trovando il Poeta questo mare delle Fiche infinito e per questo tornandosene indietro, si rivolge a Trifone che era suo timoniero, e stava sopra alla Bussola, di- cendogli quel proverbio: Chi pih n' ha, più ne metta; che recandolo a suo proposito, pare che voglia dire: Io per me mi confondo a tanta larghezza di mare, perchè non ci trovo né porto, né spiaggia, né scoglio dove approdare, e navigo come perduto. Se a te basta r animo d' andar più oltre, va pur da te, eh* io voglio DEL PADRB SICEO. 155 'tornare addietro. Il Forbotta dichiara questo luogo per Tin' altra yia^ e dice, che il Poeta salta subito dalla metafora del Navigante a quella del Coglitore, e che essendo alle mani con un gran pie di Fico, mostra averne colto quanto ha potuto aggiungere col suo un- cino. Poi voltandosi a Trifone, che si trovava una ^an pertica in mano, gli dice, eh' egli non può arrivar più oltre, ma che a volere scuotere questo Fico affatto, gli bisogna aggiungere all'uncino il suo perticone; e cosi fatto, di nuovo rimontano sul fico, e cominciano pure a ritoccarlo, cosi dicendo ; lo lodo assai^ che na- acon senza spine. Se l'altre frutte son buone, son an- che quali ronchiose, quali spinose, quali hanno nocciolo, quali hanno guscio; in somma, quali un difetto, e quali un altro. Ma le Fiche, dice egli, non hanno spine, che ti pungano, quando le tocchi, nò veruno di questi altri impedimenti, e tutto che siano pur vestite, sono in un tempo ignude, ed ancora con la buccia sono tanto mor- bidone, e tanto calzanti, che senza alcun ritegno t'en- trano. Anzi Papa Giulio. non voleva che si spogliassero, usando dire, che pelle che non si vende, non si scor- tica. È ben vero, che lo Scalandrone m'ha detto una cosa nuova contro queste parole del Poeta, che mi ha fatto maravigliare ; e questa è, che pochi' giorni sono ha trovato un Fico, che punge, e che salendovi suso si senti appuntare al corpo non so che aguzzo, che pa- reva, che gliene forasse; sopra che studisuado trovo, che le Tribadi in Lesbo erano di questa sorte ; e Sai- vestro nostro afferma, che il Fico della Peperina è an- cor' esso cosi fatto, e che a questi giorni bucò il corpo alla Sandra. Tuttavolta un fior non fa primavera, e basta che generalmente non hanno spine, e che se ne dice al giuoco di Tirimattare: toccale, son morbide; spogliale, son bianche ; aprile, son rosse ; mangiale , son dolci. L'è le apponti a quel che l'è. Un altro lo- derà le Damaschine. Queste Fiche non so di che sapor 156 DBLLA PlCfiBIDE si siano, perehè non xie ho mai provate. Benché lo Stor- nello mi dice, che non si chiamano Damaschine, per- chè siano di Damaseò^^ma perchè sono lavorate dì com- messo, e di traforo, come T opere Damaschine 3 eperdiè queste si trovano per ogni canto, vuole che ne abl» gustate ancor io. Ma dicendo il Poeta, che ncm sono dagli uccelli offese, questa sua opinione non mi piace, e vo pensando^ che siano le medesime, che le Alessan- drine , le quali avevano una buccia tanto dora, che se non si tagliava loro col ferro, non si maturavano , e per questo erano sicure dagli uccelli; ed h opinione del BÌ22Ìgorre^ che queste tali Fiche siano quelle, che oggi si chiamano coverchiate, che s'usano dì tagliare con una moneta d' argento, o d' oro, perchè si vengano a maturare: della qual sorte fu il Fico della mia Co- mar Cencia. Benché ei sono di quelli, che vogliono, che queste Damaschine siano Fiche Pinzochere riser- vate dentro a grati di ferro, perchè gli uccellacei, che passano, non ne possono beccare: della qual sorte se ne trovano per li monasteri, e non se ne gusta per altri, che per certi corbacchioni fratacci che talor v* en* trano per qualche maglia rotta. Le Spartane* Se que- ste son quelle Fiche di Sparta, in una delle quali volle quella Donna ricevere il suo Figliuolo, che tornava dalla guerra senza scudo, dubito, che non sieno troppo grandi. Ma costoro dicono, che sono come le altre Fi- che Greche, quali non hanno manco provate. Ebbi vo- glia d'assaggiare di quello della Cornar Manetta, ma per non morir con quella faccenda intirizzata, non me ne sono poi curato: ancorché Fra Rinaldo mi prmnet- teva d'assolvermene. Le Tibwhine. Dì queste vi so io render conto, che sono una ghiotta cosa, se già non mi parvero buone per carestia deir altre. Perciocché ci trovammo una volta in Monte Cavallo in guardia di peste, da otto o dieci buon compagni, ed una Donna dabbene di quel Paese di Tivoli ci fece le spese a DSL PADBE SICBO. Ì5T tutti col .SUO )i>uon Fico. £ da quello cred*io, che ve- lusBe, che non ci appestammo : acciocché non vi mara- vigliate^ se il Poeta dirà poi, che le Fiche sono con- tra veneno; e se Mitridate le mise in quella sua com- posizione per antidoto di esso. A me piaceion le no- atre del PA%«e. Sendo tante sorti di Fiche, e tante sorti di gusti, non può il Poeta dar sentenza, delle mi- gliori di tutte ; ma dice bene, che a lui vanno più a gusto quelle del Paese, le quali sono intese da alcuni per nostrali, e casalinghe ; e per esser a Roma, per ro- manesche, che sono molto saporite. Ma chi. vede sottil- mente, si risolverà, che voglia dire delle sue modenesi. Perciocché il Pico di Modena è celebrato per tutto il mondo, ancorché sia in proverbio : Fiche ferraresi ; Mele bolognesi, e Fave mantovane. £d Ogo Bagogo vuole, che per questo le rotelle modenesi siano còsi buone Fiche. Aristotile nel quarto della Posteriora dice, che il Fico da Modena é tanto prezzato , perché è maschio , cioè duretto , raccolto^ e rotondo. Per- ciocché vuole , che le migliori Fiche siano le sode 7 come le Mele; e le migliori Mele »ano le morbide, come le Fiche. Che danno a* beccaficht da beccare. Vuole, che queste Fiche modenesi abbiano una condi- zione, che non siano beccate dagli uccelli grandi, per- chè sono tanto ingordi, ed hanno si gran becchi, che le stracciano, e le cincischiano tutte ; vuol bene di quelle, che sono cominciate a beccare, perché è^ segno che sono mature^ ma che sono beccate da uccelli pic- coli, come Beccafichi, che hanno certi becchetti sottili) che appena forano la lor pelle ; talché U di dentro re- sta salvo. Perchè rendan poi conto delle spese. Dice cosi, perché quando questi uccelletti beccano Fichi, son buoni ad esser beccati ancor essi; onde che i ghiotti d* oggidì tengono delle Fiche piuttosto per esca, eflper zimbello di Beccafichi, che per essi stessi t.cbe per que- sta via facendoli dar nella ragna, fanno scontar loro 158 DRLLA StOflBIDE le . beccature de' Fìclii. Percbè in verità si rigolvoi tatti, che il Beccafico sia il miglior uccella che si alla barba del Padre Marziale, ebe vuol che sia glio il Tordo ; come anco de* quattro piedi, che la pre sia miglior del Capretto, che dai Dottori della gobi non è accettato. Benché quanto a* Beccafichi lo Com- mentator lo scusi con dire, che aveya troppo grande Bchedione in si 'piccioli uccelli, e che all'infilzare fi sferebrava tutti; e però commendava più i Tordi, chei sono più appannatotti, e non sono cosi guasti dallo schedione. Ma a questo si trova rimedio ; che si pos- sono infilzare con tanta maestrìa, che non si guastina Cosi poteva far egli, se non fosse stato un balordo, che mi risolvo che fosse a ogni modo, quando considerOi che si maravigliava, che le Ficedole fossero dette da Fichi, e non dalPuve; come quello, che giudicava, r uve fossero da tanto, e da più che le Fiche. Ma tanto avesse egli fiato, quanto diceva il vero ; e quanto s'intendeva de' Fichi, di questi che noi diciamo, cioè che de' Fichi di Ciciliano, e de' Ficosi, e delle Fieose^ e di queste sporcherìe, se n'intese, ed andò lor dietro pur troppo. Questo basta a ehi tooI lor fama dar* Ancor che al tempo antico già gli Atleti Usaitser con le Fiche d' ingrassare. Peri in Provenza in qaei Paesi lieti n giurar per ma Figa è no sagramento^ Gh' nsan le Donne, ond* ogni buon s' acqueti. Hovvi già detto, che questa* è una serenata alle Si- gnore Fiche, e però interviene al Poeta il medesimo, che a uno innamorato, che canta alla finestra della sna Signora; che quando ha detto parecchi strambotti, ti spicca una partenza per andarsi con Dio; poi il Ma^ tello, che lo scanna, lo ferma, e rìcomincia a cantare, e rif& r altra partenza ; e con tutto ciò ricanta, e chie* DBt PADRE SICJSO. i69 dendo licenza non se ne va. Il Padre Siceo è ^à un pezzo, che volle sonare a raccolta, e cacciossi più in- nanzi che prima ; poi domandò licenza, eh' era stracco, e come Anteo non prìma toccò terra, che si rizzò più gagliardo, che maL Ora dice, che basta quello, che ha detto, e por si rappicca a ridire. In somma queste Fi- che sono il suo amore. E finché gli si dimena la fan- tasia, e le Signore Fiche non chiuggono le finestre, egli diromperà sempre a di lungo. Lo Strambottino, che dice ora, è, che al tempo antico^ ideai quando quelli uomaccioni andavano ignudi, e sbracati, usavano d'in- grassar con le Fiche. Della qual cosa il Cafaggea molto si maraviglia, e dice, eh* egli ne è smagrato, non ingrassato. Ma non vi maravigliate già di lui, aven- do uno stomacuzzo di taffetà, ed essendo bacato co- m'egli è. Il Poèta dice degli Atleti^ che ne ingras- savano ; che erano lottatori usati alla fatica, gagliardi, Biienuti, membruti, nerboruti, e non canne vane, smilzi e dilombati come esso. Che li complessionati, c'■' < | aj i LETTERA GIOVANFRANCESCO LEONI. Nasutissimo Messer I^Giovan Francesco. Dicesi, che 8* era un tratto un certo Tempione, che si trovava un paio di si gran tempiali, che facendo alle pugna con chiunque si fosse, né per molto ch*egli si schermisse, né per lontano che l'avversario gli tirasse, si poteva mai tanto riparare , che ogni pugno non V investisse nelle tempie. Di questo mi sono ricordato adesso, che ho pen- sato un gran pezzo a quel ch'io vi potessi scrivere, e in somma mi vien pur dato nel vostro Naso: perchè la grandezza sua mi si rappresenta per tutto, tanto è ri- masto nelle menti, nelle lingue, e nelle penne di ognuno* Sicché volendovi scrivere , non posso dirvi d' altro ; e scrìvervi mi bisogna, poiché voi me ne richiedete, che siete stato Re; e di che sorte Be, di Fava forse, o di Beibna : Be del Begno delle Virtù , talché non si vide mai corona meglio calzata della vostra, né scettro me- glio innestato che nelle vostre mani, né seggio meglio empiuto che dalle vostre mele, ancorché il Be cuccù* lato si trovi più badial culo del vostro. Lasciamo stare che non fu mai il più virtuoso Be di Voi. Sannoio quelli, che v' hanno veduto recitare fino a un punto il Caro, 19 178 LETTERA contenuto di parecchie carte, senz' altramente leggerle. Ma queste cose sono un nulla a petto a quel Naso, che vi dà quella maggioranza, che avete sopra noi altri. Con questo vi fate voi gli Uomini vassalli; per questo le donne vi sono soggette. Beato voi, che vi portate in faccia la meraviglia, e la consolazione di chiunque vi mira. Ognuno strahilia, che lo vede, ognuno stupisce, che lo sente. A tutti dà riso, a tutti desiderio. Tutti i Poeti ne cantano; tutti i Prosatori ne scrivono; tutti coloro, che hanno favella, ne ragionano : e non sarebbe gran fìitto, che per infino alle Sibille ne profetizzassero; che gli Apelli lo dipingessero, che i Policleti lo inta- gliassero; e che Michelagnolo nell'un modo e nell'al- tro rimmortalasse. Qui, da poi che voi siete partito, s'è fatto più fracasso di questo vostro Naso, che della gita del Papa a Nizza, e del passaggio, che prepara il gran Turco ; tanto che mi par diventato la trpmba della Fama, che da ognuno è sonata, e da ognuno è sentita. £ por ieri mi fu detto, che c'era una nuov^ Nasaria in Sonetto, che benché dica le cose dette, non è per^ che il vosro Naso non sia il bersaglio dell'arco, o dell'azchetto della lira d' Apollo , o come un flauto, o una cornetta delle Muse; poiché tutti i Poeti vi mettono bcNCca; ed ecci opinione, che quest'anno Pasquino non voglia altra me- tamorfosi, che del vostro Naso. E farebbe gran senno il gaglioffaccio a farlo, volendo ricuperare quel credito che s'ha^ già perduto con le Muse, perchè non/cced<^ che sia stronzolo in Parnaso» che non si volesse, pr» sentare al vostro Naso: Naso perfetto , Naso principale» Naso divino. Naso che t>enedetto sia sopra lutti i Nasi; e benedetta sia quella mamma, che vi fece cosi iwuto; e benedette tutte quelle cose., che voi annasate» Prego Iddio, che metta in cuore al Britonio, che vi faccia una Naseide più grande che quella sua rotonda; e che ogni libro, che s^ compone, sia Nasca in onore della Nasale Macjtu Vostra ; e che non sia si forbito Nasino ^ nò sì J LETTERA A GIOVANFBAKCESOO LEOm. 179 stringato Nasetto, né si rigoglioso Nasorre, né si sper- ticato Nasaccio, che non sia vassallo, e tributario della Nasevolissima Nasaggine del Nasutissimo Nason vostro. Ora, per la riverenza che io gli porto, non posso man- care d'avvertirvi di quanto io conosco, che faccia a glo- ria, ed a mantenimento di esso. Sappiate dunque, che queste sue gran lodi, che vanno attorno, hanno desta un' invidia a eerti altri gran Nasi , che quantunque a petto al vostro siano da Barbacheppi, da Caparroni, da Marzocchi piuttosto che da Be, per la grandezza loro 8Ì tengono degni di participare delle prerogative del vo- stro. £ sono tanti, che, se state lungo tempo assente, mi dubito, non vi troviate corsa questa preminenza Na* sale. £ questo è il pericolo, che portate dalle bande di qua. Di costà ne correte un altro, che se venite alle Na* sate con quel del Be, e non gli togliete la Francia, temo che non ne perdiate tanto di nputazione, che non sia poi Naseca, che non voglia fare a taccio col vostro Na* Bone. Che certo questo affronto sarà come un' opposi- sdone di due gran Luminari, dove bisogna, o che voi facciate eclisse al suo,ì> che egli la faccia al vostro. Sicché andatevi provvisto, e valetevi dell'armatura, ch'io vi detti; o si veramente incallitevi, o rigonfiatevi il Naso con que' vostri calabroni; che se tornate in qua sna- sato, vi soneremo le tabelle dietro. Né altro del Naso. Il Begno della virtù é in declinazione; e la Primera, se non si rimette gli darà scaccomatto. La Begina Gi- già Nasafica é stata per tirar le calze; or'é sana, di corpo cioè, che del resto imperversa più che mai. Bac* comandatemi a tutti i nostri vurtuosi di Corte ; e resto servidore del vostro Naso. AUi 10 d' aprUe 1581. Fine della Lettera a Gian Francesco Leoni. LA STATUA DELLA FOIA OVVERO DI SANTA NAFISSA DICBBIA AL SESTO RE DELLE VIRTÙ' 1^-^»-^ Il Serenistimo He. Quando, pochi giorni sono, la Maestà Vostra non aveva di questo Regno ancora altro che il merito , io venni con alcuni altri a capitare' per avventura nella sua stanza privata , e mi parve da principio d'esser entrato- in una bottega di vettine: tanti e si gran vasi antichi vi vidi raccolti, fra i quali il suo Mess. Fer- rante mi mostrò la brocca, con che Egeria andava per l'acqua alla fontana, la tinozza, con là quale Lu- crezia romana faceva il bucato, e un barattolo, dove Marzia di Catone teneva le noci conce. Dall' altro can- to , vedendo un gran monte di teste mozze , di gambe fracassate, di braccia rotte, e d'altri memlvi e arnesi squarciati, smorsecchiati e cincischiati tutti, mi si rap- presentò davanti la spelonca di Polifemo, la notomia del Vecelli, e la Sconfitta di Roncisvalle. Ma ravve- dendomi, ch'era di pietra, giudicai, che la M. V. fiisse un galantuomo, e che si dilettasse d'anticaglie e d'al- tre cose rare, si come intesi poi ; e perchè ella mi donò nel partire un certo suo Nicchio fantastico, quale ho messo fira l'altre mie ricchezze di mare; a rincontro di 184 JjA statua della foia quello (poiché la conosco raga di cose antiche) ho pensato di presentarle questa sera^ per conveniente tri- buto, una mia Statuetta di marmo: cosa degna , come a me pare, della M. V. per essere, com'ella vedrà, d'ar- te, di prezzo e di misterio molto notabile. Questa figura alle poppe, alle fattezze ed all' abito donnesco, senza dubbio è di una donna; e non dì me- no ha d*4iomo uno bischero ardito , intirizzato e appannato assai bene, e con ambe le mani alzandosi i panni di- nanzi per insino al bellico, lo mostra al popolo con un paio di granelli sodi e raccolti : in somma è una biz- zarra cosa, e ho domandati di bizzari cervelli per sa- pere quel eh' ella sia, e quel che significhi ; i quali tutti trovo diversi. U Binuzio isterico dice , che '1 suo Orto vuole, eh' e' sia il suo Iddio, il che non mi piace, perchè quel ribaldone era un cotale legnaccio, abbozzato di mano di Noddo, dal mezzo in giù e dal mezzo in su un sa- tiraccio,come quel berlingozzo, ch'egli ha fatto di^Àngere in testa del suo viale ; dove questa è interamente umana, e di mano di perfettissimo maestro, secondo Fra Bastiano, il quale dice, oh' e' pizzica del letto di PoHdeto. Miche- lagnolo la voleva ritrarre per servirsene in Cappella, e io non ho voluto. Il Maroniano, il Corvino e '1 Gan- dolfo, i tre chiarissimi Modanesi sono tutti d'una opi- nione , e con molte efficaci ragioni vogliono provare, eh' è sia il loro Fotta da Modana, il quale, benché fosse donna , fu chiamato col nome maschio, perchè fu una viragine, cioè una donna maschia di costumi, la quale, per quel nome Fotta , vollero che si sapesse , che fa femmina di sesso, e per quello articolo di maschio, •che ne' fatti si portasse da uomo. E che di queste donne si trovino , allegalo Salvestro Battiloro , autore delle calze solate, il quale fa menzione d'una donna, che faceva quelle tristizie a' fanciulli; e tutte le donne di quella sorte domanda Atterrone , perchè atterrano gli uomini; delle quali il Fotta fu una ; per questo BIC£BIA 185 vogliono che gli sia attribuito il segni» dell* nomo. Ma una cosa mi fa credere , eh' e' non sia quello che dicono f perchè, il Fotta non ha di maschio se non r articolo, e questo si trova un articolo di maschio , che mi paro altro che hie , et haec , et hoc» Claudio Folistore afferma- ch'ella sia una di quelle fiche belle, ehe furono confinate e distrutte dalle brutte | e dai baccelli piccoli: ^ vuole f che quel rilievo , che le va su per lo corpo, non sia il baccello, come pare, ma quel poggetto della cioncia, che aveano le belle, il quale non era, com'è oggi, quella scarsellaccia delle brutte, ma ritondetto e duro a uso di pincio, come si vede in questa ; e facendoli io istanza, che se ciò fus- se, i granelli non vi sarebbero, egli cita l'Arsiccio, il qual vuole, che certe donne gli abbino^ e le maschili specialmenle: e dice, che trova inTurpino, che Marfisa e Bradamante gli ebbono grossi come pallq lesine, e che l'Ancroia gli ebbe ancor ella: il che non s'accorda con la Trebisonda, la quale dice, chefii Paladina ^ per- ch'ebbe una spanna di cioncia più che l'altre donne. Ma questa opinione non mi calia ancora affatto, per- chè è alquanto diversa di quella dell'Arsiccio. U Padre Cuculiato dice, che. questa .è la Dea Natura, la quale, essendo universale e creando maschi e femmine e fem- mine e maschi insieme, è ragionevole, che abbia la Na- tura insieme col Naturale, e' 1 Naturale nella Natura ; il quale è un parere molto naturalone, e piacerebbemi, se non che non ci veggo se non il Naturale dell'uomo, dovè vi deverebbe esser ancora dell'altre bestie, poiché tanto è natura per gli uommì, quanto per loro.: e poi si vede neli' antico che la Natura si formava con quelle tante poppe intorno e non come questa. Il (jralletto ricciuto vuole, che questa sia la statua di Venere maschia, la quale ebbe il tempio nel Campidoglio ; e che la maschia vi fosse lo prova quello emistichio: pollentemque Deum Ycnerem ; ed è d' opinione^ che ancor ella fusse Atterrona, 186 LA STATUA DBLLA FOIA « per questo che ella abbia cosi il biscliero. Questa sua fantasia dà quasi nel buco;. ma c'è ancor meglio. Baiando 'Frngi dice^ eh* e' potrebbe essere TAndrogmo di Platone perchè quella bozza, che le sta dietro e se '1 mastro l'avesse fornita, sarebbe un* altra persona attaccata con essa ; ma non può essere, perchè quello aveva tante gambe e tante braccia, dove questo non n'ha pur due intere. Di questi altri, i più dicono, eh' è l'Ermafrodito, é abbacano, per- chè gli Ermafroditi che si veggono per Roma nono d'un' altra fatta. L' opinione di maestro Giuseppe Me- dico è, eh' ella sia la Dea della Peste , e ehe quella maladizioné, che tiene fra le coscio, non sieno i granelli uè il manico, ma un gavocciolo di qua, e l'altro di là e che quel rilievo di mezzo è un carboncello; e perchè ha due gavoccioli, ci tiene tuttedue le mani, dove san Rocco non ce ne tiene se non una, perchè aveva un ga- vocciolo solo. E peravventura se gli crederebbe da qual- cuno, se non che gli è Tedesco, e mostra d'avere poca notizia de' Taliani, poiché e'non conosce il Taliano, dal gavocciolo, che non hanno altro da far insieme, se nonché nono vicini. Ma da questa vicinanza si potrebbe ancora provare, che un Tedesco fussi una medesima cosa che un barile, e '1 barile che il Tedesco, perchè stanno vo- lentieri l'uno a canto dell' altro. La opinione mia ^ conforma con quella del nostro Leoncidalgo , il quale tiene per fermo , che sia l' ima- gine delle Dea Tetigine, la quale egli toscanamente chiama Foia. Questa io trovo, che a' tempi di quel vec- chione di Saturno non era ancora dea, perciocché an- dando gli uomini e le donne ignudi per tutto; e i fichi, le mele e i baceegli a discrezione di tutt' uomo, non si trovando massimamente né gonne lunghe , né questa ribalderia di calze, di brache, e di brachieri; l'Abbondanza, la quale era sua mortai nemica, la te- neva sotto. Cominciarono poi le buone robe a coprirsi, e stare rìachiuse ; donde che Giove, quando aveva mar- mcBRiÀ 187 BCO>^;ÒOE r ùti^teiv